Originale: Jacobin Magazine

http://znetitaly.altervista.org/

28 agosto 2017

 

La nuova vita di Murray Bookchin

di Damian White 

professore associato alla Rhode Island School of Design

traduzione di Giuseppe Volpe

 

Murray Bookchin ha trascorso cinquant’anni ad articolare un nuovo progetto di emancipazione che porrebbe l’ecologia e il soggetto umano creativo al centro di una nuova visione del socialismo. Ecco un pensatore che nei primi anni sessanta dichiarò il cambiamento climatico uno dei problemi che definivano l’era. Bookchin considerava la crisi ambientale il becchino del capitalismo. Ma egli insisteva anche che noi dobbiamo essere continuamente all’erta riguardo alle potenzialità postcapitaliste che possono emergere nel capitalismo. “Tecnologie liberatorie”, dalle rinnovabili agli sviluppi della “miniaturizzazione” e dell’automazione, combinate con forme più vaste di riorganizzazione sociale e politica, potrebbero aprire possibilità senza precedenti di autogestione e abbondanza sostenibile. Negli anni settanta e ottanta Bookchin suggerì che un ambientalismo ossessionato da scarsità, austerità e difesa della “natura pura” non avrebbe portato da nessuna parte. Il futuro stava in un’ecologia sociale urbana che affrontasse gli interessi delle persone per una vita migliore e potesse articolare ciò nella forma di una nuova visione repubblicana del politica di una nuova visione ecologica della città.

Negli anni novanta, al vertice del postmodernismo, Bookchin sostenne che una sinistra che riduceva la modernità e l’umanesimo a una caricatura sarebbe divenuta attivamente reazionaria.

Morì nel 2006, politicamente isolato e rassegnato al fallimento del suo progetto.

Un decennio dopo Bookchin sembra essere dovunque, dal New York Times Magazine al Financial Times. Improvvisamente buttar lì il nome di questo rivoluzionario di sinistra è di gran moda nelle più tradizionali delle pubblicazioni. Perché?

Il caos in Medio Oriente, in particolare la difesa da parte dei combattenti curdi della loro zona autonoma a Bakur, Rojava, e nella regione sudorientale della Turchia, è in parte responsabile dell’attuale ondata di attenzione mediatica.

Abdullah ?calan, il capo del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) ha rotto con il marxismo-leninismo nel 2004 e si è dichiarato seguace di Bookchin. Öcalan ha successivamente sostenuto che il sistema proposto da Bookchin di democrazie partecipative confederate offre la base di un nuovo modello di modernità democratica oltre lo stato-nazione: non solo per i curdi, ma per la regione in generale.

L’aumento della popolarità di Bookchin, tuttavia, è anteriore a Öcalan e ai curdi.

E’ “Bookchin l’ecologista sociale” che ora è rientrato nel dibattito ambientale, particolarmente alla luce delle discussioni sull’”antropocene”.

Bookchin anticipò gran parte di questa discussione trent’anni fa. In un dibattito ingrato che ebbe con vari “ecologisti radicali” egli sostenne che dobbiamo riconoscere quanto la storia sociale e la storia naturale siano intrecciate.

Egli sostenne anche che la diffusa tendenza a incolpare un generico “anthros” di una crisi ambientale generata dal capitalismo era del tutto fuorviante. Un’ecologia sociale deve respingere l’idea misantropa che gli esseri umani siano intrinsecamente “deterioratori dell’ambiente” e affermare il nostro potenziale di assistenti creativi della terra.

Forse ancor più sorprendente è stato il modo in cui Bookchin è spuntato fuori come un punto centrale di riferimento nel tentativo in corso di dare un senso al paesaggio politico post-Occupy.

L’idea di Bookchin che la democrazia urbana debba essere rivitalizzata attraverso il modello dell’assemblea popolare ha indotto i suoi sostenitori anarchici ad affermare che egli ha quasi anticipato le forme politiche di cui Occupy ha cercato di farsi campione.

