Telegrammi della nonviolenza in cammino

Numero 2771 del 18 luglio 2017

 

Ernst Bloch (Ludwigshafen, 8 luglio 1885 - Tubinga, 4 agosto 1977) e' il grande filosofo dello "spirito dell'utopia", del "principio speranza", dell'"ortopedia del camminare eretti" (per citare alcuni titoli ed espressioni delle sue opere che sono altrettante proposte di riflessione e di lotta per la dignita' umana); la sua riflessione e la sua testimonianza (come quelle - ad un tempo in tensione dialettica e complementari - di Guenther Anders e di Hans Jonas, di Hannah Arendt e della scuola di Francoforte, delle opere piu' aggettanti di Karl Korsch e di Gyorgy Lukacs) apportano decisivi contributi all'elaborazione di una teoria e una prassi politica della nonviolenza in cammino adeguata alla situazione presente, che costituisca un progetto di alternativa economica, politica e culturale capace di fondare una societa' liberata e solidale che sappia riconoscere e promuovere i diritti umani di tutti gli esseri umani e la piena, consapevole, responsabile difesa della biosfera.

 

Spirito dell'utopia di Ernst Bloch

La Nuova Italia, Firenze.


https://www.nuovatlantide.org/

 30 luglio 2014

 

Ernst Bloch: Contestuale a Lo spirito dell’utopia

Nicola Boidi Intervista Ernst Bloch

 

Contestuale a Lo spirito dell’utopia. 

 

«L’importante è ricordarsi degli inizi e fare sempre in modo che il pensiero sia simile ad un’opera d’intaglio». E. Bloch

 

Quello che segue è una parafrasi e sintesi delle considerazioni che il filosofo tedesco Ernst Bloch svolge in un intervista in presentazione della edizione italiana della sua prima opera – Lo spirito dell’utopia – cinquantasei anni dopo la sua edizione tedesca originaria. Le sue riflessioni sono sintetizzate e a volte interpolate da annotazioni a margine di mio pugno, al fine di una mia chiarificazione interna. Mi auguro che ciò non infici la pregnanza delle argomentazioni blochiane, di un’«attualità senza tempo». 

 

L’opera consiste di più parti

 1)Intenzione.

 2)La parte centrale : «L’incontro con il Sè». 

 

 Essa comincia così: «Una vecchia brocca». Essa è già un incontro con il Sè. Io inerisco alla vecchia brocca. Una brocca a uomo barbuto della regione renana, che risale sino ai Romani. Di questo incontro con il Sè nello Spirito dell’utopia è detto: «non tutte le pozzanghere mi inzaccherano, non tutte le stecche mi costringono alla piega voluta. Ma posso certamente essere formato a misura della brocca e in realtà mi vedo come qualcosa di bruno, fatto in maniera bizzarra, simile ad un’anfora nordica; e non solo per mimesi e semplice empatia, ma anche perché grazie ad essa divento, per parte sua, più ricco e presente, e in quest’opera in cui il mio io è contesto continua la mia educazione a me stesso. Qui non mi esperisco in un uomo, in un opera d’arte; la brocca non è un’opera d’arte. Eppure anche qui come in un’opera d’arte ci si sente proiettati in un lungo corridoio in pieno sole, che termina con una porta. Questa non è un’ opera d’arte, la vecchia brocca non ha nulla di artistico in sé, ma un’opera d’arte dovrebbe almeno apparire così per essere tale, e sarebbe già molto».

Ogni frase sulla brocca ha un legame segreto con ciò che segue e in particolare: 

3)La produzione dell’ornamento. Che cosa ci viene incontro nell’ornamento in forma mascherata? Perché l’ornamento dell’antico Egitto è come un cristallo mentre il gotico e il barocco hanno ornamenti inquieti, lussureggianti, tendenti verso l’alto? Come e perché è scomparsa del tutto nell’architettura contemporanea la capacità di produrre ornamenti? E perchè mai questa architettura è diventata geometrica e geometrizzante? Che cos’è la commozione che proviamo di fronte a un volere diventare cristallo dell’ornamento architettonico o al suo volere diventare vita o resurrezione? 

