The Attention Merchants

di Tim Wu
Atlantic 2017

Chaos Monkeys

di Antonio García Martínez
Ebury 2016

Move Fast and Break Things

di Jonathan Taplin
Macmillan 2017

Originale: London Review of Books

http://znetitaly.altervista.org

12 agosto 2017

 

Il prodotto sei tu

di John Lanchester 

traduzione di Giuseppe Volpe

 

A fine giugno Mark Zuckerberg ha annunciato che Facebook aveva raggiunto un nuovo livello: due miliardi di utenti attivi mensili. Tale numero, il “metro” preferito dalla società per misurare la propria dimensione, significa che due miliardi di persone diverse hanno usato Facebook nel mese precedente. E’ difficile afferrare quanto straordinario sia ciò. Tenete presente che thefacebook – il suo nome originale – era stato lanciato nel 2004 esclusivamente per gli studenti di Harvard. Nessuna impresa umana, nessuna nuova tecnologia, utenza o servizio è mai stata adottata così diffusamente tanto rapidamente. La velocità della diffusione supera di gran lunga quello della stessa Internet, per non parlare di tecnologie antiquate come la televisione, il cinema o la radio.

 

Pure incredibile: con crescere di Facebook è cresciuta anche la dipendenza degli utenti da esso. L’aumento nei numeri non è, come ci si potrebbe aspettare, accompagnato da un livello inferiore di coinvolgimento. Di più non significa peggio o, almeno, peggio dal punto di vista di Facebook. Al contrario. Nei giorni molto lontani dell’ottobre 2012, quando Facebook raggiunse il primo miliardo di utenti, il 55 per cento di loro lo utilizzava ogni giorno. Arrivati a due miliardi, lo usa il 66 per cento. La base dell’utenza sta crescendo del 18 per cento l’anno, cosa che si sarebbe ritenuta impossibile per un’attività già così enorme. Il maggiore rivale di Facebook quanto a utenti collegati è YouTube, di proprietà della mortale rivale Alphabet (la società già nota come Google), al secondo posto con 1,5 miliardi di utenti mensili. Tre delle successive quattro applicazioni, o servizi, o comunque uno li voglia chiamare, sono WhatsApp, Messenger e Instagram con, rispettivamente, 1,2 miliardi, 1,2 miliardi e 700 milioni di utenti (l’applicazione cinese WeChat è la quarta con 889 milioni). Tali tre entità hanno qualcosa in comune: sono tutte di proprietà di Facebook. Nessuna meraviglia che la società sia la quinta di maggior valore al mondo, con una capitalizzazione di mercato di 445 miliardi di dollari.

 

La notizia di Zuckerberg sulla dimensione di Facebook è arrivata con un annuncio che può dimostrarsi significativo o no. Ha affermato che la società stata modificando la sua “dichiarazione della missione”, la sua versione delle ipocrite devozioni amate dagli Stati Uniti dell’industria. La missione di Facebook era “rendere il mondo più aperto e collegato”. Uno che non usi Facebook, leggendo questo probabilmente si chiederà: perché? Il collegamento è presentato come un fine in sé, una cosa intrinsecamente e automaticamente buona. Lo è, tuttavia? Flaubert era scettico riguardo ai treni perché pensava (nella parafrasi di Julian Barnes) che ‘la ferrovia consentirebbe semplicemente a più gente di andare in giro, incontrarsi e fare la stupida’.  Non occorre essere misantropi come Flaubert per chiedersi se qualcosa di simile non sia vero riguardo al collegare le persone tramite Facebook. Ad esempio, si concorda generalmente che Facebook abbia avuto un grosso ruolo, forse persino cruciale, nell’elezione di Donald Trump. Il vantaggio per l’umanità non è chiaro. Questo pensiero, o qualcosa di simile, deve essere venuto in testa a Zuckerberg, perché la nuova dichiarazione della missione chiarisce il motivo di tutta questa connessione. Afferma che la nuova missione consiste nel ‘dare alla gente il potere di costruire comunità e unire più strettamente il mondo’.

 

Uhm. La dichiarazione della missione di Alphabet, ‘organizzare le informazioni mondiali e renderle universalmente accessibili e utili’ è arrivata accompagnata dalla massima ‘Non essere malvagi’, che è stata fonte di parecchio ridicolo: Steve Jobs l’ha chiamata una ‘stronzata’. Cosa che è, ma non è solo una stronzata. Un mucchio di società, in realtà intere industrie, basa il proprio modello di attività sull’essere malvagi. Le assicurazioni, ad esempio, dipendono dal fatto che gli assicuratori addebitano ai clienti più di quanto la loro assicurazione valga; pare giusto, perché se non lo facessero non sopravvivrebbero come imprese. Quello che non è giusto è l’assortimento di tecniche ciniche utilizzate da molti assicuratori per evitare, nella misura del possibile, di tirar fuori i quattrini quando si verifica l’evento assicurato. Chiedetelo semplicemente a chiunque abbia avuto qualche grosso problema nella sua proprietà. Val la pena di dire ‘non essere malvagi’, perché molte imprese lo sono. Questo è particolarmente un problema nel mondo di Internet. Le società della rete stanno operando in un campo che è scarsamente compreso (ammesso che lo sia) dai clienti e dai regolatori. Quello che fanno, se appena sono un po’ competenti, è per definizione nuovo. In quell’area sovrapposta di novità e ignoranza e assenza di regole, è decisamente apprezzabile ricordare ai dipendenti di non essere malvagi, perché se la società ha successo e cresce, a ciò si accompagnerà un mucchio di occasioni per essere malvagi.

 

Google e Facebook si sono mosse entrambi su questo filo del rasoio. I loro stili nel farlo sono diversi. Un imprenditore di internet che conosco ha avuto rapporti con entrambe le società. ‘YouTube sa di avere in corso un mucchio di roba sporca e desidera cercare di fare qualcosa di buono per mitigarlo’, mi ha detto. Gli ho chiesto che cosa intendesse con ‘roba sporca’. ‘Contenuti terroristici ed estremisti, contenuti sottratti, violazioni dei diritti d’autore. Quel genere di cose. Ma Google, nella mia esperienza, sa che ci sono ambiguità, dubbi morali, riguardo a parte di ciò che fa e almeno cerca di rifletterci. Facebook semplicemente se ne frega. Quando sei in una stanza con loro puoi ben dirlo. Sono [ha fatto una pausa per trovare la parola giusta] ‘sudici’.

 

Può suonare duro. Ci sono stati, tuttavia, problemi e ambiguità etiche fin dal momento della creazione di Facebook, un fatto che conosciamo perché il suo creatore all’epoca teneva un blog. La scena è quella narrata nel film di Aaron Sorkin sulla nascita di Facebook, The Social Network. Al suo primo anno ad Harvard, Zuckerberg subì un rifiuto amoroso. Chi non avrebbe reagito creando un sito web dove foto di universitari sono poste fianco a fianco in modo che gli utenti possano votare quello/a che trovano più attraente? (Il che fa sembrare che si trattasse solo di studentesse: nella vita reale si trattava di entrambi i sessi).