Per contro un gruppo crescente di marxisti devoti ha sostenuto che è “Bookchin l’ex anarchico” che offre una guida parecchio buona al motivo per il quale Occupy si è affievolito ed è svanito. Hanno osservato che i suoi scritti più tardi sono sempre più critici del processo decisionale orientato all’unanimità.  Bookchin credeva alla costruzione di assemblee popolari ma, contrariamente a molti anarchici di Occupy, credeva anche alla dirigenza politica e alla mobilitazione del pubblico mediante un insieme chiaro di rivendicazioni.

Dunque qual è il Bookchin che potrebbe essere oggi più utile al nostro momento politico? Ci sono basi per sentire che i suoi scritti potrebbero effettivamente offrire vie per riflettere oltre “il Rosso”, “il Nero” e “il Verde”?

Ecology Or Catastrophe: The Life of Murray Bookchin [Ecologia o Catastrofe: la vita di Murray Bookchin], una nuova biografia scritta da Janet Biehl (collaboratrice, coautrice, curatrice e compagna di Bookchin per vent’anni) offre un punto di partenza produttivo per valutare l’eredità di Bookchin.

Rosso, nero e verde

Nel suo libro, frutto di ricerche meticolose e spesso commovente, la Biehl dimostra che un motivo per il quale Bookchin ha attratto e perso così tanti pubblici diversi nel corso della sua lunga vita di studioso è che la sua storia politica è ascesa e caduta con la politica della sinistra del ventesimo secolo: egli ha partecipato alla “vecchia sinistra”, alla Nuova Sinistra, alla sinistra verde e allo stallo finale del socialismo del ventesimo secolo.

Murray Bookchin è nato nel 1921 da immigrati ebrei russi, costretti a emigrare nel Bronx dopo la fallita rivoluzione del 1905. Fu in larga misura cresciuto dalla sua nonna radicale, che era stata membro dei Rivoluzionari Sociali in Russia.

Cresciuto in una famiglia nella quale i ritratti di Rosa Luxemburg e degli assassini dello zar Alessandro ornavano le pareti, Bookchin ricordava di aver saputo di più, da bambino, dei rivoluzionari russi che non di Robin Hood. Perse la sua amata nonna all’età di dieci anni. Suo padre se ne andò e a quel punto furono solo lui e sua madre che, afferma la Biehl, era alla deriva, quando andava bene. La vita divenne dura.

La Biehl dipinge un quadro vivido della New York City dell’era della Depressione. Bookchin e sua madre erano per periodi indigenti, dipendenti dalla mensa dei poveri mentre si trasferivano tra appartamenti in affitto e la strada. A salvare il giovane Bookchin furono i quartieri immigrati riccamente articolati e profondamente politicizzati del Bronx e il Partito Comunista.

Le organizzazioni giovanili del Partito Comunista statunitense (CPUSA) gli diedero struttura, concentrazione, un’educazione politica e sostentamento in un mondo caotico. Da adolescente vendeva il Daily Worker agli angoli delle strade del Bronx, parlava a riunioni all’aperto nel Crotona Park e partecipava a scioperi degli affitti.

Dopo le superiori Bookchin trovò lavoro da operaio di fonderia e del settore automobilistico. Fu anche un attivista sindacale partecipando a campagne di tesseramento del CIO.

Ma il Fronte Popolare, i processi di Mosca e il patto nazi-sovietico, sommati a quella che egli percepiva come un’assenza di coscienza rivoluzionaria tra i lavoratori statunitensi, lo delusero. Come molti altri della sinistra intellettuale, Bookchin lasciò il CPUSA per il trotzkismo e il Partito Socialista dei Lavoratori (SWP).

Fu là che Bookchin conobbe l’emigrato tedesco e intellettuale socialista Josef Weber. Weber aveva aderito al Partito Comunista Tedesco quando Rosa Luxemburg era ancora viva e lavorava per un giornale parigino elogiato da Trotzky. Arrivò a New York City nei primi anni quaranta con una valigia di libri di Marx, Hegel, teoria critica, e idealismo tedesco e la convinzione che il capitalismo era in un declino terminale.

Bookchin divenne presto suo studente, suo ricercatore, suo sostituto e alla fine suo protetto. Insieme ruppero con il SWP alla fine degli anni quaranta e fondarono la rivista Contemporary Issues [Affari contemporanei] con altri membri della sinistra.

