Il balletto delle Nazioni, 1915
di Violet Paget (Vernon Lee) a cura di Bruna Bianchi


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3 luglio 2017

 

Lo spirito della guerra

di Miguel Martinez

 

Siamo forse alla vigilia di una grande guerra. Guardiamoci attorno, lungo tutte le frontiere del mondo. Dobbiamo imparare cosa voglia dire guerra e pensarla tutti i giorni per rifiutare il suo dominio, capire, imparare ad amare la vita

 

Siamo alla vigilia di una grande guerra. Guardiamoci attorno, lungo tutte le frontiere del mondo. Dalle Filippine al Qatar all’Ucraina ai confini del Messico, non aspettano altro.

Potrà non scoppiare mai: le guerre avvengono sempre per un caso idiota e imprevedibile. La Russia non attaccò la Turchia, che ne aveva abbattuto un aereo sui cieli siriani. Il ministro degli Esteri dell’Austria Ungheria decise di porre condizioni impossibili al governo della Serbia, senza nemmeno accertarsi prima di avere un esercito pronto per imporle. E come tutti coloro che giocano con il fuoco, fece saltare in aria il proprio paese, con la magra soddisfazione di aver portato nella tomba anche innumerevoli giovani serbi. Insomma, non sai da che parte può cadere il dado, quando lo si lancia.

Spero che sarà una vigilia molto, molto lunga. Ma abituiamoci, impariamo cosa voglia dire guerra, abituiamoci a pensarla tutti i giorni.

La mia amica Vernon Lee (il fatto che lei fosse morta molti decenni prima che io nascessi non cambia nulla nel nostro reciproco affetto), scrisse nel 1915 Il Balletto delle Nazioni, un testo teatrale che pare che nessuno abbia mai messo in scena, e che spiega, con una lucidità immutata a un secolo di distanza, cosa sia la guerra.

B., la nostra cantante lirica che viene dalla Macedonia, suo fratello vende clandestinamente straordinarie creazioni di fil di ferro sul Ponte Vecchio, ci racconta di come la guerra incomba sul suo paese, come un destino ineluttabile… le parlo del Balletto delle Nazioni, chi sa se un giorno riusciremo a raccontare la vera storia di Satana al mondo…

 

Vernon Lee era europea – nata in Normandia, vissuta in Francia, in Italia, in Germania, in Inghilterra; e dentro di sé possedeva una conoscenza a noi perduta delle lingue, a partire dal latino e dal greco, ma anche del tedesco o del francese, e dell’arte che formava il nostro continente. In tempi in cui le illustrazioni a colori erano una rarità, sapeva tutto sui pittori del Rinascimento, le cui opere era andata a vedere a piedi.

Quando nel 1914 scoppiò la guerra, non è che non avesse patria: erano tutte le sue patrie. Per questo, diceva di avere per forza di cose una visione copernicana, in un mondo in cui tutti vedevano l’universo girare tolemaicamente attorno alla loro unica, piccola patria. Voi girate tutti attorno a un Sole più grande di voi.

Appena finita la guerra, Vernon Lee scrisse un’introduzione al Balletto delle Nazioni e vi aggiunse un lungo testo di riflessioni filosofiche (l’editore le aveva detto che queste riflessioni erano di troppo, un secolo dopo me le sono lette tutte riga per riga). È un testo molto denso, che mi piacerebbe commentare in dettaglio (è uno dei pochissimi libri che io abbia osato sottolineare a matita), ma in particolare mi colpisce quando cerca di esporre la grande difficoltà che prova a comunicare con quasi tutti i suoi vecchi amici, tanto inglesi quanto tedeschi.

 

Persone che “a mio avviso, sono state complici, hanno alimentato e in alcuni casi hanno messo in atto, la calamità più abominevole di tutti i tempi”

Eppure, lei sapeva che Il Balletto delle Nazioni avrebbero urtato profondamente la loro sensibilità. Vernon Lee ricostruì nella sua immaginazione il discorso che tutti, tedeschi come inglesi, le avrebbero potuto fare.

Se cogliete la capacità di Vernon Lee di apprezzare, da una parte, il genius loci di ogni singolo angolo dell’Europa, e dall’altra come cercava di immaginarsi fino in fondo le ragioni proprio di coloro che l’avrebbero disprezzata, capirete perché la considero infinitamente superiore, ad esempio, a Bertolt Brecht: pacifista anche lui in quella specifica guerra, con una grande capacità di cogliere davvero i difetti altrui; ma poi, da lì, capace in fondo soprattutto di demolire, spesso di odiare, al massimo talvolta di commiserare, ma mai di amare e di capire.

 

Ecco l’inglese/tedesco/francese/italiano/austroungarico che parla:

“Noi sappiamo di prendere parte al più grande e deliberato sacrificio mai fatto per quelli che sono i più alti obiettivi immaginabili. Liberamente, spontaneamente, deliberatamente e con passione offriamo le nostre vite, e le vite che ci sono ancora più care delle nostre, assieme a tutto ciò che rende dolce la vita, in quella che per noi è un’immensa contesa tra ciò che è giusto e ciò che è vile, l’onore e il disonore, la libertà e la servitù, l’ordine futuro e l’illegalità futura.

Sappiamo che stiamo facendo ancora di più; sappiamo che per questo motivo, afferriamo le armi e i metodi che più aborriamo. Noi che abbiamo in orrore la guerra stiamo facendo la guerra a coloro che ritengono che la guerra non sia un crimine.

Ecco cosa proviamo verso questa guerra a cui partecipiamo con orrore, ma per scelta deliberata.

E tu, con questa superficiale satira, dipingi lo scontro tra il Bene e il Male, la prova di forza tra la Giustizia e l’Ingiustizia, come un semplice cataclisma collettivo mondiale di cui tutti sono ugualmente responsabili o meglio irresponsabili; osi rappresentarlo come una mera involontaria, insensata danza della Morte, priva di significato, dove tutte le Nazioni, tra cui c’è poco da scegliere, si prendono per mano in obbedienza imbecille, abominevole, agli sviolinamenti di Satana.

È forse questo, davvero, il senso di ciò che dici?”.

A cui Vernon Lee risponde, “It is”, è proprio questo il senso. In fondo, basta ricordare che le parole appena citate potevano essere dette, ugualmente, a Londra o a Berlino nel 1915.

 


Miguel Martínez è nato a Città del Messico, è cresciuto in giro per l’Europa e soprattutto in Italia, ed è laureato in lingue orientali (arabo e persiano). Di mestiere fa traduttore e trascorre molto tempo in un giardino comunitario di Firenze. Questo il suo mai banale blog.

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