Fonte: Ereticamente

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21/08/2017 & 23/08/2017

 

La crisi degli Stati e l’insorgenza nazionalitaria. 

di Roberto Pecchioli

 

Arthur Moeller Van den Bruck, uno dei maestri della Rivoluzione Conservatrice, scrisse che ogni politica che si rispetti è essenzialmente politica estera. Un popolo diventa nazione politica nel rapporto con ciò che gli è esterno, con l’altro da sé, il diverso, lo straniero. Affermava altresì, l’autore del Terzo Reich (Il Terzo Impero, per azzardare una traduzione non equivoca del titolo del grande saggio uscito nel 1923, due anni prima del suicidio del suo autore) che i nazionalismi sono stati alimentati, sfruttati, in molti casi creati di sana pianta dal liberalismo per i suoi scopi economici e cosmopolitici. Di qui la lunga battaglia a favore degli Stati “nazionali” e contro gli imperi, condotta durante tutto il XIX secolo e conclusa con la carneficina intraeuropea della Prima Guerra mondiale, l’assurda pace di Versailles, lo smembramento di tre venerandi imperi, la rivoluzione bolscevica in Russia del 1917, susseguente alla pace separata di Brest Litovsk, e quella tedesca del 9 novembre 1918 che mise fine alla Germania guglielmina, il Secondo Reich.

 

Dopo le tempeste d’acciaio, il fuoco e il veleno chimico che misero in ginocchio le migliori gioventù europee nella terribile guerra di trincea dal 1914 al 1918 emersero tre vincitori: il liberalismo economico di stampo anglosassone; l’egemonia statunitense realizzata dal presidente Wilson e dalla sua creazione mondialista, la Società delle nazioni; gli Stati cosiddetti nazionali fatti sorgere o consolidati dalle ceneri dell’Austria Ungheria, dell’Impero Ottomano e della stessa Germania unificata da Bismarck meno di mezzo secolo prima nel nome della Prussia.

 

Un secolo dopo le trincee, molto è cambiato, ma il trionfo del modello globalista e cosmopolitico non ha affatto condotto il mondo, ed in primis l’Europa che ne era stata guida e modello per secoli, ad un assetto definitivo. Lontani dalle utopie millenariste della fine della storia (Fukuyama e il millenarismo statunitense) o del pacifismo (Kant ed il suo sogno della pace perpetua come esito dell’imperativo categorico della ragione), la globalizzazione non ha spento i popoli. Non ancora, comunque. Si potrebbe anzi azzardare che nel mondo, ed anche in Europa si aggira, in questo tratto del Terzo Millennio, uno spettro che non è vano definire insorgenza nazionalitaria.

 

Scopo del presente elaborato è prenderne atto, analizzarne gli elementi e le ricadute positive, indicarne i limiti e, purtroppo, gli interessi globalisti che ne alimentano diversi tratti e non pochi filoni, nella prospettiva di chi ama le patrie, i popoli e le nazioni, non sempre gli Stati e soprattutto vede nel mondialismo apolide e neoliberale il nemico delle comunità e delle nazioni.

 

La nazione, come soggetto politico è stata inventata dalla rivoluzione francese del 1789. Fu attraverso una vera e propria ipostatizzazione della “nation” che sorse il concetto moderno di Stato, sorretto peraltro, in Francia, dalla persistenza della struttura burocratico amministrativa dell’Ancien Régime, dimostrata acutamente da Tocqueville, scienziato della politica ed egli stesso brillante uomo di governo. Come comprese nel corso del drammatico Novecento Carl Schmitt, le grandi categorie politiche, così come le narrazioni ideologiche, non sono che concetti teologici secolarizzati. Non stupisce quindi del tutto che la sacralizzazione della nazione sia venuta all’epoca soprattutto dall’abate Sieyès, l’ex vicario di Chartres teorizzatore del Terzo Stato, cui si deve, tra l’altro, un grave fraintendimento che ha attraversato oltre due secoli, ovvero l’assimilazione dei termini di popolo e nazione, che non sono affatto sinonimi e che, semmai, consentono di sostituire, con esiti assai negativi, la sovranità nazionale (ovvero, di fatto, statale) alla sovranità popolare.

 

L’Ottocento positivista condusse all’apparente razionalità degli Stati nazionali, a partire dalla rivoluzione del 1848 e sino all’inferno bellico concluso nel 1918. La verità, tuttavia, è che i cosiddetti Stati nazionali frutto di quella lunga temperie spesso non possedevano quell’unitarietà spirituale, etnica e linguistica che ne doveva essere presupposto, bensì erano nuovi, più piccoli mosaici rappresentativi di interessi e preferenze dei ceti dominanti, la nuova borghesia industriale e liberale nazionalista per tornaconto. Al termine del XX secolo, dopo le tragedie della secondo conflitto ed il crollo del comunismo, l’universo liberale finanziario ed industriale ha gettato la maschera ed ha rivelato la sua vera vocazione, quella del superamento degli Stati, tesa all’instaurazione di un ordine mondiale globalista e globalizzatore in mano ad una cupola oligarchica da cui escludere i popoli e gli Stati. In quest’ottica, il piano alto, la torre di guardia del potere ha favorito nuove disgregazioni.

 

Le ingiustizie statali e nazionali del passato, frutto delle scelte dei medesimi gruppi, venivano adesso utilizzate come arma per disarticolare gli Stati – unico forte argine ai loro interessi finali – e favorire una vasta insorgenza nazionalitaria. Divide et impera, infine, come è antica abitudine di chi detiene le vere chiavi del potere. Limitiamoci all’analisi dell’Europa e delle sue propaggini, giacché nel mondo orientale ed africano la questione è ancora più complessa ed aggravata dalle antiche e nuove ingerenze coloniali delle potenze europee, degli Stati uniti ed adesso anche della Cina.

 

Il caso geopolitico di scuola è lo smembramento dell’Unione Sovietica. L’antico impero che fu degli Zar e che Stalin portò alla massima potenza dopo la carneficina del 1939-1945 – detta dai russi “la grande guerra patriottica” con circa 20 milioni di vittime! divenuto URSS è imploso in pochi anni, vittima della propria inefficienza, del burocratismo e della gabbia ideologica in cui si era rinchiuso. Non ci volle una guerra per decretare la fine: gli stessi Gorbaciov prima, Eltsin dopo, chiusero l’esperienza del comunismo reale novecentesco. Gli Stati Uniti ne approfittarono per favorire una drammatica spoliazione e spartizione dell’URSS in alleanza con i satrapi ex comunisti delle grandi repubbliche federate asiatiche. Ad Ovest, con la collaborazione soprattutto della Germania, riesumarono non solo le repubbliche baltiche, annesse solo dopo il 1918, ma lavorarono attivamente per sfruttare i sentimenti anti sovietici ed insieme anti russi di altri popoli. Un guazzabuglio territoriale e geopolitico persino più complesso di quello successivo ai due eventi bellici del secolo, vere e proprie guerre civili intraeuropee, secondo l’intuizione dì Ernst Nolte.