Contemporary Issues era impegnata a ripensare il progetto socialista lungo “linee democratiche”. In conseguenza era aspramente critica sia degli Stati Uniti sia dell’Unione Sovietica. La rivista cercò di disegnare un socialismo indipendente e umanista. Bookchin scrisse per la rivista lungo tutti gli anni cinquanta su ogni sorta di temi politici.

E’ in ‘The Problems of Chemicals in Food’ [I problemi della chimica negli alimenti], un articolo pubblicato da Bookchin nel 1952, che ha sostenuto per la prima volta che i problemi ambientali potevano a quel punto costituire lo spazio in cui si esprimono le contraddizioni fondamentali del capitalismo.

Ecologia controculturale

Gli anni sessanta videro Bookchin emergere come sostenitore a pieni polmoni di un’ecologia sociale rivoluzionaria. Our Synthetic Environment’ [Il nostro ambiente sintetico](uscito sei mesi prima dell’epocale ‘Silent Spring’ [Primavera silenziosa] di Rachel Carson nel 1962] sostenne la tesi che il benessere postbellico era basato su un diffuso degrado dell’ambiente.

‘Crisis in Our Cities’ [Crisi nelle nostre città](1965) suggerì che la crisi dell’ambiente urbano era intimamente collegata alla crisi dell’ambiente naturale. Entrambi i libri sostenevano che senza una riorganizzazione fondamentale della società nessuno di tali problemi sarebbe stato risolto.

Quei progetti non ottennero il seguito pubblico o l’acclamazione accademica goduti da libri come ‘L’uomo a una dimensione’ di Marcuse. Ma saggi chiave – quali ‘Ecology and Revolutionaru Thought’  [Ecologia e pensiero rivoluzionario] (1964) e ‘Towards a Liberatory Technology’ [Verso una tecnologia liberatoria] (1965) – circolarono diffusamente attraverso la stampa alternativa negli Stati Uniti.

Altrove tali interventi incontrarono occasionalmente una totale incomprensione: i Situazionisti ironicamente si riferivano a Bookchin come all’”Orso Smokey” quando si incontravano in Europa. Tuttavia egli gradualmente trovò un uditorio nel lato più radicale della controcultura.

La politica della Nuova Sinistra sbollì in coda agli anni ’60. Ma Bookchin continuò a scrivere libri e articoli e il corpo delle sue opere attirò attenzione sufficiente per farlo atterrare a un posto accademico. In verità, come osserva la Biehl, egli diventò professore a pieno titolo senza avere una laurea. Questo “lavoro sicuro” gli diede la stabilità per perseguire progetti fuori dall’accademia.

Bookchin fondò l’Institute for Social Ecology [Istituto per l’ecologia sociale] (ISE) nei primi anni settanta in Vermont con l’antropologo Dan Chordokoff. Come tratteggia la Biehl, nelle sezioni forse più ottimiste e vivaci del libro, l’ISE aveva un bilancio all’osso ma divenne uno snodo centrale per ogni genere di insegnanti carismatici e sognatori utopisti.

Al suo picco circa trecento intellettuali, attivisti, artisti e tecnologi radicali sarebbero venuti a studiare con Bookchin e a partecipare al programma del trimestre estivo della scuola.

L’ISE offriva alcuni dei primi corsi del paese su urbanesimo ed ecologia, tecnologia radicale, ecologia e femminismo, arte attivista e comunità. Non c’era davvero nulla di simile. Gli studenti leggevano teoria critica, studiavano la storia delle assemblee popolari e facevano esperimenti di acquacultura urbana e pannelli solari.

L’ISE divenne anche il centro di un’onda di attivismo politico che inondò il paese negli anni settanta e ottanta; John e Nancy Todd condussero esperimenti con ‘macchine viventi’ e sistemi di produzione a circuito chiuso presso il New Alchemy Institute in Massachusetts (anticipando successivi programmi di ricerca in Ecologia Industriale); Karl Hess e David Morris sperimentarono democrazia di quartiere e autogestione nello stato di Washington; Ynestra King e Chiah Heller fecero molto per promuovere il dibattito sui contorni di un ecofemminismo sociale.