 

Il sito fu chiamato Facemash. Nelle parole stesse del grand’uomo all’epoca:

Sono un po’ ubriaco. Non mentirò. Dunque cosa fa uno se non sono nemmeno le dieci di sera ed è martedì? Il libro dei volti [facebook] del pensionato universitario di Kirkland è aperto sulla mia scrivania e alcune di queste persone hanno foto parecchio orrende sul libro. Quasi voglio mettere alcune di queste facce accanto a foto di animali di fattoria e far votare quale è la più attraente … Partiamo con la pirateria. 

 

Come spiega Tim Wu nel suo vivace e originale nuovo libro ‘The Attention Merchants’ [I mercanti dell’attenzione] un ‘facebook’ nel senso usato qui da Zuckerberg ‘si riferiva tradizionalmente a un opuscolo materiale prodotto presso le università statunitensi per promuovere la socializzazione al modo degli adesivi “Salve, mi chiamo” nel corso di eventi; le pagine consistevano in serie su serie di foto di teste con il nome corrispondente’. Harvard stava già lavorando a una versione elettronica dei ‘facebook’ dei suoi vari pensionati. La principale rete sociale, Friendster, aveva già tre milioni di utenti. L’idea di mettere insieme le due cose non era del tutto una novità ma, come disse all’epoca Zuckerberg, ‘Penso sia piuttosto stupido che all’università ci vogliano un paio d’anni per arrivarci. Posso far meglio e posso farlo in una settimana’.

 

Wu sostiene che catturare e rivendere l’attenzione è stato il modello fondamentale di un gran numero di imprese moderne, dai manifesti della Parigi del tardo diciannovesimo secolo, attraverso l’invenzione dei giornali di massa che facevano soldi non mediante la circolazione, bensì vendendo le inserzioni pubblicitarie, fino alle moderne industrie della pubblicità e della televisione finanziata da essa. Facebook rientra nella lunga linea di tali imprese, anche se potrebbe essere l’esempio più puro di sempre di una società la cui attività consiste nel catturare e vendere l’attenzione. Nella sua creazione c’è voluto pochissimo pensiero. Come osserva Wu, Facebook è ‘un’impresa con un rapporto eccezionalmente basso tra invenzione e successo’. Quello che Zuckerberg aveva di originale è stata la capacità portare a compimento le cose e di vedere con chiarezza i grandi temi. La questione cruciale riguardo alle nuove società di internet è la capacità di eseguire piani e di adattarsi a situazioni che cambiano. E’ la competenza di Zuck in questo – nell’assumere ingegneri di talento e di navigare le tendenze del grande quadro della sua industria – che ha portato la sua società dove si trova oggi. Quelle due grandi società sorelle sotto l’ala gigantesca di Facebook, Instagram e WhatsApp, sono state acquistare, rispettivamente, per un miliardo e 19 miliardi di dollari, in un momento in cui non avevano entrate. Nessun banchiere o analista o persona assennata avrebbe potuto dire a Zuckerberg quanto valevano quelle acquisizioni; nessuno lo sapeva meglio di lui. Era in grado di vedere dove stavano andando le cose e di contribuire a farle andare là. Quel talento è risultato valere diverse centinaia di milioni di dollari.

 

Il brillante ritratto di Zuckerberg da parte di Jesse Eisenberg in The Social Network è fuorviante, come sostiene Antonio Garcia Martinez, un ex dirigente di Facebook, in Chaos Monkeys, il suo libro piacevolmente caustico sul suo periodo presso la società. Lo Zuckerberg del film è un personaggio molto credibile, un genio dei computer situato da qualche parte nello spettro dell’autismo con abilità sociali tra minime e nulle. Ma non è così che l’uomo è davvero.

 

Nella vita reale Zukerberg studiava per una laurea con una doppia concentrazione sulle scienze informatiche e – questa è la parte che la gente tende a dimenticare – sulla psicologia. Chi è autistico ha un senso limitato di come funzionano le menti degli altri; gli autistici, è stato detto, sono privi di una ‘teoria della mente’. Zuckerberg non tanto. E’ benissimo consapevole di come funziona la mente delle persone e in particolare nelle dinamiche sociali della popolarità e dello status. Il lancio iniziale di Facebook era limitato a chi aveva un indirizzo email di Harvard; l’intenzione era di rendere l’accesso al sito esclusivo e oggetto di aspirazione. (E anche di controllare il traffico del sito in modo che i server non si bloccassero mai. Psicologia e scienza informatica, mano nella mano). Poi è stato esteso ad altri campus d’élite negli Stati Uniti. Quando è stato lanciato in Gran Bretagna era limitato a Oxbridge e alla London School of Economics. L’idea era che le persone volevano vedere cosa facevano altri simili a loro, vedere le loro reti sociali, far confronti, vantarsi ed esibirsi, dare libero sfogo a ogni momento di nostalgia e di invidia, tenere il naso appiccicato alla vetrina dei dolci delle vite altrui.

 

Questa focalizzazione ha attirato l’attenzione del primo investitore esterno di Facebook, il famigerato miliardario della Silicon Valley Peter Thiel. Di nuovo The Social Network coglie il punto: l’investimento di 500.000 dollari di Thiel nel 2004 è stato cruciale per il successo della società. Ma c’era un motivo particolare perché Facebook cogliesse l’attenzione di Thiel, radicato in un percorso secondario della storia intellettuale. Nel corso dei suoi studi a Stanford – si è laureato in filosofia – Thiel si era interessato alle idee del filosofo francese residente negli USA René Girard, come promosse nel suo libro più influente, Things Hidden since the Foundation of the World [Cose nascoste dalla creazione del mondo]. La grande idea di Girard era una cosa chiamata ‘desiderio mimetico’. Gli esseri umano nascono con il bisogno di cibo e di rifugio. Una volta che tali necessità fondamentali della vita sono acquisite, ci guardiamo attorno a che cosa fanno, e vogliono, gli altri e li copiamo. Nella sintesi di Thiel, l’idea è che ‘la radice di tutti i comportamenti è l’imitazione’.

 

Girard era cristiano e la sua visione della natura umana è che è decaduta. Non sappiamo che cosa vogliamo o chi siamo; non abbiamo realmente valori e convincimenti nostri; quello che abbiamo, invece, è un istinto di copiare e confrontare. Siamo homo mimeticus. ‘L’uomo è la creatura che non sa che cosa desiderare e che si rivolge agli altri al fine di decidersi. Desideriamo quello che desiderano gli altri perché imitiamo i loro desideri’. Guardatevi attorno, meschini, e confrontate. Il motivo per il quale Thiel ha sposato Facebook con tale alacrità è che vi ha visto per la prima volta un’azienda il cui nucleo era girardiano: costruita sul profondo bisogno della gente di copiare. ‘Facebook si è diffuso inizialmente per passaparola, e riguarda il passaparola, dunque è doppiamente mimetico’ ha detto Thiel. ‘I media sociali si sono dimostrati più importanti di quanto sembrava, perché riguardano le nostre nature’. Siamo ansiosi di essere visti come vogliamo essere visti e Facebook è lo strumento più popolare che l’umanità abbia mai avuto per ottenere ciò.