 

Invero, si trattò anche di una vendetta della storia e dei popoli, poiché l’URSS fu la prima compagine statale ed imperiale nata su esclusiva base ideologica: la sua bandiera era rossa, il colore del comunismo, il suo nome non aveva riferimenti storico territoriali. La parola chiave era Soviet, ovvero i consigli di base del comunismo bolscevico, per il resto non si trattava che dell’unione identità il cui tratto distintivo era la statalizzazione dei mezzi di produzione. Il predicato era una scelta economica: repubbliche socialiste secondo il modello dei soviet rivoluzionari leninisti. Espulsi dall’internazionalismo proletario, i popoli e le nazioni rinascevano dopo tre quarti di secolo. Levatrice, disgraziatamente, fu ed è l’altra forza apertamente cosmopolita, antinazionale ed antipopolare, quella del liberalismo diventato mondialista. Fratelli coltelli, ed il vincitore pur senza guerra aperta, sotto la bandiera a stelle e strisce, non fece prigionieri.

 

Il fuoco covava sotto le ceneri da decenni, in alcune situazioni da secoli, o almeno dall’Ottocento ardente di nazionalismo. I risultati sono adesso sotto gli occhi di tutti. Iniziò la Jugoslavia già nel 1980 alla morte di Tito, il dittatore comunista di nazionalità croata che riuscì a tenere insieme le plurime ed incompatibili anime degli slavi del Sud, portatori di due alfabeti, di almeno tre religioni, inestricabilmente uniti dalla geografia ed insieme divisi, come attestano le opere letterarie, come il celebre Ponte sulla Drina di Ivo Andric e gli stessi monumenti, come il noto ponte di Mostar. Fu la Germania, i cui interessi economici erano prevalenti nel nord della Jugoslavia, a soffiare sul fuoco, ed a favorire, nei convulsi anni successivi al fatidico 1989 ed alla riunificazione voluta da Helmut Kohl , accettata a malincuore dal francese Mitterrand, l’indipendenza della piccola Slovenia, della più grande Croazia, che determinò per contagio, insieme con la guerra alla Serbia, l’incendio bosniaco, già nel 1914 scintilla della prima guerra mondiale, tra esacerbati nazionalismi, rivalità etniche, ragioni religiose, impossibilità di dividere i campi in lotta per aree omogenee se non attraverso deportazioni di massa e milioni di profughi sradicati.

Ne fece esperienza la minoranza italiana in Dalmazia dopo il 1918 e la maggioranza degli istriani e dei fiumani di sentimenti italiani durante e dopo la seconda guerra, sino all’esodo del 1947, che si protrasse sino alla metà degli anni 50 per gli italiani della Zona B del cosiddetto Territorio Libero di Trieste (Capodistria, Umago, l’entroterra sino a Buie).

 

Se non altro, si comprese che le nazioni esistono, e così le etnie ed i popoli. Dall’Europa centrale ai Balcani la miccia esplose ovunque. Gli imperi avevano mantenuto una pace discontinua, ma i turchi non si erano vergognati di cacciare dall’Asia Minore centinaia di migliaia di greci ivi insediati da secoli, anzi da millenni, e di sterminare gran parte del popolo cristiano degli armeni. Del resto, un limite degli imperi è quello di necessitare di un centro di gravità, l’Austria per gli Asburgo, la Turchia anatolica per gli Ottomani, il mondo russo europeo per gli Zar e poi anche per l’URSS, la Prussia per il secondo Reich di Bismarck e Guglielmo II.

Uguale considerazione, tuttavia, vale anche per i maggiori Stati nazionali europei, anche quelli di più antica formazione. La Francia fu sempre Parigi e disprezzò spesso la sua “provincia”, con le numerose minoranze nazionali e linguistiche frustrate e disperse dalla Rivoluzione e per i due secoli successivi. La Gran Bretagna non è che la dimensione imperiale domestica dell’Inghilterra egemone, con il risorgente caso scozzese e l’Irlanda sfruttata, schiacciata, umiliata per secoli. La stessa Germania visse, dopo le contese durissime delle guerre di religione e la disfatta della guerra dei Trent’anni (prima metà del XVII secolo) il rompicapo di una spinta territoriale verso Est (Drang nach Osten) frenata dalla Russia e dall’impero asburgico, e la presenza di milioni di tedeschi in Boemia, Slesia e nel Baltico, talora in maggioranza nel mare slavo, più spesso minoranza culturalmente ed economicamente egemone.

 

Quanto alla Spagna, nata come Stato monarchico e come nazione nella lunga faticosa riconquista del territorio occupato dagli arabi, unita territorialmente a seguito del matrimonio tra Isabella di Castiglia e Fernando d’Aragona, la scelta fu di uniformare Stato e nazione attorno alla Castiglia egemone, con grande fastidio dei montanari baschi e navarri e soprattutto degli energici mercanti catalani con lo sguardo sul Mediterraneo. Il caso spagnolo è quello più complesso, per svariati motivi storici, politici ed economici, e sta per esplodere con esiti imprevedibili a seguito della fuga in avanti del governo locale catalano, dominato dall’indipendentismo radicale, che ha proclamato un referendum secessionista per il 1 ottobre. Comunque vada, nulla sarà come prima in Spagna.

 

Come per la Gran Bretagna, le spinte centrifughe nel paese iberico protagonista della conquista dell’America si sono rafforzate da quando l’impero non esiste più. Ne parleremo più diffusamente nella seconda parte dell’elaborato, dedicata alla Spagna, ma le spinte alla disgregazione della madre patria sono iniziate con le costituzioni liberali dell’Ottocento, la progressiva indipendenza delle colonie d’oltremare, fino alla sconfitta nella guerra di Cuba con gli Stati Uniti ed alla perdita, nel 1898, dell’ultima colonia, le asiatiche Isole Filippine. In Spagna, anzi, la crisi susseguente ha dato il nome ad una intera generazione di intellettuali, detta appunto del 98, la cui influenza si è estesa per circa un trentennio.

 

Anche gli Stati meno grandi vivono situazioni analoghe. Sappiamo tutti che il Belgio, piccola monarchia cuscinetto di lingua e sentimenti francesi creata nel 1830, sta in piedi faticosamente, tra acute contrapposizioni tra la maggioranza fiamminga del Nord e la minoranza vallone francese del Sud, più per le pressioni europee – Bruxelles è una sorta di anodina capitale delle istituzioni dell’UE – che per la volontà delle popolazioni. Boemia e Slovacchia si sono divise senza problemi dopo la fine dell’URSS, ma il resto dell’Europa sudorientale resta un cantiere aperto e, nei Balcani, è la polveriera di sempre, con il giovane Kosovo albanese da cui sono stati espulsi i serbi che lo avevano abitato per primi, la Macedonia trovatasi indipendente dopo l’esplosione jugoslava in un puzzle pressoché inestricabile di lingue, dialetti, etnie, religioni, interessi criminali.

 

Ma non va dimenticato che in Bulgaria alla maggioranza slava e filo russa si contrappone una minoranza turca che spesso diventa ago della bilancia per la formazione di governi, mentre l’indipendenza moldava pencola tra sentimenti di Grande Romania e ritorno alla Russia, già realizzato di fatto dalla striscia di confine settentrionale chiamata Transnistria. Delle tensioni in Georgia, la patria di Stalin, con una guerra fomentata dai soliti americani e delle difficoltà in varie zone periferiche della Russia si parla poco, ma la situazione nell’ampia regione caucasica è tenuta sotto controllo per il ritorno, con Vladimir Putin, della visione imperiale russa.