Tutti insegnarono all’ISE in momenti diversi. Relazioni durature furono anche costruite tra l’ISE e i radicali portoricani di New York City. Chino Garcia e il suo gruppo CHARAS erano visitatori regolari in Vermont a esplorare varie strategie di sviluppo comunitario dal basso e ammodernamenti ecologici nel loro quartiere nel Lower East Side.

Ma mentre i panorami politici sono vasti e spumeggianti nei primi tre quarti di Ecology Or Catastrophe, colpisce come si contraggono nella sezione finale del libro.

Disincanto

Bookchin e Biehl si gettarono nella promozione di una politica confederale municipalista concentrata sull’assemblea popolare nei tardi anni ottanta e negli anni novanta. Opuscoli e libri fuoruscirono dalla loro piccola casa a Burlington, Vermont, per cercare di convincere i non iniziati e combattere con i dubbiosi.

Ecology Or Catastrophe dettaglia numerosi momenti critici in cui questo progetto politico parve guadagnare qualche seguito. L’ascesa di movimenti urbani quali il Montreal Citizens Movement in Canada; movimenti per la democrazia di quartiere in Spagna, Grecia e Norvegia, e socialismo municipale in Gran Bretagna parvero tutti aver un certo potenziale in momenti diversi.

La Biehl documenta come Bookchin trascorse parecchio tempo negli anni ottanta a dialogare con le sezioni di sinistra dei Verdi tedeschi. Tentò senza successo di convincerli che la via parlamentare era un vicolo cieco e che avrebbero fatto meglio e perseguire un’alternativa municipale federale.

Di nuovo a casa a Burlington si scontrò con Bernie Sanders.  Entrambi tentavano di costruire un qualche genere di forza politica che avesse qualche potere stabile: la Rete dei Verdi di Sinistra, i Verdi di Burlington, il progetto Ecologia Sociale, il Progetto Comunalista …

Ogni momento mostrava una scintilla per poi svanire. I tempi erano fuori sincronia. La Biehl riconosce anche che Bookchin non fu mai una persona con cui fosse facile collaborare. Aveva una visione singolare e non poteva scendere a compromessi.

Nel suo crepuscolo, malattie, sconfitte politiche, polemiche interminabili e continue battaglie con una lista in continuo ampliamento di nemici politici lasciarono Bookchin esausto. I soldi erano pochi ma più che da ogni altra cosa Bookchin era deluso dalla regressione politica che vedeva attorno a sé.

La popolarità di un irrazionale postmodernismo nell’accademia era una cosa, ma l’esplosione di forme del tutto irrazionali di ecologia e anarchismo spezzavano il cuore. Egli ruppe con l’anarchismo nel 2002 e si riferì sempre più a sé stesso come a un comunalista o un socialista.

Bookchin e la Biehl nel loro progetto finale si imbarcarono in una rilettura in quattro volumi della tradizione rivoluzionaria che mirava a restituire le lotte per la democrazia popolare al loro posto centrale nella storia rivoluzionaria. Lo tenne vivo, diede loro un progetto comune cui lavorare; ma politicamente e personalmente si stavano allontanando.

Bolchini mantenne fino alla fine un impegno militante alla tradizione rivoluzionaria e al municipalismo confederale. La Biehl rivela che lei, almeno, abbandonò la speranza. Tornò a essere una “socialdemocratica”, la sua politica prima di incontrare Bookchin.

Un pubblico nuovo

Che cosa può ricavare da Bookchin una sinistra del ventunesimo secolo?

Bookchin ha visto giusto in un mucchio di cose. I suoi scritti sulla crisi capitalista e l’ecologia, la promessa di eco-tecnologie liberatorie, le nuove forme di piacere e tempo libero che un riorganizzazione socialmente ed ecologicamente razionale potrebbe rendere disponibili sono stati acuti e importanti.

Socialisti orientati all’ecologia possono tuttora imparare dal suo appello a un’ecologia urbana creativa che ampli gli spazi di libertà, autogestione e cambiamento sociotecnico.