 

*

La visione della natura umana implicita in queste idee è piuttosto fosca. Se tutto ciò che le persone vogliono fare è andare a guardare gli altri in modo da potersi confrontare con loro e copiare quello che loro vogliono, se quella è la verità definitiva, più profonda dell’umanità e delle sue motivazioni, allora Facebook non deve davvero preoccuparsi troppo del benessere dell’umanità, poiché tutto ciò che di male ci succede è qualcosa che facciamo a noi stessi. Nonostante tutto il lustro industriale della sua dichiarazione della missione, Facebook è una società la cui premessa essenziale è misantropica. E’ forse per questo motivo che Facebook, più di qualsiasi altra impresa delle sue dimensioni, ha un filo di malignità che ne percorre la storia. La versione pesante, da stampa scandalistica popolare di ciò è arrivata sotto forma di incidenti quali la visualizzazione in diretta di stupri, suicidi, assassinii e uccisioni di poliziotti. Ma questa è una delle aree in cui a me Facebook pare relativamente incolpevole. Queste cose terribili sono visualizzate sul sito perché ha il pubblico più vasto; se Snapchat o Periscope fossero più grandi, sarebbero visualizzate lì, invece.

 

In molte altre aree, tuttavia, il sito è lungi dall’essere incolpevole. La critica più pesante recente della società deriva dal suo ruolo nell’elezione di Trump. Ci sono due componenti in ciò, una delle quali è implicita nella natura del sito, che ha una tendenza intrinseca a frammentare e atomizzare i propri utenti in gruppi di affinità. La missione di ‘collegare’ si rivela significare, in partica, collegarsi con persone che la pensano come noi. Non siamo in grado di dimostrare quanto pericolose siano per le nostre società queste ‘bolle di filtraggio’ ma pare chiaro che stiano avendo un pesante impatto sul nostro sistema di governo sempre più frammentato. La nostra concezione del ‘noi’ si sta facendo più ristretta.

 

Questa frammentazione ha creato le condizioni per il secondo filone della responsabilità di Facebook per il disastro politico anglo-statunitense dello scorso anno. I termini di riferimento per questi sviluppi sono ‘notizie false’ [fake news] e ‘post verità’ e sono resi possibili dalla ritirata da un’agorà generale di pubblico dibattito a bunker ideologici separati. Fuori, le notizie false possono essere discusse e denunciate; dentro Facebook se non si è membri della comunità cui sono servite le menzogne, è molto probabile che non si saprà mai che sono in circolazione. Nessuna impresa esemplifica meglio il detto dell’era internet che ‘se il prodotto è gratis, il prodotto sei tu’. I clienti di Facebook non sono le persone presenti sul sito; i suoi clienti sono i pubblicitari che utilizzano la sua rete e che apprezzano la sua capacità di dirigere gli annunci a uditori recettivi. Perché dovrebbe interessare a Facebook se il flusso di notizie sul sito è falso? Il suo interesse è nel bersaglio, non nel contenuto. Questo è probabilmente uno dei motivi del cambiamento della dichiarazione della missione della società. Se il solo interesse è collegare le persone, perché ci si dovrebbe preoccupare delle falsità? Potrebbero essere persino migliori della verità, poiché sono più rapide nell’identificare gli affini. La nuova ambizione di ‘costruire comunità’ fa parere che la società sia assumendo un maggiore interesse alle conseguenze dei collegamenti che favorisce.

 

Le notizie false non sono, come Facebook ha riconosciuto, il solo modo in cui è stato usato per influenzare l’esito delle elezioni presidenziali del 2016. Il 6 gennaio 2017 il direttore dei servizi segreti nazionali ha pubblicato un rapporto che affermava che i russi avevano condotto una campagna internet di disinformazione per danneggiare Hillary Clinton e favorire Trump. ‘La campagna di influenza di Mosca ha fatto seguito a una strategia di messaggi che fonde operazioni di spionaggio clandestino – quali l’attività informatica – con tentativi aperti di agenzie governative russe, media finanziati dallo stato, intermediari terzi e utenti pagati di media sociali o “trolls”’, affermava il rapporto. A fine aprile Facebook ha trovato il tempo per ammettere questa (a quel punto) verità evidente in un interessante documento pubblicato dalla sua divisione interna della sicurezza. ‘Notizie false’, ha sostenuto, è un’utile espressione polivalente poiché la disinformazione di fatto di diffonde in una varietà di modi:

Operazioni di informazione (o influenza): Azioni intraprese da governi o attori non statali organizzati per distorcere sentimenti politici nazionali o stranieri.

 

Notizie false: Articoli giornalistici che pretendono di riferirsi a fatti ma che contengono rappresentazioni intenzionalmente fuorvianti di fatti al fine di suscitare passioni, attirare pubblico o ingannare. 

Falsi amplificatori: Attività coordinata di account non autentici con l’intento di manipolare il dibattito politico (ad esempio scoraggiando specifiche parti da partecipare a discussioni o amplificando voci sensazionalistiche su altre).

 

Disinformazione: Informazioni/contenuti inaccurati o manipolati diffusi intenzionalmente. Ciò può includere notizie false o può riguardare metodi più sottili, quali operazioni sotto falsa bandiera, trasmissione di citazioni o narrazioni inaccurate a intermediari innocenti o amplificazione consapevole di informazioni prevenute o fuorvianti. 

 

La società sta promettendo di trattare questo problema, o insieme di problemi, con la stessa serietà con cui tratta altri problemi, quali i virus, la pirateria degli account e i contenuti spazzatura. Staremo a vedere. Le falsità di uno sono le verità di un altro e Facebook si dà molto da fare per evitare responsabilità circa il contenuto del suo sito, salvo per i contenuti sessuali, riguardo ai quali è super-rigoroso. Neanche un capezzolo in mostra. E’ un insieme di priorità bizzarro, che ha senso solo in un contesto statunitense, dove qualsiasi sentore di sessualità esplicita darebbe immediatamente al sito una reputazione di corruzione morale. Foto di donne che allattano sono vietate e rapidamente cancellate. Le bugie e la propaganda vanno bene.

La chiave per comprendere questo consiste nel riflettere su che cosa vogliono gli inserzionisti: non vogliono comparire accanto a foto di seni perché potrebbe danneggiare il loro marchio, ma non li preoccupa comparire accanto a menzogne, perché le menzogne potrebbero aiutarli a trovare i consumatori che stanno cercando di influenzare. In Move Fast and Break Things, la sua polemica contro i ‘briganti dell’era digitale’, Jonathan Taplin segnala un’analisi di Buzzfeed: ‘Nei tre mesi finali della campagna presidenziale statunitense gli articoli giornalisti falsi di maggior successo sulle elezioni su Facebook hanno generato un coinvolgimento maggiore dei principali articoli di grandi canali giornalistici quali New York Times, Washington Post, Huffington Post, NBC News e altri’. Questo non pare un problema che Facebook avrà fretta di sistemare.

 

Il fatto è che di contenuti fraudolenti, e di contenuti rubati, Facebook è pieno e la società non se ne preoccupa davvero, perché non è suo interesse curarsene. Gran parte dei contenuti video sul sito sono sottratti a chi li ha creati. Un illuminante video YouTube di Kurzgesagt, un canale tedesco che produce film esplicativi di alta qualità, segnala che nel 2015, 725 dei primi mille video più visti su Facebook erano rubati. Questa è un’altra area in cui gli interessi di Facebook contraddicono quelli della società. Noi possiamo collettivamente avere interesse a sostenere opere creative e immaginative in molte forme diverse e su molte piattaforme. Facebook no. La società ha due priorità, come spiega Martinez in Chaos Monkeys: la crescita e la monetizzazione. Semplicemente non le interessa da dove arriva il contenuto. Solo ora sta cominciando a interessarsi della percezione che gran parte del contenuto è fraudolento, poiché se tale percezione dovesse diventare generale potrebbe influire sulla fiducia e dunque sulla quantità di tempo che le persone dedicano al sito.