 

La situazione più grave, da anni ormai, è quella dell’Ucraina. In Italia, dove ci disinteressiamo della politica estera e storia e geografia appaiono strambi passatempi per eruditi un po’ retrò (“a che cosa servono?” raglia l’italiota dalla perfetta padronanza di smartphone ed iphone) ignoriamo che quella grande nazione ha dimensioni doppie della nostra e sino a pochi anni fa, prima delle grandi emigrazioni e delle guerre, superava i 50 milioni di abitanti. Fu anche il granaio degli Zar e dell’URSS. Divisa tra ucraini e russo ucraini, con un nord ovest legato anche alla Polonia ed alla chiesa di Roma (a Leopoli sorge da secoli un’università cattolica), fu la culla del popolo russo, l’antica Rus di Kiev. Lì nacque la letteratura epica, Il canto della schiera di Igor, ed ucraino fu uno dei giganti della letteratura russa, Nikolaj Gogol, autore delle Anime Morte, dei Racconti di Pietroburgo e della saga di Taras Bulba, l’eroe nazionale ucraino. Lo stesso nome del paese significa confine, a segnalarne la vocazione ineludibile.

Dopo la secessione dalla Russia degli anni 90, non accettata da almeno un terzo della popolazione, di lingua e inclinazione russa, l’Occidente e gli Stati Uniti hanno sempre soffiato sul fuoco, provocando le cosiddette “rivoluzioni arancioni”, in realtà rivolte di settori ultranazionalisti di tendenza nazista, offrendo persino il personale politico direttivo. Non pochi dirigenti di governo e partiti ucraini antirussi sono emigrati di ritorno in possesso della cittadinanza USA. La guerra, tra alterne vicende, continua, ma non vi è dubbio che la soluzione meno negativa, l’unica in grado di scongiurare un conflitto che non ci vedrebbe solo spettatori, è una difficile divisione del paese, con la parte orientale, ricca di industrie e di risorse minerarie, restituita alla Russia o ad essa in qualche modo federata.

 

Gli strascichi di ben tre strappi storici successivi- 1918, 1945, 1989 – sono evidenti ovunque, pur se l’opinione pubblica dell’Europa occidentale, narcotizzata dal declinante benessere, spoliticizzata dal consumismo e moralmente disarmata dalle ubbie pacifiste, non ne sembra affatto consapevole, anzi tratta da visionario o pazzo chi ne parla. Il nome di Cipro è conosciuto solo ai finanzieri attratti dalle zone offshore della parte greca appartenente all’Unione Europea, ma la piccola isola del mediterraneo orientale, poco più estesa della Corsica, è divisa da un muro di inferriate e soldati armati per decine e decine di chilometri, da odi antichi e da una guerra che ha portato lo spostamento di un quarto circa della popolazione da una parte all’altra del territorio. Il muro di Nicosia, che divide la stessa capitale, è perfettamente in funzione, tra la parte greca aderente all’UE ed il nord occupato dai turchi, una cui minoranza abita da sempre nell’isola di Afrodite.

 

In compenso, è custodita gelosamente la finta indipendenza di minuscoli Stati come San Marino, Monaco, Andorra, Liechtenstein, la cui unica funzione, al di là delle rispettabili storie di ogni territorio, è di ospitare e proteggere, con il beneplacito dei grandi Stati e delle cupole bancarie internazionali, la parte più losca del mondo finanziario , dedito al riciclaggio di denaro sporco, all’occultamento degli immensi profitti del signoraggio bancario, della vendita delle armi, del traffico di esseri umani e della droga. Del resto, il piccolo Lussemburgo, patria di Jean Pierre Juncker, attuale oligarca dell’Unione europea, finita l’era delle miniere e del sudore di tanti immigrati italiani, è la piazza finanziaria specializzata nel clearing – Clearstream, Euroclear, e la loro controllata Swift, che taluno collega, attraverso un lungo blocco alla banca vaticana, agli eventi che hanno condotto all’abdicazione di Benedetto XVI- ossia la camera di compensazione che regola tutte le transazioni finanziarie e interbancarie.

 

Dura anche il colonialismo britannico – vedremo se cambierà qualcosa con la Brexit – giacché Gibilterra è in Spagna, ma sullo stretto che divide Africa ed Europa sventola la Union Jack, dietro al quale si celano, o non si celano affatto, i peggiori affari di ogni specie; le isole del Canale, nella Manica, sono di fronte alla Normandia francese ma appartengono alla Corona britannica, pur non facendo parte del Regno Unito. Un altro dei troppi paradisi fiscali, Guernsey dove Victor Hugo esiliato scrisse I Miserabili e Jersey culla di una nota razza bovina.

 

Pare insomma che, se non proprio tutto, molto cambi, nel nostro continente, affinché nulla cambi per i grandi gattopardi, che sono contemporaneamente iene e sciacalli, come capì Giuseppe Tomasi di Lampedusa in un brano famoso del suo romanzo, posto sulle labbra del perdente Principe di Salina. Furono nazionalisti, poi imperialisti, adesso cosmopoliti e globalisti, ma sempre per i loro interessi peggiori, e sempre contro i popoli. Adesso usano il disagio delle nazioni, specie delle piccole patrie senza Stato, quelle dalle “lingue tagliate” e senza sovranità, qualche volta prive di un territorio definito, per indebolire gli Stati ed impedire la nascita di un Europa forte, libera e confederale, davvero unita, nell’essenziale, dall’Atlantico alla Russia. Fomentano separatismi, inventano nuove nazioni, soffiano sul fuoco da Nord a Sud, da Est a Ovest. Quasi nessuna delle compagini statali è immune dal contagio, che, va detto, non di rado, ha radici in vecchie ingiustizie e prevaricazioni cui si risponde con azioni di segno uguale e contrario.

 

La Brexit, al di là del caso scozzese, che probabilmente si risolverà senza strappi con ulteriori concessioni di Londra, riaprirà il vaso di Pandora irlandese. Ci sono già almeno due segnali: il primo è la partecipazione – la prima nella storia – del partito unionista dell’Ulster al governo britannico, il secondo è l’inquietudine, per non dire l’agitazione che attraversa l’Irlanda repubblicana e l’ampia minoranza cattolica e irredentista delle sei contee del Nord. Lassù, dove non sono certo sopiti gli odi di una guerra civile strisciante interminabile, la demografia sta cambiando con una certa velocità. In almeno due contee, l’elemento cattolico, tendenzialmente ostile alla Gran Bretagna, è divenuto maggioranza, e la vecchia partizione – due terzi unionisti protestanti, un terzo cattolici filo irlandesi – è ampiamente superata, e ci si avvia ad un’Irlanda del Nord divisa a metà. Ciò non sarà senza conseguenze, come dimostra il caso belga, in cui la tradizionale supremazia della componente francese vallone si è infranta contro la superiore vitalità demografica fiamminga supportata da una crescente forza economica. L’incomunicabilità tra le due parti è tale che nel Brabante, la regione centrale del Belgio, accanto alla storica città universitaria fiamminga di Lovanio è sorta, per i francofoni, Louvain-La–Neuve.