Qual è il significato filosofico di ornamento? Non certo la banale decorazione o vezzo, ma un guardare, un camminare verso di sé. Nell’acanto o nella traforatura della pietra gotica o nel barocco ci viene incontro la nostra forma, la nostra essenza umana. Si potrebbe riassumere il rapporto con l’ornamento sotto la categoria «del tentativo di un incontro con il Sè». 

C’è poi la parte dell’opera intitolata «Filosofia della musica»: che ne è del linguaggio nella musica? Perchè ognuno crede di comprenderla e tuttavia nessuno sa che cosa essa significhi o quale sia il significato di una melodia? Perchè la musica può andare, a mò di prostituta, con ogni testo? La musica, la più giovane di tutte le arti (è solo dalla tarda sera della nostra storia dell’arte, a partire dal XIV secolo, che si tentò per la prima volta, almeno come polifonia, la musica). Quest’arte giovane ha nel suo linguaggio qualcosa d’infantile, poiché essa balbetta un caldo ciangottio di bimbo (la sua «lallazione») che non ha ancora trovato la parola: quando penetrerà il linguaggio nella musica? Quando cominceremo a comprenderla in modo chiaro come fosse una parola detta? Proprio perché permane aperta e indeterminata o indefinita, la musica è una spedizione in utopia, nell’utopia di noi stessi, e quindi anche in essa echeggia l’incontro con il Sè. 

Segue la forma del problema incostruibile : tra i molteplici problemi che ci assillano c’è ne sono alcuni costituiti da domande che insorgono nell’adolescenza, e che sorprendentemente corrispondono a innovazioni in teorie scientifiche e filosofiche. 

Insomma il costante attacco del domandare filosofico è il sentimento o stato d’animo dello stupore, che corrisponde a sua volta a un domandare ancora indefinito che in filosofia e nelle scienze urta contro un gran numero di risposte già disponibili, con modi di rispondere scolastici e stereotipati. E’ come se fossimo nell’urgenza della ricerca di qualcosa, dell’acquistare o comprare qualcosa, senza ancora sapere cosa. Noi ci struggiamo per qualcosa, cerchiamo qualcosa, ci muoviamo verso qualcosa. La storia delle scienze è come recarsi in un grande magazzino in cui i commessi ci offrono di tutto, eppure ancora «ci manca qualcosa». Se, rimanendo alla metafora commerciale, ci si accontenta dell’articolo in vendita che ci viene offerto, quella domanda originaria cade nell’oblio. Alla domanda che riguarda l’oggetto dello stupore corrisponde pressapoco quest’altra domanda: «perchè vi è qualcosa invece che il nulla? Ma anche, viceversa, se pensassimo che esiste solo il nulla ci porremmo il seguente quesito: «perché vi è il nulla invece che qualcosa?». E’ ben difficile uscire dal cerchio (se non con il concetto di divenire, come insegna Hegel).

Le domande grandi ma straordinariamente singolari, e quindi allo stesso tempo piccole, per le quali non vi è risposta, sono quelle che tutti noi ci poniamo e che la risposta immediata fa differire e dimenticare.

Nel capitolo conclusivo dell’«Incontro con il sé» viene affrontata la regione sconosciuta dello stupore e che banalmente denominiamo «enigma del mondo», quella regione che può abbracciare con gran forza anche grandi oggetti e fa sì che grandi dati ci gettino nella meraviglia e in domande che esigono tutta la nostra attenzione. La regione dello stupore dunque può essere suscitata sia da piccoli accidentali oggetti («l’osservazione che piove», «la vecchia brocca»), sia da grandi oggetti che come segnali annunciano, inaspettata ma tanto attesa, la salvezza. 