 

Lo stesso Zuckerberg si è fatto sentire al riguardo, su un post di Facebook che affrontava la questione ‘Facebook e l’elezione’. Dopo una certa quantità di aria fritta e stronzate (‘Il nostro obiettivo è dare una voce a ogni persona. Crediamo profondamente nelle persone’) arriva al punto. ‘Di tutto il contenuto di Facebook, più del 99 per cento di quanto la gente vede è autentico. Solo una piccolissima quantità è costituita da notizie false e bufale’. Più di un utente di Facebook ha segnalato che nei flussi che riceveva, il post di Zuckerberg a proposito dell’autenticità appariva accanto a notizie false. In un caso l’articolo falso fingeva di provenire dal canale televisivo sportivo ESPN. Quando si cliccava su di esso gli utenti erano trasferiti a un annuncio pubblicitario che vendeva un integratore dietetico. Come ha segnalato il giornalista Doc Searls, è una doppia truffa, ‘bugie spudorate da una fonte contraffatta’, il che è qualcosa di considerevole, sbattute accanto al capo di Facebook che vanta l’assenza di frodi. Evan Williams, cofondatore di Twitter e fondatore dello specialista a lungo letto Medium, ha trovato lo stesso post di Zuckerberg accanto a un diverso articolo falso di ESPN e a un altro testo di notizie false che pretendeva di provenire dalla CNN, con l’annuncio che il Congresso aveva deposto Trump dalla carica. Cliccandoci veniva fuori che la fonte era una società che offriva un programma di dodici settimane di rafforzamento delle dita dei piedi (Avete letto bene: rafforzamento delle dita dei piedi). Tuttavia adesso sappiamo che Zuck crede nelle persone. Questa è la cosa importante.

 

*

Un osservatore neutrale potrebbe chiedersi se l’atteggiamento di Facebook nei confronti dei creatori di contenuti sia sostenibile. Facebook ha bisogno di contenuti, ovviamente, perché è di essi che il sito è fatto: contenuti creati da altre persone. E’ solo che non è troppo facile per chiunque, salvo Facebook, far soldi con tali contenuti. Col tempo tale atteggiamento è profondamente distruttivo per le industrie creative e dei media. L’accesso a un pubblico – quei due miliardi senza precedenti di persone – è una cosa magnifica, ma Facebook non ha nessuna fretta di aiutarvi a far soldi da ciò. Se i fornitori di contenuti alla fine andassero tutti in bancarotta, beh, potrebbe non essere un problema troppo grosso. C’è, per adesso, un mucchio di fornitori volenterosi: tutti su Facebook, in un certo senso, lavorano per Facebook, aggiungendo valore alla società. Nel 2014 il New York Times ha fatto i conti e scoperto che l’umanità stava passando ogni singolo giorno sul sito 39.757 anni collettivi. Jonathan Taplin segnala che si tratta di ‘quasi quindici milioni di anni di lavoro gratis l’anno’. Si parla di quando Facebook aveva solo 1,23 miliardi di utenti.

 

Taplin ha lavorato nel mondo accademico e nell’industria cinematografica. Il motivo per cui nutre sentimenti così forti riguardo a queste materie è che ha iniziato nel mondo della musica, da manager di The Band, ed è stato al posto giusto per vedere l’attività distrutta da internet. Quella che nel 1999 era un’industria da 20 miliardi di dollari, quindici anni dopo era un’industria da 7 miliardi di dollari. Ha visto diventare poveri musicisti che si guadagnavano bene da vivere. Ciò non è successo perché la gente ha smesso di ascoltare la loro musica – la ascoltava più gente che mai – ma perché la musica era diventata qualcosa che la gente si aspettava fosse gratis. YouTube è la maggiore fonte di musica del mondo, riproducendo miliardi di tracce ogni anno, ma nel 2015 i musicisti hanno guadagnato da esso e rispetto ai propri rivali sostenuti dalla pubblicità di quanto guadagnavano dalle vendite di vinili. Non CD e registrazioni in generale: vinili.

 

Qualcosa di simile è successo nel mondo del giornalismo. Facebook è in essenza un’azienda di pubblicità che è indifferente al contenuto del suo sito, salvo nella misura in cui aiuta a mirare e vendere annunci. E’ all’opera una versione della legge di Gresham in cui le notizie false, che ottengono più clic e si producono gratis, cacciano le notizie reali, che spesso dicono alla gente cose che non vuol sentire e sono costose da produrre. In aggiunta, Facebook utilizza un armamentario di trucchi per aumentare il proprio traffico e le entrate che realizza mirando gli annunci, a spese delle istituzioni produttrici di notizie il cui contenuto ospita. Il suo flusso di notizie indirizza il traffico a voi sulla base non dei vostri interessi, bensì di come realizzare la massima quantità di entrate pubblicitarie da voi. Nel settembre del 2016 Alan Rusbridger, ex redattore del Guardian, ha dichiarato a una conferenza del Financial Times che Facebook aveva ‘risucchiato fino a 27 milioni di dollari’ delle previste entrate pubblicitarie del giornale quell’anno. ‘Si prendono tutti i soldi perché hanno algoritmi che non comprendiamo, che sono un filtro tra quello che noi facciamo e come la gente lo riceve’.

 

Questo va direttamente al cuore della questione di che cosa è Facebook e che cosa fa. Nonostante tutte le chiacchiere sul collegare la gente, costruire comunità e credere nelle persone, Facebook è un’azienda pubblicitaria. Martinez fornisce il resoconto più chiaro sia di come ha finito per diventarlo sia di come funziona la pubblicità di Facebook. Nei primi anni di Facebook Zuckerberg era molto più interessato alla crescita della società che alla monetizzazione. Ciò è cambiato quando Facebook è andato in cerca del suo gran giorno di paga nell’offerta pubblica iniziale (IPO), il giorno fulgido in cui le azioni di un’impresa sono per la prima volta poste in vendita al pubblico generale. Questo è un enorme punto di svolta per qualsiasi impresa nuova: nel caso di molti lavoratori dell’industria tecnologica le speranze e le aspettative associate alla quotazione in borsa sono ciò che in primo luogo li ha attirati nella loro società e/o ciò che li ha tenuti incollati alle loro postazioni di lavoro. E’ il punto in cui il denaro nozionale dei primi giorni di un’azienda diventa il denaro contante di un’azienda ad azionariato diffuso.

 

Martinez era presente giusto nel momento in cui Zuck ha riunito tutti per dir loro che si stavano quotando, il momento in cui tutti i dipendenti di Facebook hanno saputo che stavano per diventare ricchi:

Avevo scelto un posto dietro una coppia indifferente che, a uno sguardo più attento, è risultata essere composta da Chris Cox, capo del prodotto FB, e Naomi Gleit, una laureata di Harvard che era entrata nella società come dipendente numero 29 ed era a quel punto ritenuta la dipendente con una maggiore anzianità di servizio dopo Mark.