 

Nelle tre repubbliche baltiche, le prime ad aderire all’Unione Europea tra i vecchi satelliti sovietici, non è risolta la condizione di cittadini dimezzati, o di non cittadini, della popolazione di origine russa, particolarmente numerosa soprattutto in Lettonia. L’ombra più lunga è quella proiettata dalla Nato, ossia un’alleanza militare a trazione americana, creata in funzione antisovietica durante una tramontata stagione politica, che aggrega, con l’Europa occidentale, le nazioni dell’area centrale ed orientale del continente in un’antistorica funzione antirussa, nell’interesse antieuropeo di una potenza atlantica come gli Stati Uniti. Vale la pena rammentare che l’acronimo Nato significa Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico.

 

Se la storia marcia più veloce della politica, come anticipavamo all’inizio, il fronte più caldo è adesso quello spagnolo. Non può essere sottovalutata la sfida portata dall’orgogliosa Catalogna, decisa, per la verità molto più nelle sue istituzioni e nelle élite culturali che nell’insieme della popolazione, a chiudere un rapporto con la Spagna che è nato con l’unità statuale del paese iberico, quasi cinque secoli e mezzo or sono.

 

Dal 1 ottobre, data del referendum proposto dal governo regionale, la Generalitat, ma vietato da Madrid, nulla sarà come prima in Spagna e le scosse potrebbero lambire o addirittura attraversare un’Europa dove la storia ha ripreso a correre, pur se in direzioni contraddittorie e forse impazzite. Vale la pena approfondire il tema, nella seconda parte della presente riflessione.

 

1. Spagna invertebrata

La disgregazione progressiva della Spagna è la punta di lancia delle insorgenze nazionalitarie favorite dal processo di globalizzazione e dalle forze transnazionali interessate al tramonto definitivo dei grandi Stati, che non definiamo nazionali per le ragioni esposte nella prima parte del presente lavoro. La domanda se il paese iberico resisterà come Stato unitario alla seconda decade del terzo millennio non è affatto peregrina, alla luce di diversi separatismi, di una visibile e per certi versi drammatica decomposizione del tessuto unitario, e, da ultimo, dalla sfida della seconda regione per popolazione, prima per dinamismo economico, la Catalogna, insofferente da secoli, che ha programmato per il 1 ottobre prossimo un referendum per l’indipendenza della storico Principato di cui capitale è Barcellona.

Non meno preoccupante resta il clima nel Paese Basco, pur se tacciono da alcuni anni le armi dell’ETA – Euzkadi Ta Askatasuna, Paese Basco e Libertà- il gruppo separatista comunista che ha causato, nel corso di decenni, almeno un migliaio di morti e che gode di un consenso popolare diffuso, ancorché non maggioritario. Poi c’è il caso della Galizia atlantica, terra di brume ed emigrazione, dove il contagio si è propagato nel recupero della vecchia lingua locale, variante del portoghese, della Navarra, la cui identità è divisa a metà tra Castiglia e mondo basco. E poiché le epidemie si sviluppano progressivamente, sintomi di malessere antispagnolo si diffondono nella Comunità di Valencia, la cui parlata locale è simile al catalano e persino nelle isole Baleari, dove è sorto un improbabile nazionalismo maiorchino che esprime il sindaco di Palma de Mallorca, il cui primo atto è stato quello di eliminare la bandiera spagnola, la roja y gualda, dal palazzo municipale.

 

Umori negativi si levano dalle stesse Asturie, culla della nazione, da cui partì, con il Re Pelagio, la Reconquista medievale contro i Mori nel remoto 722 con la vittoria di Covadonga. In genere, ogni sentimento o rivendicazione anti unitaria in Spagna parte da rivendicazioni linguistiche. La lingua castigliana, diventata spagnola, non viene più accettata come idioma comune, tanto che persino un dialetto usato da poche famiglie rurali, come il balbe asturiano, aspira a diventare lingua ufficiale e sostituire il castigliano.

 

Solo il separatismo basco mantiene forti connotati etnici. Si può dire che il nazionalismo basco abbia radici apertamente razziali e razziste, sotto l’influenza dei fratelli Arana, in particolare Sabino, che teorizzò, nella seconda metà dell’Ottocento positivista, la superiorità della “razza basca”, con argomenti che oggi, in qualunque realtà diversa dalla Spagna, verrebbero respinti con sdegno come razzismo biologico. Lo stesso Arana studìò profondamente la lingua basca, l’euskera, specie nella variante della Biscaglia, la provincia di Bilbao, inventò il nome Euzkadi per indicare la regione storica abitata (anche) da popolazioni basche e ne disegnò la bandiera, chiamata ikurrina.

Il nazionalismo catalano ha invece radici economiche, relative allo scarso interesse storico della Spagna proiettata verso le Americhe per il Mediterraneo e l’Europa, cui è legata la forte classe mercantile catalana, nonché l’enfatizzazione della lingua, difesa con ostinazione da secoli, soprattutto da esponenti religiosi e dalla classe alta della città di Barcellona. Il catalano, simile al franco-provenzale, nella sua variante valenzana e maiorchina, ha una tradizione letteraria più antica del castigliano. In catalano scrisse nel Duecento Raimondo Lullo (Raimòn Llull) il grande teologo, letterato, scienziato e filosofo, prototipo dell’erudito medievale. Dopo l’unione dei regni, nel 1469, le rivolte in Catalogna sono state un elemento ciclico della storia spagnola. Tuttavia, mai era stata messa in discussione in maniera tanto radicale l’appartenenza della regione, ridefinita nazione, allo Stato spagnolo.

 

Localismo più globalizzazione dappertutto significa “glocalizzazione”, ma soprattutto, nell’antico regno di Spagna, significa disarticolazione progressiva delle strutture unitarie e dello spirito civile della nazione. Il primo a comprenderlo, già nel 1922, fu il grande sociologo e pensatore José Ortega y Gasset (1883-1955), l’autore del capitale saggio La ribellione delle masse. Nell’altrettanto fondamentale Spagna invertebrata, un classico del pensiero sociologico e metapolitico, egli si propose di analizzare la crisi politica e sociale della Spagna del suo tempo. Adottando il metodo della ragione storica, studiò il processo generale di integrazione e decomposizione delle nazioni, fornendo altresì un’esaustiva analisi dei fenomeni caratteristici della vicenda del suo Paese. Secondo Ortega, la disarticolazione della Spagna come nazione si radica nella crisi storica del suo progetto di vita in comune. “E’ la Spagna stessa il primo problema di qualunque politica”, concluse.  “L’ azione diretta di determinati gruppi sociali, i regionalismi e i separatismi sono il riflesso di un processo di disintegrazione che avanza in rigoroso ordine dalla periferia al centro, in maniera che la perdita degli ultimi possedimenti coloniali d’oltremare pare il segnale per l’inizio di una dispersione interpeninsulare”.