Abbiamo bisogno di forme di urbanesimo ecologico e di ristrutturazioni eco-tecnologiche che mirino a qualcosa di più che a risultati tecnocratici a basso carbonio. Come sostiene Bookchin, dovremmo aspirare a forme sociotecniche che per quanto possibile ridiano un senso di “sé stessi e di competenza” a una “cittadinanza attiva”.

Ecology Or Catastrophe della Biehl è anche importante in quanto evidenzia come l’Institute for  Social Ecology, al suo meglio, praticò una politica ecologica sperimentale e creativa che costituì una sfida diretta ai presupposti ideologici dell’ambientalismo malthusiano.

Arte pubblica; esperimenti collettivi di eco-progettazione e tecnologia; tentativi di coltivare sistemi partecipativi di innovazione sociale, urbana culturale e comunitaria; una politica ecologica di piacere, possono essere tutte cose derise dai puristi.

Ma è impressionante quanto lontana da questo progetto sia la politica apocalittica della sinistra ecologica contemporanea. L’idea che potremmo aspirare non semplicemente a ridurre la nostra impronta ecologica, bensì a creare un’impronta ecologica migliore sembra essersi interamente smarrita.

Ma la biografia della Biehl serve anche a ricordarci che il progetto di Bookchin si accompagna anche a molti problemi non risolti.

Socialità e lavoro

Il desiderio di Bookchin di evitare il riduzionismo di classe è stato importante, così come la sua enfasi su una politica che raggiunga le persone fuori dal luogo di lavoro. Ma il suo desiderio di evitare un grossolano operaismo è stato troppo estremo; il lavoro scompare dalla sua ecologia sociale.

Possiamo essere o no diretti a una nuova onda di automazione postindustriale nelle economie avanzate. Nessuno lo sa realmente. Quello che sappiamo è che, nel qui ed ora, il luogo di lavoro resta uno spazio cruciale di sfruttamento, sorveglianza ed enorme assenza di libertà.

Come ci ha ricordato Fight for $15 [Lotta per 15 dollari (l’ora)] resta anche uno spazio chiave per mobilitare le persone per condizioni migliori che possono condurre a ulteriori lotte per più autonomia e autogestione dentro e fuori dal luogo di lavoro.

Il modello delle assemblee popolari a una storia lunga e nobile nella sinistra. Continua a ispirare mobilitazioni politiche dall’Argentina a Rojava. Ma permangono domande cruciali riguardo a quanto possa realizzare da sola una strategia concentrata sull’assemblea di quartiere e come tali forme si relazioneranno con altri spazi e livelli dell’attività politica.

Il dilemma è parecchio chiaro. Se le assemblee di quartiere fanno troppo poco, diventano impotenti e prive di scopo, ma se promettono troppo, è una ricetta per la disfunzione e lo stallo politico.

Bookchin era a favore di una visione massimalista e sentiva che una struttura confederale di governo poteva appianare tutte le difficoltà. Ci sono motivi per ritenere che a meno che i progetti di ricostruzione di solide democrazie urbane siano più differenziati, multidimensionali – e chiaramente collegati a progetti per costruire democrazia industriale nel luogo di lavoro, democrazia culturale nella vita di ogni giorno e continue battaglie politiche per difendere, ampliare e trasformare lo stato amministrativo – le politiche municipali potrebbero facilmente fallire.

Senza una politica complessa che progredisca su molti fronti, le assemblee di quartiere potrebbero facilmente diventare politiche occupate dai ricchi di tempo e scarsi di impegno. Le persone che lavorano cinquanta ore la settimana e devono destreggiarsi tra la cura dei piccoli e quella degli anziani non avranno voce in capitolo.

Anche la svolta nell’ecologia sociale dalla produzione a una concentrazione sulla “comunità” suscita serie preoccupazioni. Partecipare a interessi sociali e ambientali locali ha il suo valore. Esperimenti comunitari di costruzione di diversi tipi di ecologie partecipative sociali locali possono costruire solidarietà e competenze civiche.

Ma sappiamo anche che tutti questi progetti sono accompagnati da complicate politiche di classe/genere e razziali. E’ anche giusto segnalare che soluzioni comunitarie a complessi problemi locali e globali – dalla produzione di alimenti alla fabbricazione di merci – possono rapidamente imbattersi in limiti superiori.