 

Naomi, in mezzo a chiacchiere con Cox, stava cliccando sul suo portatile, prestando scarsa attenzione alla filippica zuckiana. Ho sbirciato sopra la sua spalla lo schermo. Stava scorrendo una email con una serie di collegamenti e cliccava ciascuno di essi creando una nuova finestra sul suo navigatore. Finita la maratona di click ha cominciato a indugiare su ciascuna con occhio da valutatrice. Era una lista di proprietà immobiliari, ciascuna per una proprietà diversa a San Francisco. 

 

Martinez ha memorizzato una delle proprietà e ha controllato in seguito. Prezzo: 2,4 milioni di dollari. E’ affascinato, e affascinato amaramente, dal tema delle differenze di classe e di status nella Silicon Valley, in particolare dal tema mai discusso pubblicamente dell’enorme divario tra i primi dipendenti di una società, che spesso sono divenuti inimmaginabilmente ricchi, e gli schiavi del salario che entrano nella società più tardi nella sua storia. ‘Il protocollo è di non parlarne per nulla in pubblico’. Ma, come ha scritto nelle sue memorie Bonnie Brown, una massaggiatrice presso la Google nei primi tempi: “Si è sviluppato un forte contrasto tra dipendenti di Google che lavoravano fianco a fianco. Mentre uno controllava sul monitor l’orario del cinema locale, l’altro stava prenotando un volo per il Belize per il fine settimana. Di che cosa avrebbero parlato lunedì mattina a quel punto?”

 

Quando è arrivata l’ora dell’IPO Facebook aveva bisogno di trasformarsi da società con una crescita formidabile in una società che stava facendo formidabili utili. Ne stava già facendo in parte, grazie alla sua grande dimensione – come osserva Martinez ‘qualsiasi cifra moltiplicata un miliardo di volte resta un numero fottutamente grande’ – ma non abbastanza per garantire una valutazione davvero spettacolare in occasione del lancio. E’ stato in questa fase che la questione di come monetizzare Facebook ha attirato la piena attenzione di Zuckerberg. E’ interessante, e a suo merito, che lui non si fosse concentrato gran che su questo in precedenza, forse perché non è particolarmente interessato al denaro in sé. Però gli piace davvero vincere.

 

La soluzione è consistita nel prendere l’enorme quantità di informazioni di cui Facebook dispone riguardo alla sua ‘comunità’ e utilizzarla per consentire agli inserzionisti di mirare annunci con una specificità mai conosciuta prima, in qualsiasi mezzo. Martinez: “Può essere di natura demografica (ad esempio donne tra i 30 e i 40 anni), geografica (persone a cinque miglia da Sarasota, Florida) o persino basata su dati del profilo Facebook (hai figli; cioè sei nel segmento mamme?)’. Taplin segnala lo stesso punto:

Se voglio raggiungere donne tra i 25 e i 30 anni nel codice di avviamento postale 37206 che amano la musica country e bevono bourbon, Facebook è in grado di farlo. Inoltre Facebook può spesso ottenere che amici di queste donne pubblichino un ‘articolo sponsorizzato’ sul flusso di notizie di un consumatore mirato in modo che non sembri pubblicità. Come ha detto Zuckerberg quando ha presentato Facebook Ads: ‘Nulla influenza le persone più di una raccomandazione di un amico fidato. Una referenza fidata è il Santo Graal della pubblicità’. 

Quella è stata la prima parte del processo di monetizzazione di Facebook, quando ha trasformato la sua dimensione gigantesca in una macchina per far soldi. La società offriva ai pubblicitari uno strumento di una precisione senza precedenti per mirare i loro annunci a particolari consumatori. (Anche segmenti particolari di elettori possono essere mirati con precisione assoluta. Un esempio del 2016 è stato l’annuncio anti Clinton che ripeteva un notorio discorso da lei tenuto nel 1996 a proposito del ‘super-predatori’. L’annuncio è stato inviato a elettori afroamericani in aree in cui i Repubblicani tentavano, con successo come è poi risultato, di soffocare il voto Democratico. Nessun altro ha visto gli annunci).

 

La seconda grande svolta riguardo alla monetizzazione si è avuta nel 2012 quando il traffico internet ha cominciato a trasferirsi dai computer da tavolo ai dispositivi mobili. Se la maggior parte delle vostre letture in rete la fate su un computer da tavolo appartenete a una minoranza. La svolta era un potenziale disastro per tutte le attività che si affidavano alla pubblicità su internet, perché alla gente gli annunci sui dispositivi mobili non piacciono molto ed è molto meno probabile che clicchi su di essi rispetto agli annunci su computer da tavolo. In altri termini, anche se il traffico generale su internet stava crescendo rapidamente, poiché la crescita arrivava dai dispositivi mobili, il traffico stava diventando, in proporzione, meno prezioso. Se la tendenza doveva continuare ogni attività su internet che dipendeva dai clic degli utenti – ad esempio praticamente tutte, ma specialmente giganti come Google e Facebook – avrebbe avuto un valore minore.

 

Facebook ha risolto il problema mediante una tecnica chiamata ‘onboarding’ [letteralmente assunzione, arruolamento, imbarcamento – n.d.t.]. Come spiega Martinez il modo migliore per immaginare la cosa consiste nel considerare i vari tipi di nome e indirizzo.

 

Ad esempio se la società Bed, Bath & Beyond [Letto, bagno e oltre] vuole attirare la mia attenzione con i suoi magnifici buoni sconto del 20 per cento chiama: 

Antonio Garcia Martinez

1 Clarence Place #13

San Francisco, CA 94107

Se vuole raggiungermi sul mio dispositivo mobile il mio nome lì è: 

38400000-8cfo-11bd-b23e-10b96e40000d

Quello è l’identificativo del mio quasi immutabile dispositivo, in collegamento centinaia di volte al giorno con flussi pubblicitari in mobilità.

Sul mio portatile il mio nome è questo: 

07J6yJPMB9juTowar.AWXGQnGPA1MCmThgb9wN4vLoUpg.BUUtWg.rg.FTN.0.AWUxZtUf

Questo è il contenuto del cookie di reindirizzamento di Facebook, che è utilizzato per mirare annunci sulla base della navigazione del dispositivo mobile. 

 

Anche se può non apparire evidente, ciascuna di queste chiavi è associata a un tesoro di nostri dati di comportamento personale: ogni sito web che abbiamo visitato, molte cose che abbiamo comprato in negozi fisici, e ogni applicazione che abbiamo utilizzato e cosa abbiamo fatto con essa … La cosa più grossa in corso oggi nel marketing, quella che sta generando decine di miliardi di dollari di investimenti e trame infinite dentro le budella di Facebook, Google, Amazon e Apple, è come legare insieme questi diversi insiemi di nomi e chi controlla i collegamenti. Questo è quanto.

 

Facebook aveva già un’enorme quantità di informazioni sulle persone e sulle loro reti sociali e le loro preferenze e avversioni dichiarate. Dopo il risveglio all’importanza della monetizzazione hanno aggiunto ai propri dati un enorme deposito di dati offline, comportamenti nel mondo reale, acquisiti mediante collaborazioni con grandi società come Experian, che hanno seguito per decenni gli acquisti dei consumatori mediante i loro rapporti con le società di vendite dirette, emittenti carte di credito e dettaglianti. Non pare esserci un termine singolo che descriva queste società: ‘agenzie del credito del consumatore’ o qualcosa di simile sintetizza l’idea. La loro portata è tuttavia molto più vasta di quanto sembri. Experian afferma che i suoi dati sono basati su più di 850 milioni di registrazioni e dichiara di avere informazioni su 49,7 milioni di adulti britannici che vivono in 25,2 milioni di famiglie in 1,73 milioni di codici di avviamento postale. Queste società sanno tutto quello che c’è da sapere sul vostro nome e indirizzo, il vostro reddito e livello d’istruzione, il vostro stato civile più ogni luogo in cui avete pagato qualcosa con una carta di credito. Facebook poteva a quel punto unire la vostra identità con l’identificativo unico del vostro cellulare.