 

Particolarmente illuminante – ed assolutamente contemporanea per preveggenza e lucidità – è la seconda parte del testo, intitolata L’assenza dei migliori, perfetta sintesi del pensiero orteghiano, in cui il pensatore madrileno reinterpreta la storia spagnola in funzione della distinzione massa/minoranza. Qui si coniugano diagnosi politica e reinterpretazione storica: la Spagna è, appunto, “invertebrata” in quanto storicamente carente di una élite dirigente capace di assumere compiti davvero nazionali e di riconoscere le responsabilità, le sfide e le vere poste in palio. La sua convinzione è che si tratti di un difetto costitutivo della razza spagnola, forse il vero genio negativo del popolo. Sulle tracce del grande storico tedesco Mommsen, la genesi di ogni nazione è spiegata come “un vasto sistema di incorporazione”.

 

Nascita della nazione e contestuale sorgere dello Stato, in tali fortunati casi storici, riescono a porre in secondo piano il fattore culturale, etnico e linguistico. Secondo Ortega, l’agente totalizzatore della Spagna fu la Castiglia, il cui rango privilegiato le impone una missione, quella di produrre “un’energia centrale che obbliga le comunità incorporate a vivere come parti di un tutto e non come tutti a parte”. Non aver formato un ceto dirigente “nazionale” fu la colpa storica della monarchia, in particolare della Castiglia che, in alleanza con l’Andalusia, si è comportata più spesso da padrona che da madre e tutrice della Spagna. Questo fu anche il comportamento tipico della nobiltà spagnola, che non seppe mai trasformarsi in una vera aristocrazia. Più affamata di oro, titoli e onori che interessata a costruire e vertebrare la nazione, ha largamente contribuito ad alimentare la cosiddetta “leggenda nera” di matrice franco inglese che ha bollato il suo colonialismo. La straordinaria avventura americana del popolo iberico gli ha fatto trascurare la dimensione europea e quella mediterranea in cui sono radicate storicamente e geograficamente la Catalogna ed il Levante.

 

Un duro colpo all’idea di Spagna unita e plurale venne, dopo la Rivoluzione francese, con la diffusione delle idee liberali e l’uguaglianza astratta estranea al carattere iberico. Nel secolo XX la crisi proseguì, dopo la fine dell’impero nazionale, con il susseguirsi di crisi e rivolte, acuite dalla povertà di troppi spagnoli; su tutte la tragedia sanguinosa della guerra civile del 1936/1939. La monarchia tradizionale spagnola aveva riconosciuto la natura plurale dei popoli della penisola sui quali regnava. Così, restò in vigore per secoli il sistema dei fueros, ovvero le autonomie consuetudinarie in terra basca, navarra e catalana. I re giuravano fedeltà ai fueros recandosi sul posto (famosa è la tradizione dell’albero di Guernica, città basca bombardata durante la guerra civile dall’aviazione tedesca che ispirò un quadro di Pablo Picasso celebre quanto equivoco), in cui l’unità dello Stato non veniva intaccata, anzi rinsaldava periodicamente l’unità spirituale delle genti di Spagna, o delle Spagne, come diceva un grande cattolico tradizionale spagnolo del Novecento, Francisco Elias de Tejada.

 

La fedeltà alla monarchia dei baschi fu così grande da determinare, contro le idee liberali della regina Isabella II e la rottura delle regole dinastiche, due lunghe guerre civili che segnarono l’Ottocento, dette carliste dal nome del pretendente legittimo al trono di Spagna. Fu l’ultimo grande segno di fedeltà all’idea monarchica dei baschi cattolici e tradizionalisti, che si spostarono poi in massa, a causa del trionfo del liberalismo, su posizioni autonomiste e separatiste, le stesse che hanno attraversato ed insanguinato la Spagna durante tre quarti del Novecento. Dopo la crisi del 1927, la destituzione del re Alfonso XIII nel 1931, la repubblica fu entusiasticamente sostenuta da baschi e catalani, in cambio di statuti d’autonomia molto ampi.

 

Poi arrivò la tremenda prova della guerra civile, la rivolta della Spagna nazionale e cattolica contro una repubblica che si tingeva sempre più del rosso del bolscevismo, oltre a mostrare i caratteri di un anticattolicesimo radicale, sanguinario ed antispagnolo. La vittoria arrise al campo nazionale guidato da Francisco Franco, ma un milione di morti ed una divisione profondissima non potevano essere dimenticati in fretta. Il solco fu enorme anche dal punto di vista territoriale, con il Nord industriale, minerario e specialmente le province basche e la Catalogna, schierato compattamente per la repubblica e incline alla secessione. Pure, la nazione rialzò la testa anche economicamente, con l’aiuto del denaro tedesco e per l’accortezza di Franco che chiamò al governo le migliori energie, tratte soprattutto dall’ Opus Dei, l’organizzazione religiosa fondata da José Marìa Escrivà de Balaguer, sacerdote aragonese elevato poi all’onore degli altari.

 

Il generalissimo Franco, contando sull’appoggio delle uniche due forti borghesie del paese, quella mercantile ed industriale della Catalogna e quella finanziaria e mineraria della Biscaglia basca, governò per quasi 40 anni, creando un discreto sistema industriale, dando reddito all’agricoltura attraverso grandi opere di irrigazione , accettando caute aperture nel turismo e più largamente nel commercio, ma non seppe capire che l’asfissiante uniformità “spagnolista”, come dicono nella penisola, non solo mortificava una parte importante del territorio, ma impediva di chiudere definitivamente la tragica pagina della guerra civile. Saltata una generazione della casata di Borbone, per recuperare la plurisecolare istituzione monarchica richiamò in Patria il giovane principe Juan Carlos, figlio dell’esiliato Juan, che sarebbe dovuto succedere al deposto Alfonso XIII.

 

Alla morte del Caudillo, Juan Carlos, incoronato Re, avviò un rapido programma di democratizzazione, suggellato dalla Costituzione del 1982, che, nel bene, ma anche nel male, segna la Spagna contemporanea. Votata dall’intero arco parlamentare, tranne da piccole minoranze tra le quali spiccarono i partiti nazionalisti baschi ed i repubblicani catalani ( ma gli altri movimenti catalanisti furono favorevoli) , la Carta cambiò nel profondo la storia del paese, accompagnandolo in una transizione che ebbe capi politici di talento, come il socialista Felipe Gonzàlez, allevato dalla socialdemocrazia tedesca, e l’ex franchista Adolfo Suàrez, che promossero uno sviluppo turistico, industriale, civile ed infrastrutturale divenuto impressionante. Il leader probabilmente più abile e spregiudicato fu però il catalano Jordi Pujol, che tenne in mano il governo regionale per un quarto di secolo e, con una politica astuta e senza scrupoli, guadagnò alla sua terra la maggior parte delle competenze dello Stato e grandi investimenti pubblici. Sostenne da Barcellona, sempre dall’esterno ed esclusivamente in chiave regionale, governi nazionali di segno opposto, mantenendo con spregiudicato cinismo una relazione personale con Juan Carlos che fu sempre orientata agli interessi della Catalogna ed all’arretramento della Spagna.