Ancora una volta, occuparsi del lavoro come spazio cruciale per comprendere il metabolismo tra “società” e “natura” diviene criticamente importante qui. Il processo di produzione è un luogo in cui hanno luogo contraddizioni socio-ecologiche locali e globali e in cui le tendenze universalizzanti del capitalismo a collegare persone, materiali, non umani e molteplici ecologie diverse in vaste catene di fornitura divengono più evidenti.

Il lavoro è anche uno spazio cruciale in cui possono essere ricostruite alternative locali ad alleanze globali lavoro-ambiente che premano per occupazione verde, gestione da parte dei lavoratori, cooperative sostenibili, ristrutturazioni eco-industriali e “transizioni giuste” in tutto il globo.

In effetti è attraverso la costruzione di tali reti, coalizioni e solidarietà lavoro-ambientali che la geografia spaziale di una visione più differenziata e multilivello di un futuro sostenibile potrebbe giungere in vista più chiaramente.

Tecnologia ed ecologia urbana

Anche questioni di politiche di scala circondano la visione di Bookchin del futuro dell’urbanesimo e della tecnologia.

Le possibilità di costruire una politica di “tecnologie liberatorie” che abbiano il potenziale di contribuire all’autogestione popolare si sono chiaramente ampliate ben oltre la tavolozza delle rinnovabili distribuite, della miniaturizzazione meccanica e dell’automazione che eccitarono il Bookchin degli anni ’60.

Produzione paritaria, software di fonte pubblica, fabbricazione digitale, proposte di cooperative di piattaforme, economie circolari, ecologie industriali e così via, potrebbero tutte contribuire a una visione di una tecnocultura sostenibile del futuro.

Tuttavia molte di queste stesse tecnologie che sono pubblicizzate per accrescere le possibilità di autonomia e autogestione in una certa dimensione spaziale, possono ben dipendere da infrastrutture, istituzioni di ricerca, forme di competenza specialistica centralizzate e da una divisione complessa del lavoro su altre dimensioni spaziali.

Inoltre i materiali per produrre pannelli solari fotovoltaici e cellulari, turbine e sistemi di immagazzinamento dell’energia non crescono sugli alberi. Si scavano fuori dalla terra in determinati luoghi e sono scaricati fuori dalla vista in altri.

Al riguardo Bookchin ha ragione. Dovremo rendere ecologici e democratizzare i nostri mondi urbani.  Strategie per costruire un futuro urbanistico equo e partecipativo contrassegnato da edilizia popolare di lusso, da squisiti parchi e giardini pubblici, da nuove modalità di mobilità sostenibile e da beni e spazi pubblici condivisi di elevata qualità dovranno certamente combinare strategie “dal basso” e “dall’alto”. Le assemblee di quartiere dal basso possono essere vitali, ma ottenere potere pubblico sulle decisioni di investimenti urbani e su richieste di banche d’investimento popolari regionali o nazionali è ugualmente cruciale.

Assicurare che quella che Mumford ha chiamato “l’arte di costruire la città” sia un’arte pubblica anziché un segreto privato può anche richiedere qualcosa di più che una democrazia urbana faccia a faccia o un ritorno alla tecnocrazia di sinistra del “noi la sappiamo più lunga”.

Abbiamo bisogno di costruire forum diversi in cui “esperti della costruzione della città” (pianificatori, paesaggisti, architetti, progettisti, eccetera) sia portati a un costante dialogo con “esperti del vivere la città” (cioè pubblici informati preparati ad affrontare il difficile compito di immaginare futuri urbani alternativi).   Questo potrebbe rendere disponibili modi molto più fruttuosi di pensare la progettazione democratica.

Le dimensioni liberatorie più vaste dei nostri paesaggi urbani e rurali futuri saranno caotiche, complicate e colte malamente dalla dicotomia “decentramento = bene”, “centralizzazione = male”. In molti casi la densificazione delle nostre città, periferie, ex città esistenti sarà molto più importante per i futuri del basso carbonio che non l’incoraggiamento dei tipi di paesaggi decentrati immaginati da Bookchin.