 

Ciò è stato cruciale per la redditività di Facebook. Sui dispositivi mobili le persone tendono a preferire le applicazioni a internet, che riuniscono le informazioni che raccolgono e non le condividono con altre società. Un’applicazione di gioco sul vostro telefono è improbabile conosca di voi altro che il livello che avete raggiunto in quella particolare partita. Ma poiché tutti al mondo stanno su Facebook, la società conosce l’identificativo telefonico di tutti. A quel punto era in grado di creare un server pubblicitario che inviasse pubblicità in telefonia mobile molto meglio mirata di quanto chiunque altro fosse in grado di gestire e lo ha fatto in una forma più elegante e meglio integrata di chiunque altro.

 

Dunque Facebook conosce l’identificativo del vostro telefono e può aggiungerlo al vostro identificativo Facebook. Mette ciò insieme con il resto della vostra attività in rete: non solo ogni sito che avete visitato, ma ogni clic che avete mai digitato; il pulsante Facebook traccia ogni utente di Facebook, che clicchi o no. Poiché il pulsante Facebook è praticamente onnipresente nella rete, ciò significa che Facebook vi vede dappertutto. Ora, grazie alla sua collaborazione con le società di credito vecchia scuola, Facebook sa chi sia chiunque, dove viva e tutto quello che ha comprato in un negozio offline del mondo reale. Tutte queste informazioni sono utilizzate per un fine che, alla fin fine, scade profondamente nel ridicolo. Consiste nel vendervi roba mediante annunci in rete.

 

Gli annunci operano secondo due modelli. In uno di essi gli inserzionisti chiedono a Facebook di mirare a consumatori di un determinato settore demografico: la nostra circa trentenne amante della musica country che beve bourbon, o il nostro afroamericano di Filadelfia poco entusiasta di Hillary. Ma Facebook trasmette anche annunci mediante un processo di aste in rete, che ha luogo in tempo reale ogni volta che cliccate su un sito. Poiché ogni sito web che avete mai visitato (più o meno) ha impiantato un cookie nel vostro navigatore di rete, quando passate a un sito nuovo c’è un’asta in tempo reale, in milionesimi di secondo, per stabilire quanto valgono i vostri occhi e quali annunci andrebbero serviti loro, in base a quali i vostri interessi, livello di reddito e via dicendo sono noti essere. E’ questo il motivo per il quale gli annunci hanno la sconcertante tendenza a seguirvi dappertutto, in modo tale che voi cercate una nuova televisione o un nuovo paio di scarpe o una destinazione per le vacanze e loro si ripresentano in ogni sito che visitate a settimane di distanza. E’ stato così, riversando talento e risorse sul problema, che Facebook è stato in grado di trasformare i dispositivi mobili da un potenziale disastro per le entrate a un grande, caldo geyser fumante di profitto.

 

Questo significa che ancor più che nel settore della pubblicità, Facebook è nel settore della sorveglianza. Facebook, di fatto, è la maggiore impresa basata sulla sorveglianza della storia dell’umanità. Sa di voi molto, molto di più di quanto il governo più intrusivo abbia mai saputo dei suoi cittadini. E’ sorprendente che la gente non abbia realmente compreso questo a proposito della società. Ho dedicato tempo a riflettere su Facebook e la cosa cui continuo a tornare è che gli utenti non si rendono conto di che cos’è che la società fa. Quello che Facebook fa è osservarvi e poi usare quello che sa di voi e del vostro comportamento per vendere annunci. Non sono sicuro ci sia mai stato un distacco più completo tra ciò che una società dice di fare – ‘collegare’, ‘costruire comunità’ – e la realtà commerciale. Si noti che la conoscenza dei suoi utenti da parte della società non è usata meramente per mirare annunci ma anche per plasmare il flusso di notizie loro diretto. Poiché c’è così tanto contenuto pubblicato sul sito, gli algoritmi utilizzati per filtrare e indirizzare tale contenuto sono ciò che determina quello che vedete: le persone pensano che i loro flussi di notizie abbiano in larga misura a che fare con i loro amici e interessi, e in un certo senso è così, con l’avvertenza cruciale che sono i loro amici e interessi così come mediati dagli interessi commerciali di Facebook. I vostri luoghi sono indirizzati allo spazio dove sono di maggior valore per Facebook.

 

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Sono lasciato a chiedermi che cosa succederà quando e se questa patacca da 450 miliardi di dollari crollerà. La storia di Wu sui mercanti dell’attenzione mostra che è qui all’opera uno schema suggestivo: che un boom è più spesso che no seguito da un contraccolpo, che un periodo di crescita esplosiva innesca una reazione pubblica e a volte legislativa. Il primo esempio di Wu sono le leggi draconiane contro i manifesti introdotto nella Parigi degli inizi del ventesimo secolo (e tuttora in vigore, uno dei motivi per cui la città, in base agli standard contemporanei, non è sfigurata da pubblicità). Come dice Wu ‘quando la materia prima in questione è l’accesso alla mente delle persone, il perpetuo perseguimento della crescita garantisce che forme di reazione, sia maggiori sia minori, sono del tutto inevitabili.’ Wu definisce una forma minore di questo fenomeno l’’effetto disincanto’.

 

Facebook pare vulnerabile a questi effetti disincanto. Un punto in cui è probabile inizino è nell’area centrale del suo modello economico: la vendita di annunci. La pubblicità che vende è ‘programmatica’, cioè determinata da algoritmi informatici che accoppiano il cliente all’inserzionista e trasmettono conformemente gli annunci, mirandolo e/o mediante aste in rete. Il problema a riguardo dal punto di vista del cliente – ricordate, il cliente è l’inserzionista, non l’utente di Facebook – è che molti dei clic su questi annunci sono falsi. C’è un disaccordo d’interessi qui. Facebook vuole clic, perché è così che viene pagato: quando gli annunci sono cliccati. Ma se i clic non sono reali ma sono invece clic automatizzati da falsi account gestiti da bot informatici? Questo è un problema ben noto, che colpisce in particolare Google perché è facile creare un sito, consentirgli di ospitare annunci programmatici, poi creare un bot per cliccare su tali annunci e incassare il denaro che arriva a palate. Su Facebook i clic fraudolenti è più probabile arrivino da concorrenti che cercano di aumentarsi a vicenda i costi.