 

Purtroppo per l’antica nazione dei Re Cattolici, di Cervantes, di santi come Ignazio, Domenico, Teresa d’Avila e del pittore forse più grande del mondo, Diego Velàzquez, ma soprattutto per l’idea di Stato e di nazione, la costituzione e la sua applicazione para federalista disarticolò ulteriormente la vecchia Spagna invertebrata, svuotando le istituzioni comuni e creando i presupposti per le crisi successive, di cui oggi si vedono e paventano gli effetti. Nata per chiudere con una dittatura più nazionalista che patriottica e inglobare nella nuova Spagna le molte realtà che erano rimaste all’opposizione politica o territoriale dagli anni Trenta, la Carta ha fallito clamorosamente il tentativo di operare l’unificazione del paese per via istituzionale. In questo senso, la costituzione spagnola è una clamorosa sconfessione del “patriottismo costituzionale” promosso dal progressismo borghese.

 

Il primo “buco” della costituzione del 1982 è di non aver affermato la Spagna come Stato unitario, ma neppure federale. Il risultato è un sistema territoriale in cui non esistono le regioni, ma, pudicamente e astrattamente le “comunità autonome”. Ad alcune è stato concesso uno statuto più ampio (Paesi Baschi, Catalogna, Isole Canarie), ad altre è stato negato; da qualche parte le competenze statali sono passate alla comunità autonoma, altrove no, scatenando una corsa che non solo ha svuotato le istituzioni centrali, ma ha provocato gelosie, contenziosi giudiziari, la gara infinita a chi si riuscisse ad appropriarsi prima e più degli altri i poteri devoluti. La Castiglia, centro gravitazionale della nazione, venne divisa in cinque pezzi, con l’evidente scopo di indebolirne il ruolo assiale. La storia spagnola conosceva la partizione tra Nuova e Vecchia Castiglia, rispettivamente a sud e nord della capitale Madrid. La nuova divisione ha prodotto l’autonomia della città di Madrid e della sua cintura, ha unito a Sud la Mancia a quel che restava della Nuova Castiglia, a nord ha creato una regione enorme – oltre 90 mila chilometri quadrati, ma spopolata, unendo contro la storia la Vecchia Castiglia, privata del suo sbocco al mare, Santander, con le storiche province del Leòn, gravitanti sulla città universitaria di Salamanca. In più ha costituito la minuscola regione vinicola della Rioja e la Cantabria, ovvero la provincia di Santander.

Fatto a pezzi il centro della nazione, ha cancellato lo storico nome di Levante alla vasta regione valenzana, ribattezzata Comunidad Valenciana, per troncarne il rapporto geografico e storico con il centro del paese. Così ridisegnate, le diciassette comunità autonome si sono impegnate da subito per sottrarre potere e denaro a Madrid. Contemporaneamente, iniziavano interminabili battaglie soprattutto per l’acqua, un bene prezioso che in due terzi della Spagna scarseggia. Il problema era stato faticosamente risolto dal governo autoritario, che portò l’acqua dovunque, ma al prezzo di desertificare aree intere della Spagna interna, specialmente nell’arida Aragona e nelle Castiglie. Senza l’acqua aragonese, centinaia di migliaia di barcellonesi, indipendentisti compresi, soffrirebbero la sete. Nelle zone della captazione idrica, borghi e paesi si sono svuotati, moltissimi non esistono più. Ovviamente, la contropartita è un’agricoltura più ricca, specialmente nel Levante valenzano e negli immensi pianori coltivati a vite e olivo. Un sistema spezzettato, privo di centro e di regole certe e solide istituzioni di garanzia ha bloccato il Paese e ne favorisce il progressivo sbriciolamento sino alla balcanizzazione.

 

2. Spagna, una nazione malata dall’incerto futuro.

La Spagna post franchista, caso forse unico al mondo, ha un inno nazionale esclusivamente musicale, probabilmente per timore del testo in lingua castigliana o perché non vi affiorasse un patriottismo respinto, screditato, bollato come fascismo con un accanimento superiore a quello dell’Italia post bellica. Quella musichetta di modesta qualità è oggetto di bordate di fischi allorché viene suonata in manifestazioni sportive in cui sono impegnate squadre basche o il Barcellona, il cui capitano di qualche anno fa, Pep Guardiola, è diventato il testimonial del referendum del 1 ottobre. L’autonomia non ha risolto per nulla il cancro del terrorismo basco, anzi è stato utilizzato dai nazionalisti cosiddetti moderati per ricattare il governo. In realtà, l’ETA ha deposto le armi (che possiede ancora in quantità) per l’esaurimento dei suoi referenti esteri – ambienti arabi, settori dei servizi segreti di stati comunisti – e per la collaborazione tra Spagna e Francia preoccupata per il possibile contagio nel paese basco francese ben più che per conversione pacifista. Peraltro, continua ad avere un forte braccio politico nel partito Bildu, erede di Batasuna posto al bando.

 

I baschi nazionalisti hanno riesumato l’arcaica lingua basca, pretendendo due canali televisivi pubblici pagati dal denaro del popolo spagnolo, controllate strettamente dal governo locale. Hanno conquistato un sistema scolastico regionalizzato nel quale vengono privilegiate le ikastolas, ossia le scuole con lingua di insegnamento basco. Un localismo anacronistico e per certi aspetti ridicolo, che consente la diffusione di sentimenti antispagnoli e una interpretazione faziosa e furiosamente localista della storia. La guerra sporca contro l’Eta, peraltro, ha spesso permesso al vittimismo della destra basca di ottenere concessioni sempre nuove.

 

La Spagna ha spesso utilizzato, per regolare i conti con l’Eta una guerra sporca, utilizzando personaggi dell’eversione internazionale, coperti malamente dai governi nazionali di destra e sinistra, alimentando nuovi risentimenti anche in settori della popolazione non propensi alla violenza e non indipendentisti. L’interminabile stagione della violenza etarra ha determinato un grave impoverimento della regione, una volta assai prospera per industrie, miniere, porti ed entità finanziarie, tanto che Bilbao era la principale Borsa spagnola. Moltissime aziende, anche estere, sono fuggite dal clima di violenza e dall’ “imposta rivoluzionaria”, il pizzo mafioso preteso dall’Eta e dai suoi sgherri politici per non scatenare la violenza ed il sangue. E’ proprio quell’impoverimento che ha spuntato, momentaneamente, le armi dell’indipendentismo locale, che sembra in una fase di riflessione.

 

Un altro immenso errore è stato quello di consentire che in alcune regioni fosse costituita una polizia regionale armata. Passi per le Isole Canarie, tanto lontane dalla madrepatria, da cui le separa l’oceano atlantico, un fuso orario e la condizione di territorio fiscalmente esterno all’ Unione Europea, ma permettere la nascita della Polizia Forale della minuscola Navarra fu francamente ridicolo. Più pericolosa l’esistenza della Ertzaintza basca e dei Mossos de Esquadra catalani.

 

La stessa denominazione avrebbe dovuto insospettire i governanti spagnoli, e soprattutto la monarchia, il cui unico compito residuo è garantire la coesione nazionale. Ertzaintza significa guardia del popolo, e richiama un corpo armato fondato durante la guerra civile nel campo repubblicano. I Mossos de Esquadra, ragazzi di squadra, portano il nome di reparti costituiti durante la violenta insurrezione catalana del 1714/15. Intanto, migliaia di poliziotti, di armi e di blindati sono controllati non dallo Stato o da istituzioni territoriali leali, ma da professionisti della rivolta antinazionale. Il nuovo comandante della polizia catalana, Pere Soler, un politico ultra radicale, è noto per gli insulti contro la Spagna scagliati attraverso dichiarazioni pubbliche e “cinguettii” su Twitter. Nel più educato, afferma che gli spagnoli gli fanno pena, ma una penosa ispanofobia, che in Italia cadrebbe nei rigori della legge Mancino, è preda di parti importanti della società catalana.