Nelle pagine centrali dell’incontro con il sé la carica di spirito utopico si manifesta principalmente attraverso due concetti, anzi i due concetti principali dell’opera: 1) «la tenebra dell’attimo appena vissuto (del qui e ora) »; 2) «il sapere non ancora conscio», con il «non ancora divenuto» che gli corrisponde.

Entrambi i concetti sono perifrasi dell’utopico e sono unite dalla categoria del «non ancora», una categoria che entra nella nostra esperienza attraverso i sogni ad occhi aperti, un sogno diurno assai differente nella sua «natura» dal freudiano sogno notturno: esso non è il suo preludio ma la regione del «Non-essere- ancora». L’esistente non ancora conscio e il Non-ancora-divenuto appaiono nel mondo come tendenza verso qualcosa che non c’è ancora. 

 Il primo concetto – «la tenebra dell’istante appena vissuto» – indica il fatto o l’esperienza che nel punto in cui ci troviamo in ogni istante, non vediamo nulla. Abbiamo un presentimento di questo istante quando è passato, oppure prima, quando ancora lo attendiamo. 

Solo quando «si va un po’ più in là» di questo punto cieco o tenebra dell’immediato «ora»dell’istante temporale e «qui» del luogo spaziale, noi rivediamo la punta della matita che gli passa vicino. 

Forse «l’incontro con il Sè» e la «forma del problema incostruibile» sono lo spazio che recinge la «tenebra dell’immediato»? Tenebra e problema incostruibile coincidono (stupor mundi) ? 

Se la risposta è affermativa allora l’enigma e il mitico misterico di una cosa non si collocano lassù in alto, distanti da noi, troneggiando imponenti nell‘al di là, oltre ogni immanenza, ma tenebra ed enigma devono essere compresi in questa prospettiva che trascende ma non è trascendente (la liberazione dello spirito nel punto di fuga del materialismo storico e somatico), poiché costituiscono l’immanenza più intima di ciò che è. Proprio nella prossimità si nasconde l’enigma , il singolare mistero che qualcosa è; esso deve essere strappato alla prossimità , all’immediatezza, alla cattiva immediatezza e posto a una certa distanza da noi. L’immediato ha bisogno di mediazione per essere visto e pensato. Ma questa soluzione o parola d’ordine per l’immediato può forse essere trovata in determinate impostazioni del problema date dalla metodica sistematrice delle nostre scienze, dal suo ordine riduttivo? 

No, è necessario invece indagare all’interno di una interdisciplinarietà trasversale che può trovare ciò che essenzialmente intende nel meno appariscente. 

La musica, in cui l’inteso appare e tuttavia non appare, è un campo particolarmente significativo. 

Qui ha la sua origine la domanda verso ciò che intendiamo come regno della libertà, per società senza classi, in tutti i sogni diurni di una vita migliore e più identica, non essendo ancora questa presente. Eppure può sempre essere intesa, e (in ogni istante) manifestarsi oggettivamente una tendenza verso di essa e una latenza, cioè un essere nascosto dell’oggetto. 

L’ultima parte di Spirito dell’utopia è intitolata: Karl Marx , la morte e l’Apocalisse.

Essa indica le strade del mondo lungo le quali l’interiore può diventare esteriore e l’esteriore come l’interiore. Nei Manoscritti economico-filosofici (opera giovanile del 1844, ma pubblicata postuma solo nel 1932) Karl Marx parla di naturalizzazione dell’uomo e umanizzazione della natura. L’interiore deve diventare esteriore, quindi naturale, ma nello stesso atto l’esteriore deve diventare come l’interiore. 

Il «come» è decisivo e si volge contro l’idealismo soggettivo e quello oggettivo, non potendosi mai spacciare l’esteriore per l’interiore: esso può solo adeguarsi all’interiore. E’ ciò che accade quando l’interiorità del tutto e non solo la nostra si manifesta nell’esteriore. Questa direzione nelle strade del mondo fa i conti con la guerra in quanto guerra contro Marx e il marxismo, e fa i conti con la morte considerata la più forte antiutopia, perché il suo contraccolpo tronca ogni mediazione. Essa non è l’ultima parola, vi è una realtà che le è extraterritoriale, cioè il non ancora divenuto che non può trapassare come il divenuto. 