Ridimensionare, ingrandire

E’ il cambiamento climatico a costituire la questione più politicamente pressante riguardo alle forme di ecologia sociale che potrebbero costruire un futuro socialmente giusto ed ecologicamente sensato.

Bookchin merita un enorme credito per essere stato una delle prime voci radicali a insistere che la sinistra deve mobilitarsi attorno al cambiamento climatico. Oggi dobbiamo tagliare le emissioni di gas serra di sino al 90 per cento in forse cinquant’anni garantendo contemporaneamente che più di 9 miliardi di persone abbiano accesso a una buona vita.

Il compito è gigantesco. La risposta tecnocratica liberale standard a questa sfida ha concentrato tutta l’attenzione sull’importanza di decarbonizzare le nostre fonti di energia. Ma questo non è sufficiente.

Dobbiamo costruire una nuova infrastruttura energetica di scala continentale post-carbonio, elettrificare e diversificare i trasporti, scoprire nuovi modi di viaggiare e spedire, e sviluppare materiali da costruzione molto più efficienti.

Aree costiere in molti luoghi dovranno essere rese più resilienti e robuste, riposizionate, forse trasferite o abbandonate. Schemi di consumo basati su un modello “dalla culla alla tomba” dovranno essere trascesi da ecologie industriali giuste e sostenibili che ci portino dal più al meglio, dalla proprietà all’accesso, dall’obsolescenza incorporata a beni durevoli di elevata qualità che possano essere facilmente smontati e riutilizzati.

Ora, tutto questo è vero ma raramente questa riflessione si estende a considerare come questo progetto potrebbe richiedere anche smilitarizzazione, democratizzazione della creazione di valore e del potere economico, o la necessità di democratizzare le nostre istituzioni politiche decrepite.

Dunque dove colloca questo l’eredità di Bookchin?

Le forze curde che attualmente tentano di sostenere il loro comunalismo democratico contro i continui attacchi militari del presidente turco Recep Tayyip Erdogan e dell’ISIS vanno appoggiate. Quello che hanno realizzato sinora nelle condizioni brutali in cui si trovano è nientemeno che rimarchevole.

In termini di politiche di genere sembrano essere già andati oltre Bookchin. Dovremmo imparare dal loro straordinario tentativo di minare il patriarcato e istituzionalizzare la democrazia popolare e sperare che essa permanga su un percorso generalmente progressista.

Ma dovremmo anche diffidare dal generalizzare eccessivamente la rilevanza di questo esperimento per altri luoghi e altri problemi.

In termini di problemi climatici, oggi sappiamo che i gas serra che sono già stati rilasciati nell’atmosfera hanno “cucinato” nel sistema un certo livello di riscaldamento e aumento del livello del mare per secoli a venire. Questo significa che ora stiamo avendo a che fare con un sistema molto più dinamico e non lineare di qualsiasi cosa immaginata dai radicali degli anni sessanta che – attingendo in larga misura all’ecologia comunitaria dell’epoca – si erano concentrati sulla costruzione di un futuro contrassegnato da “equilibrio naturale” e olismo.

La visione controculturale di una società ecologica decentrata “nidificata accuratamente” dovrà cedere il passo a una visione più dinamica di paesaggi urbani e rurali post-capitalisti che si adeguino costantemente, costruendole e ricostruendole, alle loro ecologie sociali circostanti.

Anziché fare un feticcio della via municipale al cambiamento sociale, questo dovrà coinvolgere l’arruolamento di molti partner su molte dimensioni spaziale della politica per facilitare trasformazioni sociali, tecnologiche ed ecologiche. Più crucialmente, lo stato – dove esiste e dove è ancora relativamente aperto all’influenza di forze progressiste – avrà un ruolo centrale in questa transizione.

La sensibilità dovrà essere sperimentale e iterativa anziché istituzionalmente dogmatica e inflessibile. Le dimensioni umane di un futuro urbano democratico ed ecologico saranno molteplici e varie.

Qualsiasi cosa di meno manca di comprendere la dimensione dei problemi in cui ci troviamo.


Da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/murray-bookchins-new-life/

 

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