 

In Catalogna, ed è il fatto più sconcertante della vicenda politica spagnola degli ultimi decenni, i governi centrali hanno accettato di devolvere alla Generalitat di Barcelona l’intero sistema scolastico ed educativo. Dodicimila docenti hanno dovuto fare le valigie in quanto incapaci, ovviamente, di insegnare non il catalano, ma in catalano. Sì, perché nella democratica, libera e progressista Catalogna dei diritti non è diritto dei ragazzi e dei loro genitori che l’insegnamento avvenga nella lingua nazionale, che, costituzionalmente, è ancora lo spagnolo castigliano. Va detto che circa la metà dei residenti è di madrelingua spagnola e non catalana! La cosiddetta “immersione linguistica”, nella regione ed in parte nelle Isole Baleari, come viene chiamata la preferenza per la lingua locale, coinvolge segnali stradali, istituzioni e persino insegne commerciali, con i titolari pagati per cambiare le scritte dallo spagnolo al catalano, multati se non lo fanno.

 

Ciò che venne giustamente imputato ai governi spagnoli del passato in materia di disprezzo per le specificità locali, i mini nazionalisti lo mettono in pratica ogni giorno impunemente in piena democrazia, nel silenzio delle istituzioni e di quel re che dovrebbe rappresentare l’unità nazionale. La scuola controllata dai separatisti è lo strumento privilegiato di una propaganda martellante ed ultratrentennale, infarcita di menzogne e di una impressionante xenofobia anti ispanica, spesso fomite di autentico odio, oltreché di aperto disprezzo per la lingua comune. Addirittura, il governo non riesce a completare l’organico della Polizia Nazionale e della Guardia Civile, in Catalogna, per il rifiuto al trasferimento di chi non può assicurare ai suoi figli l’istruzione in un idioma da loro compreso, che, per inciso, è una della più importanti lingue veicolari del pianeta.

 

Il fatto è che, oltre ai ricatti politici dei partiti separatisti, che socialisti e popolari hanno sempre subito senza fiatare, nessuno dei due grandi partiti spagnoli ha un respiro ed una visione nazionale. I popolari sono deboli in terra basca ed in Catalogna per la concorrenza dei movimenti localisti orientati a destra; inoltre sono preda di una sindrome di timore del passato che impedisce loro di prendere decisamente le difese dell’unità nazionale e dei cittadini di lingua e sentimenti spagnoli delle regioni in fiamme. Spagnolista è termine pronunciato come un insulto, anche se gli indipendentisti non sono maggioranza, e la guerra delle parole, unita alla variante autonomista del politicamente corretto fa sì che in Catalogna e nelle province basche la parola Spagna sia diventata impronunciabile, sostituita da “Stato spagnolo” o, genericamente, da “Stato”. I socialisti, saldi e leali in Euzkadi, non esistono in Catalogna, giacché il socialismo locale è soltanto federato con il PSOE e si chiama, significativamente, Partit del Socialistes de Catalunya. La sua denominazione non è bilingue, ma solo in catalano.

 

Durante il quarantennio democratico, tra l’altro, la disoccupazione è rimasta altissima, con punte che hanno raggiunto il 25 per cento. Ciò non ha impedito un’immigrazione ancora più massiccia che in Italia, in Catalogna largamente favorita dal governo locale nelle sue componenti est europee, nordafricane e di lingua non spagnola (il legame con l’Iberoamerica è sempre vivo) in funzione antinazionale. Agli immigrati si spera di insegnare il catalano, ma non lo spagnolo, che però risorge in quanto lingua veicolare di livello mondiale, nonché prima lingua di circa la metà degli oltre 7 milioni di abitanti della regione. Il nazionalismo ideologico tende sempre ad escludere perfino quando finge di integrare!

La data del 1 ottobre 2017 segnerà in ogni caso la storia più che millenaria della Spagna.

 

La Generalitat di Catalogna, dominata da una setta di separatisti furiosi, ha proclamato il referendum sull’indipendenza con una domanda, cui sembra obbligatorio rispondere sì, volta alla fondazione di uno Stato repubblicano indipendente dentro l’Unione Europea. Il governo nazionale ha già chiesto ed ottenuto dal Tribunale Costituzionale spagnolo il divieto di svolgimento. E’ evidentemente incostituzionale un atto non concordato con cui si pretende separare una parte di Spagna, abbattendo altresì la cornice monarchica del Regno. Sotto il profilo immediato, è verosimile che la consultazione non si terrà; questa sembra l’assicurazione data dal primo ministro Rajoy al re Felipe VI. Un processo probabilmente irreversibile è tuttavia stato avviato.

 

Nelle settimane a venire, decisivo sarà il ruolo “costituzionale” dei partiti di opposizione, come il socialista e i liberali progressisti di Ciudadanos, molto radicati in Catalogna, dove rappresentano un bastione “unionista”. Più incerta la posizione di Podemos, il movimento che alcuni paragonano a Cinque Stelle. Prigioniero delle parole d’ordine della sinistra radicale degli anni 70 e 80, è indifferente alla questione nazionale, ma ha rotto con i suoi esponenti catalani, che appoggiano il referendum pur non schierandosi per l’indipendenza. La posizione della Chiesa cattolica è variegata. Diversi vescovi sono apertamente indipendentisti, altri hanno una posizione più sfumata, simile a quella, favorevole all’unità spagnola, della Conferenza episcopale. Il punto è: reggerà la fragile alleanza anti secessionista? La risposta è un rotondo no. I socialisti hanno già annunciato di volere una riforma costituzionale in senso federalista, il cui esito sarebbe probabilmente una toppa, una fragile tregua dopo la quale le rivendicazioni ripartirebbero più forti, coinvolgendo certamente il mondo basco, ora alla finestra, settori della Galizia e, in chiave pancatalanista, persino le Isole Baleari.

 

Ovviamente i due altri grandi problemi del Paese rimangono irrisolti, minando la società e costituendo terreno fertile per nuove divisioni: parliamo dell’economia e dell’immigrazione. La Spagna, con 46 milioni di abitanti, ha almeno 4,5 milioni di disoccupati. Il numero è in calo, ma si tratta in genere di impieghi stagionali legati al turismo. In Catalogna, intanto, i più radicali tra gli indipendentisti (è sconcertante che in Spagna il nazionalismo localista attecchisca soprattutto a sinistra!) hanno iniziato una pesante campagna contro i turisti stranieri, mentre lo sciopero di lunga durata dell’aeroporto barcellonese di El Prat scatena sospetti di complotto e nuove ondate di intolleranza antispagnola. Quanto all’immigrazione, impressionante per numero, tenendo conto dei limiti economici del paese, ha i suoi punti caldi nelle due enclavi spagnole in Nordafrica, ultimi residui di un impero che toccò quattro continenti. Le città ex coloniali di Ceuta e Melilla hanno posto tra sé e l’Africa che li circonda muri elettrificati alti sei metri, poliziotti e militari in assetto di guerra, ma la pressione è terribile, quotidiana, e scatena dibattiti nell’opinione pubblica non dissimili da quelli italiani.