Di qui la trattazione dell’Apocalisse, espressione mitica del fatto che la genesi non sta all’inizio del mondo, ma sorge alla sua fine. 

Il mondo giusto e la sua giusta verità non sono ancora apparse; l‘Apocalisse, l’escatologia, la dottrina delle cose ultime, è strettamente congiunta con la questione assai problematica della meta finale verso cui tutto tende, per cui il mondo giusto corre il grande pericolo di mancare sé stesso nel suo manifestarsi e di diventare qualcosa di totalmente diverso dal giusto (di correre verso i punti apocalittici di azzeramento di quattro processi fondamentali di cui ci parla nelle sue opere il filosofo sloveno Zizek, non come fine del mondo ma come suo rovesciamento irreversibile in un contesto «postumano») . Per questo l’apocalisse deve essere avulsa dal suo stadio mitico e mitologico. Ora il problema e il compito è una mediazione dell’immediato quale stretto intreccio di mete lontane e di scopi prossimi (vedi sopra). 

L’immediato che non si può vedere e comprendere, deve manifestarsi nelle mediazioni del processo universale, perché gli occhi si aprano e quindi si realizzi non solo un incontro con il Sè, ma anche un incontro con il mondo, e cioè un incontro del mondo con sé stesso. 

Il mondo è un eccezionale esperimento di sé stesso, un esperimento che non né riuscito né fallito. L’apocalittico in Spirito dell’utopia è una secolarizzazione dei suoi elementi teologici e tenta di rimettere sui piedi il teologico insieme al problema del fine e della finalità, del termine e dello scopo del tutto. 

Questi temi necessariamente s’incontrano con il marxismo e la configurazione di una società senza classi non ancora oggettivamente esistente. Ma di fronte a questa fantasmaticità della metà è però presente l’invariante della direzione dal contenuto non ancora attuale. 

Lo spirito dell’utopia cerca la strada di questa direzione invariante. 

La tradizionale metafisica in qualità di scienza contemplativa considera suoi oggetti di conoscenza massimamente sicuri quelli massimamente remoti nel tempo e nello spazio, per cui il qui presente e il futuro, non potendo essere contemplati, gli sfuggono, poiché essi hanno massimamente bisogno, per il loro concetto completo, della prassi e della decisione della volontà in essa presente, quindi della dialettica marxista tra teoria e prassi, (o dell’ermeneutica della praxis aristotelica che gli è immediatamente succedanea o antesignana nei suoi confronti). 

L’utopia sociale e politica di puro desiderio delle isole o città immaginarie – Utopia, La Città del Sole, Nuova Atlantide – così come le utopie a cavallo tra settecento e ottocento di Saint Simon e Fourier, hanno costituito solo la premessa di una prassi di trasformazione finalmente realizzabile del marxismo, criticando l’astrattezza dell’utopizzare precedente e rafforzando in questo modo la fedeltà all’orizzonte futuro della funzione utopica.

«Il marxismo non è una non utopia, ma il novum di un’utopia concreta». (vedi Principio speranza).

Dunque il contenuto dello spirito dell’utopia esposto per sommi capi va dall’«Intenzione» a «L’incontro con il sè», per ritornare infine al contenuto dell’Intenzione, quasi in una ripresa del tema sinfonico. Tutto ciò che è contenuto nell’intenzione ricompare di nuovo alla fine arricchito dal lungo capitolo dell’incontro con il sé, scrutando la nostra storia e le sue opere, volgendosi all’utopia e quindi a ciò che non è riscattato, che ci attende, che non è ancora giunto e che inoltre è molto minacciato. Noi uomini siamo al fronte del processo di attesa (di speranza) e di fondazione, con la nostra indagine e la nostra esigenza anticipatrice, che illuminano la via davanti ai nostri passi.

 

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