 

La pubblicazione dell’industria Ad Week stima in 7 miliardi di dollari il costo annuo della truffa dei clic, circa un sesto dell’intero mercato. Un singolo sito truffaldino, Methbot, la cui esistenza è stata rivelata alla fine dell’anno scorso, usa una rete di computer piratati per generare ogni giorno clic fraudolenti per un valore compreso tra i tre e i cinque milioni di dollari. Le stime della quota del mercato del traffico fraudolento sono variabili, con ipotesi intorno al 50 per cento; alcuni proprietari di siti web affermano che i propri dati indicano un tasso di clic fraudolenti pari al 90 per cento. Questo non è assolutamente un problema solo di Facebook, ma non è difficile immaginare come potrebbe determinare una grande rivolta contro l’’ad tech’, come questa tecnologia è generalmente nota, da parte delle società che pagano per essa. Ho sentito accademici del settore affermare che c’è una forma di pensiero industriale di gruppo nel mondo dei grandi acquirenti di pubblicità che attualmente sono responsabili di dirigere parti importanti dei loro bilanci a Facebook. Tale forma mentis potrebbe cambiare. Inoltre molte delle misurazioni di Facebook tendono a cogliere la luce dall’angolo che le fa apparire più brillanti. Un video è contato come ‘visto’ su Facebook se è riprodotto per tre secondi, anche se l’utente sta scorrendo oltre di esso nel suo flusso di notizie e persino se il sonoro è disattivato. Molti video di Facebook con centinaia di migliaia di ‘viste’, se contati con le tecniche utilizzate per misurare il pubblico televisivo, non avrebbero nessuno spettatore del tutto.

 

Una rivolta dei clienti potrebbe sovrapporsi a una reazione di regolatori e governi. Google e Facebook dispongono di quello che corrisponde a un monopolio della pubblicità digitale. Tale potere monopolistico sta diventando sempre più importante con la spesa pubblicitaria che migra in rete. Tra loro hanno già distrutto vasti segmenti dell’industria dei giornali. Facebook ha fatto moltissimo per ridurre la qualità del dibattito pubblico e per garantire che sia più facile che mai dire quelle che Hitler definì, con approvazione, ‘grandi menzogne’ e trasmetterle a un grande pubblico. La società non ha alcuna necessità economica di curarsene, ma è il genere di problema che potrebbe attirare l’attenzione dei regolatori.

 

Non è la sola minaccia esterna al duopolio Google/Facebook. L’atteggiamento statunitense nei confronti della legge antitrust è stato modellato da Robert Bork, il giudice candidato da Reagan per la Corte Suprema ma non confermato dal Senato. La posizione legale più influente di Bork si è avuta nell’area della legge sulla concorrenza. Egli ha promulgato la dottrina che la sola forma di intervento che conta contro la concorrenza riguarda i prezzi pagati dai consumatori. La sua idea era che se il prezzo scende ciò significa che il mercato funziona e non c’è nessun problema di monopolio da affrontare. Questa filosofia continua a influenzare l’atteggiamento normativo negli Stati Uniti ed è il motivo per il quale Amazon, ad esempio, è stato lasciato in pace dai regolatori nonostante la posizione manifestamente monopolistica che detiene nel mondo delle vendite al dettaglio in rete, in particolare di libri.

 

Le grandi imprese di internet sembrano invulnerabili per questi motivi ristretti. Oppure lo sono fino a quando non si consideri la questione dei prezzi individualizzati. La grande traccia di dati che ci lasciamo dietro muovendoci in internet è sempre più usata per bersagliarci con prezzi che non sono come i cartellini attaccati alle merci in un negozio. Al contrario, sono dinamici e si muovono con la nostra capacità percepita di pagare. Quattro ricercatori spagnoli hanno studiato il fenomeno creando personaggi automatizzati che si comportavano come, in un caso, ‘attenti al portafoglio’ e ‘benestanti’ nell’altro e poi controllando per vedere se il loro diverso comportamento determinava prezzi diversi. Lo faceva: una ricerca di cuffie ha restituito un insieme di risultati che erano in media quattro volte più costosi per la persona benestante. Un sito di biglietti aerei scontati addebitava tariffe più elevate al consumatore benestante. In generale la residenza del ricercatore determinava variazioni di prezzi sino al 166 per cento. Dunque in breve, sì, i prezzi personalizzati ci sono e la capacità di crearli dipende dal seguirci su internet. Questa me pare a prima vista una violazione delle leggi statunitensi post Bork sui monopoli, concentrate, come sono, interamente sui prezzi. E’ a suo modo buffo, e anche in un certo modo grottesco, che un apparato di sorveglianza dei consumatori di una portata senza precedenti vada bene, apparentemente, ma un apparato di sorveglianza dei consumatori di una portata senza precedenti possa ben risultare illegale se fa sì che alcuni paghino prezzi più elevati.

 

Forse per Facebook la maggiore minaccia potenziale è che gli utenti possano abbandonarlo. Due miliardi di utenti mensili attivi sono un mucchio di gente e gli ‘effetti rete’ – la dimensione della connettività – sono, ovviamente, straordinari. Ma ci sono altre società internet che collegano le persone su quella scala – Snapchat ha 166 milioni di utenti giornalieri, Twitter 328 milioni di utenti mensili – e come abbiamo visto dalla scomparsa di Myspace, un tempo leader dei medi sociali, quando la gente cambia idea riguardo a un servizio può abbandonarlo di brutto e rapidamente.

 

Per tale motivo, se fosse compreso in generale che il modello di attività di Facebook è basato sulla sorveglianza, la società sarebbe in pericolo. L’unica volta che Facebook ha condotto un sondaggio sui suoi utenti riguardo al modello della sorveglianza è stata nel 2011, quando ha proposto una modifica dei suoi termini e condizioni, la modifica alla base dell’attuale paradigma del suo utilizzo dei dati. Il risultato del sondaggio è stato chiaro: il 90 per cento dei voti è stato contro le modifiche. Facebook ha tirato dritto e le ha attuate comunque, motivandolo con il fatto che avevano votato in pochi. Nessuna sorpresa qui; né nell’avversione degli utenti per la sorveglianza né nell’indifferenza della società a tale avversione. Ma questo è qualcosa che potrebbe cambiare.

 

L’altra cosa che potrebbe succedere a livello degli utenti individuali è che la gente potrebbe smettere di usare Facebook perché la rende scontenta. Non è lo stesso problema dello scandalo del 2014, quando è emerso che sociologi della società avevano deliberatamente manipolato i flussi di notizie di alcune persone per vedere quale effetto aveva ciò sulle loro emozioni, se lo aveva. Il documento risultante, pubblicato su  Proceedings of the National Academy of Science, è stato uno studio sul ‘contagio sociale’, cioè il trasferimento di emozioni tra gruppi di persone in conseguenza di un cambiamento della natura degli articoli visti da 689.003 utenti di Facebook. ‘Quando le espressioni positive erano ridotte, le persone producevano meno commenti positivi e più commenti negativi; quando le espressioni negative erano ridotte, si verificava il contrario. Questi risultati indicano che le emozioni manifestate da altri su Facebook influenzano le nostre emozioni, costituendo una prova sperimentale del contagio su vasta scala attraverso le reti sociali’. Gli scienziati non sembrano aver considerato come queste informazioni sarebbero state ricevute, e la storia ha fatto parecchio scalpore per un po’.