 

La storia non si fermerà; ancora una volta, dopo aver appiccato l’incendio, la borghesia catalana si metterà la mano sul portafogli e appoggerà la permanenza della regione nel Regno di Spagna, non senza brigare per ottenere appoggi a livello europeo – si è schierata però la sola Slovenia – e strizzare l’occhio alla benevolenza degli Stati Uniti. Il fatto è che in Spagna le fughe in avanti (o all’indietro…) sono state troppe. Pujol ed il suo partito, ora in rotta, girondini travolti da giacobini sempre più estremi, avevano ballato sulla corda con straordinaria visione tattica per oltre 30 anni. Da un lato, la Spagna restava il mercato privilegiato per le merci catalane e per le banche di Barcellona, gli immigrati andalusi e galiziani venivano accolti a centinaia di migliaia per mandare avanti l’economia, ma poi si alimentava, con la scuola ultranazionalista e la televisione pubblica locale TV3, da cui è bandito l’uso della lingua spagnola, un sentimento di rancore e di rivendicazione continua, si rifiutava la storia comune e si diffondeva una visione in cui la Spagna era presentata come il secolare oppressore violento.

 

Tutto questo è il brodo di coltura del 1 ottobre ed il segno di una disgregazione nazionale che non ha trovato veri oppositori. Non la monarchia che con Juan Carlos ha soprattutto fatto il pesce in barile, e che, secondo alcuni, è oggi ben più ricca di quando, 42 anni fa, riprese il trono per volontà di Francisco Franco, non i grandi partiti nazionali, inclini al compromesso, in preda al timore di essere considerati troppo spagnoli, anzi spagnolisti, secondo il lessico locale, non le istituzioni “invertebrate” o le classi dirigenti. Anche la società civile ha disertato la battaglia, contentandosi di appelli alla concordia ed alla moderazione. Non diversamente il clero, che nei Paesi Baschi, in talora supportato o giustificato le forme più ripugnanti e violente del nazionalismo basco, come il controverso vescovo emerito di San Sebastiàn, José Marìa Setién. Per questo, la Spagna invertebrata è il laboratorio perfetto per il mondialismo nemico degli Stati. Tante piccole realtà autonome incapaci di vera indipendenza fanno la fortuna delle cupole oligarchiche. Non è un caso che, sotto la presidenza Obama, l’ambasciatore americano abbia partecipato a convegni del nazionalismo catalano. Poiché però quei signori vanno dove li porta non il cuore, ma il tornaconto, è probabile una frenata, magari orientata a rincorse successive.

 

Il clima si fa pesante. Da un lato, lo Stato ed il governo schierano per ora soprattutto l’apparato delle leggi e allertano i funzionari pubblici, rafforzano cautamente polizia e Guardia Civile. Dall’altro la tensione sale, mentre tutti i sondaggi confermano una lenta avanzata dei contrari alla secessione, ma anche una continua radicalizzazione degli indipendentisti, tra i quali si segnala l’alta percentuale di giovanissimi imboniti dalla martellante propaganda antinazionale della scuola e dei mezzi di comunicazione controllati dal governo regionale. Si è però apertamente schierato per l’unione uno dei grandi quotidiani di Barcellona, El Periòdico, di lingua spagnola ed orientato a sinistra, mentre mantiene un basso profilo l’organo storico della borghesia locale, La Vanguardia. La disputa è accanita persino su quelli che appaiono dettagli, ovvero l’acquisto delle urne – vietato in quanto malversazione di denaro pubblico per un atto illegale, secondo il Governo – e l’utilizzo della pubblica anagrafe. Il voto per posta, “por correo “, nel linguaggio sovreccitato dei nazionalisti sarà possibile, ma non “por Correos” ovvero non attraverso l’ente postale nazionale spagnolo.

In tutto ciò, quello che colpisce l’osservatore è che una parte non piccola della popolazione sembra indifferente o neutra e che l’onda nazionalista, fortissima nelle istituzioni, nei milieux intellettuali e nella propaganda, non è altrettanto potente nell’opinione pubblica. Tanto in Catalogna che nei Paesi Baschi, è sociologicamente accertato che il rapporto tra le parti è di equilibrio. I secessionisti sono forti, ma non godono di un consenso travolgente, gli unionisti ed i moderati sono molti, ma silenziosi. Comunque vada, ed è opinione di chi scrive che la consultazione non si svolgerà, ma verrà mantenuta come arma di propaganda e di pressione in qualche forma escogitata dall’universo indipendentista e dalla Generalitat, né l’esercito interverrà o darà segni di schierare truppe nella regione. Troppo alto il rischio di scontri pesanti, troppo forti le pressioni internazionali, e comunque la grande maggioranza degli spagnoli, in Catalogna e fuori, non lo accetterebbe.

 

Tuttavia, lo scontro finale sarà solo rinviato. Probabile sarà l’occupazione di qualche edificio pubblico, oltre a manifestazioni dure o persino violente. Poi ci saranno nuove trattative, canali di dialogo saranno riaperti, probabilmente la Spagna si trasformerà in uno Stato federale, si definirà plurinazionale e cercherà di tirare avanti alla meglio per un altro po’. Chi ha seminato vento, raccoglierà altra tempesta. Dopo aver ottenuto, giustamente, i riconoscimenti della peculiarità catalana e basca rispetto al resto del Paese, mestatori di vario tipo, con il sostegno nascosto di settori dei poteri transnazionali, premono sulla Spagna affinché accetti di dissolversi. Contemporaneamente, nel resto della penisola cresce il contro movimento del rancore anti catalano, che fa il paio con un analogo sentimento nei confronti dei baschi: una condizione di disfacimento civile che non promette nulla di buono per il futuro di una vecchia, prestigiosa nazione e proietta ombre scure sulla sopravvivenza dell’istituto monarchico, destinato a crollare con esiti infausti se non saprà garantire la sostanziale tenuta dell’unità nazionale, unica ragione della sua esistenza.

 

Sarebbe non solo una tragedia di quel popolo, che il carattere ispanico non risolverebbe senza spargimento di sangue, ma il sinistro segnale di implosione per l’Europa stessa, se non saprà frenare un processo centrifugo che si propagherà con modalità distinte quasi ovunque. La fine degli Stati nazionali sarebbe l’avvio di un sistema in cui ad un nuovo localismo etnocentrico gretto e provinciale si sovrapporrà inevitabilmente come dominus il superstato tecnocratico sognato dagli oligarchi. Persino uno Jurgen Habermas ha scritto pagine illuminanti in difesa degli Stati. Per questo speriamo in una rinascita, anzi in una nuova Reconquista spagnola, che ritrovi le ragioni permanenti dell’unità e della convivenza dei popoli iberici, le cui diversità troppo enfatizzate non sono etniche o razziali e neppure confessionali.

 

Si può, si deve essere spagnoli, come è sempre stato, senza cessare di amare la patria piccola, catalana, basca, castigliana, galiziana o andalusa. Il resto è la penosa anarchia invertebrata del declino nazionale e morale della patria di Don Chisciotte, il Cavaliere dalla Triste Figura.

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