Forse il fatto che la gente già conosceva questa vicenda ha accidentalmente deviato l’attenzione da quello che avrebbe potuto essere un maggiore scandalo, denunciato agli inizi di quest’anno in un documento dell’American Journal of Epidemiology. Il documento era intitolato ‘Associazione dell’uso di Facebook con la compromissione del benessere: uno studio longitudinale’. I ricercatori hanno scoperto molto semplicemente che quanto più le persone usano Facebook, tanto più sono infelici. Un aumento dell’un percento dei ‘mi piace’ e click e aggiornamenti di status è stato correlato a una diminuzione tra il 5 e l’8 per cento della salute mentale. In aggiunta hanno scoperto che l’effetto positivo delle interazioni del mondo reale, che aumentano il benessere, aveva un accurato parallelo con le ‘associazioni negative con l’uso di Facebook’. Di fatto le persone scambiavano relazioni reali che le facevano sentire bene con tempo su Facebook che le faceva sentire male. Questa è la mia chiosa, anziché quella degli scienziati che si prendono il disturbo di chiarire che questa è una correlazione e non una decisa relazione causale, ma si sono spinti tanto in là – insolitamente in là – da dire che i dati ‘suggeriscono un possibile compromesso tra relazioni in rete e fuori dalla rete’. Non è la prima volta che è stato rilevato un effetto di questo tipo. Per sintetizzare: ci sono molte ricerche che dimostrano che Facebook fa sentire di merda le persone. Così forse un giorno la gente smetterà di usarlo.

 

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E se, tuttavia, non succedesse nulla di tutto ciò? Se gli inserzionisti non si ribellassero, se il governo non agisse, se gli utenti non lo abbandonassero e la buona nave Zuckerberg e tutta la gente a bordo continuassero spensieratamente? Dovrebbe riconsiderare di nuovo quel dato di due miliardi di utenti mensili attivi. Il numero totale delle persone che ha un qualche accesso a internet – definito nel senso più generico possibile, a includere le velocità analogiche più basse e i più scricchiolanti servizi di telefonia mobile del mondo in via di sviluppo, nonché persone che hanno accesso a internet ma non lo usano – è di tre miliardi e mezzo. Di essi circa 750 milioni sono in Cina e in Iran, che bloccano Facebook. I russi, circa cento milioni dei quali sono in rete, tendono a non usare Facebook perché preferiscono la sua emulazione nazionale VKontakte. Dunque poniamo il pubblico potenziale del sito a 2,6 miliardi. Nei paesi sviluppati, dove Facebook è presente da anni, l’uso del sito raggiunge un picco di circa il 75 per cento della popolazione (è tale negli Stati Uniti). Ciò implicherebbe un pubblico potenziale totale per Facebook di 1,95 miliardi. A due miliardi di utenti mensili attivi Facebook ha già superato quel numero e sta finendo a corto di esseri umani collegati. Martinez paragona Zuckerberg ad Alessandro Magno in lacrime perché non ha altri mondi da conquistare. Forse questo è un motivo dei primi segnali che Zuck ha diffuso circa la sua candidatura a presidente, il giro dei cinquanta stati facendo finta che non gliene freghi nulla, la posa meditabonda in cui è fotografato mentre condivide frappè in un piccolo ristorante dello Iowa (clacson di Ambizioni Presidenziali!).

 

Quale che sia il seguito, ci riporterà a quei due pilastri della società: crescita e monetizzazione. La crescita può provenire solo dal collegare nuove aree del pianeta. Un primo esperimento è arrivato sotto forma di Free Basics, un programma che offre connessione internet a villaggi remoti in India a condizione che la gamma di siti in offerta sia controllata da Facebook. ‘Chi potrebbe mai essere contro ciò?” ha scritto Zuckerberg sul Times of India. Risposta un gran mucchio di indiani arrabbiati. Il governo ha deciso che a Facebook non dovrebbe essere consentito di ‘determinare l’esperienza di internet degli utenti’ limitando l’accesso alla rete più in generale. Un membro di Facebook ha scritto via Twitter che ‘l’anticolonialismo è stato per decenni economicamente catastrofico per il popolo indiano. Perché fermarsi ora?’ Come indica Taplin, tale osservazione ‘ha rivelato involontariamente una verità in precedenza taciuta: Facebook e Google sono oggi le nuove potenze coloniali’.

 

Dunque il lato della crescita nell’equazione non è senza sfide, tecnologiche e politiche. Google (che un problema simile di esaurimento di umani) sta lavorando al ‘Progetto Loon’, ‘una rete di palloni che viaggia al margine dello spazio, progettata per estendere la connessione internet a persone in aree rurali e remote di tutto il mondo’.  Facebook sta lavorando a un progetto relativo a un drone a energia solare chiamato Aquila che ha l’apertura alare di un aereo di linea, pesa meno di un’automobile e quando in volo utilizza meno energia di un forno a microonde. L’idea che girerà intorno ad aree remote, attualmente non collegate, del pianeta, con voli che durano fino a tre mesi alla volta. Collega utenti via laser ed è stato progettato a Bridgwater, Somerset. (Anche il programma dei droni di Amazon ha sede in Gran Bretagna, vicino a Cambridge. Il nostro regime giuridico è favorevole ai droni). Anche lo scettico più incallito riguardo a Facebook deve essere un po’ impressionato dall’ambizione e dall’energia. Ma resta il fatto che i prossimi due miliardi di utenti saranno difficili da trovare.

 

Questo riguardo alla crescita, che avrà principalmente luogo nel mondo in via di sviluppo. Qui, nel mondo ricco, l’attenzione è più sulla monetizzazione ed è in quest’area che devo ammettere qualcosa che è probabilmente già evidente. Facebook mi fa paura. L’ambizione della società, la sua spietatezza e la sua manca di una bussola morale mi spaventano. Risale a quel momento della sua creazione, Zuckerberg alla sua tastiera dopo aver bevuto un po’, a creare un sito web per mettere a confronto l’aspetto delle persone, per nessun’altro motivo reale che il fatto che era in grado di farlo. Questa è la cosa cruciale riguardo a Facebook, la cosa principale che non è compresa riguardo alla sua motivazione: fa le cose perché può. Zuckerberg sa come fare qualcosa, altri no, perciò lui la fa. Una motivazione di questo tipo non funziona nella versione hollywoodiana della vita e perciò Aaron Sorkin ha dovuto dare a Zuck un motivo a che vedere con l’aspirazione e il rifiuto sociale. Ma è sbagliato, completamente sbagliato. Non è motivato da quel genere di psicologia da salotto. Fa questo perché può, e giustificazioni come ‘collegamento’ e ‘comunità’ sono razionalizzazioni a posteriori. La spinta è più semplice e più elementare. E’ per questo che l’impulso alla crescita è stato così fondamentale per la società, che per molti aspetti è più simile a un virus che a un’attività economica. Crescete e moltiplicatevi e monetizzate. Perché? Non c’è nessun perché. Perché.

 

L’automazione e l’intelligenza artificiale avranno un grande impatto su ogni sorta di mondi. Queste nuove tecnologie sono nuove e reali e stanno arrivando presto. Facebook è profondamente interessato a queste tendenze. Non sappiamo dove finirà questo, non sappiamo quali saranno i costi e le conseguenze sociali, non sappiamo quale sarà la prossima area della vita a essere svuotata, il prossimo modello imprenditoriale a essere distrutto, la prossima società a finire come la Polaroid o la prossima attività a finire come il giornalismo o il prossimo insieme di strumenti e di tecniche e divenire disponibile alle persone che hanno usato Facebook per manipolare le elezioni del 2016. Non sappiamo che cosa arriverà, ma sappiamo che è probabile che sarà importante e che una grande parte sarà giocata dalla maggiore rete sociale del mondo. Sulla base delle azioni di Facebook sin qui è impossibile guardare a questa prospettiva senza disagio.


Da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/you-are-the-product/

 

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