Fonte: Ereticamente

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05/09/2017

 

La geopolitica e l’irresistibile avanzata del dragone

di Roberto Pecchioli

 

La geopolitica è materia ostica, complessa, niente affatto popolare, tanto che occorre addirittura definirla. Si tratta di una conoscenza a cavaliere tra la geografia e le scienze politiche, con forti incursioni nell’economia e nella storia, che studia la natura e le vicende delle società umane, dei territori e delle compagini statuali ed imperiali, cercando di interpretarle in rapporto all’ambiente geografico considerato in tutti i suoi aspetti. La geopolitica si sviluppò dapprima in area britannica, al tempo dell’impero talassocratico di Sua Maestà. Le sue origini moderne si possono riconoscere nel pensiero di Halford Mackinder, cui si deve il concetto di heartland, il cuore della terra, l’area centrale dell’Eurasia che, nell’intuizione di Mackinder, è la chiave del dominio planetario. Egli, tra la fine dell’Ottocento ed i primi decenni del XX secolo, enfatizzò l’importanza della posizione geografica e dei fattori fisici nella potenza di uno Stato, a giustificazione teorica dell’egemonia della Gran Bretagna.

Il fondatore della geopolitica tedesca fu invece Friedrich Ratzel, fautore della concezione hegeliana dello Stato come unione spirituale di tutti i membri di una comunità nazionale, che innestò nella nuova scienza una teoria geografica deterministica, quella dello spazio vitale (lebensraum), il cui peso fu assai rilevante nella politica estera della Germania. Più recentemente, la geopolitica ha conosciuto la teoria dello scontro di civiltà di Samuel Huntington, l’idea della fine della storia a seguito del trionfo del modello liberista di Francis Fukuyama, nonché quella dell’interventismo generalizzato degli Usa, promossa soprattutto dai circoli detti neoconservatori animati da intellettuali ex trotzkisti, quasi tutti di origine ebraica.

L’Italia, purtroppo, ha rinunciato da oltre settant’anni a giocare un ruolo geopolitico proprio ed autonomo, e gli studi relativi sono rimasti confinati in ristretti ambiti accademici o presso gruppi riservati d’élite. Diventa quindi assai difficile animare da noi una cultura geopolitica all’altezza dei tempi. La storia infatti ha ripreso la sua marcia, una corsa in varie direzioni dal moto sempre più accelerato. L’Italia, questa espressione geografica (Metternich) che non ha mai saputo essere popolo e tanto meno nazione, ha iniziato ad accorgersene, dopo un sonno di oltre mezzo secolo, a seguito della nascita dell’Unione Europea, dell’introduzione dell’euro e l’esplosione della globalizzazione economica e finanziaria.

L’accelerazione odierna data a partire dal 2010, con i primi possenti segnali dell’onda migratoria africana e l’evidenza che Francia, Germania e Gran Bretagna continuavano a svolgere politiche “nazionali” senza o contro di noi, sino alla guerra contro Gheddafi per interessi energetici e la crisi dello spread che abbatté il governo Berlusconi attraverso un golpe europeo orchestrato in patria dal presidente della repubblica in persona. Contemporaneamente, si è registrata l’ondata terroristica islamista, il ritorno della Russia di Putin sulla scena internazionale in contrapposizione all’unipolarismo dell’impero americano, le finte primavere arabe che hanno destabilizzato il sud del Mediterraneo, sino alle guerre tribali libiche ed alla spinta organizzata verso nord di imponenti di masse di neri dell’Africa centrale ed occidentale. La delicata posizione geografica ci ha costretto, nostro malgrado e in mano a classi dirigenti impreparate e asservite, a occuparci di politica estera, orfani del comodo, ma tanto ingombrante ombrello americano e delle illusioni europoidi.

Sullo sfondo, un fenomeno nuovo nella storia: lo spostamento improvviso verso Est del baricentro mondiale. Dall’Ovest, terra del tramonto, all’Oriente, con l’irruzione di almeno due miliardi e mezzo di esseri umani nel campo dell’industria, della tecnologia, del consumo, del fabbisogno enorme, urgente ed inderogabile di energia e materie prime. Nulla di veramente nuovo sotto il sole della Terra, in cui le civiltà si susseguono, nascono e tramontano, ma il fenomeno è di dimensioni inedite per ampiezza, intensità e rapidità. Inoltre, dal punto di vista dell’Italia, uscita dalla grande storia dopo il 1945, c’è la fatica e la sgradevole responsabilità di prendere posizione, assumere impegni, doversi accollare un ruolo diverso da quello di spettatore pagante.

Tra i nuovi attori di questa fase storica, spicca la Cina, la terra del dragone, uno Stato di circa 10 milioni di chilometri quadrati, (oltre trenta volte il nostro piccolo stivale) popolato da almeno un miliardo e trecento milioni di persone, un quinto dell’umanità, oltre venti volte la popolazione italiana e il quadruplo degli stessi Stati Uniti. Un acuto osservatore ha di recente riproposto la metafora – cinese anch’essa – del dito che indica la luna. Il saggio guarda la luna, lo stolto osserva il dito. Nella realtà, le dita sono oggi il terrorismo e le migrazioni, fenomeni epocali, ma in fondo effetti, non cause dei formidabili cambiamenti in atto. La luna è diventata la Cina. L’antico Catai, storicamente, non ha mai posseduto una volontà di potenza mondiale. Prima dei viaggi dei grandi navigatori portoghesi e spagnoli, fu l’imperatore cinese ad armare una grande flotta, con navi di dimensioni immense, le più grandi mai costruite. Si recarono in Africa sud orientale, ritennero che non ci fosse granché da scoprire o da imparare e tornarono a casa. La flotta venne addirittura demolita, pur se gli scambi commerciali sino-africani iniziarono.

Due secoli fa, fu Napoleone ad avere l’intuizione secondo cui la Cina, gigante addormentato, “quando si sveglierà scuoterà il mondo”. Quel tempo è arrivato, il trauma è dei più tosti, la scossa del progressivo risveglio del Dragone con epicentro a Pechino e Shanghai si sta ripercuotendo in almeno due continenti, l’Asia, ovviamente, e l’Africa, e fa sentire i suoi effetti di tsunami sulla vecchia Europa, il leone in pensione, addomesticato, ingrigito, narcotizzato, ma anche sul padrone di oggi, quegli USA che hanno improntato di sé il secolo passato.

In fondo, non è neppure essenziale sottolineare quanta parte dell’enorme debito pubblico americano sia in mani cinesi: è un fatto rilevante, ovviamente, ma è anche, in parte, una partita di giro, giacché l’economia industriale del Dragone è volta essenzialmente all’esportazione, ed il mercato americano ne è la destinazione privilegiata. Ben più centrale, in termini geopolitici, è l’irruzione della Cina in Africa e financo nel cortile di casa americano, con il progetto ed il finanziamento di un canale atlantico-pacifico in Nicaragua parallelo ed alternativo a Panama, così come l’avvio in grande stile, spesso in alleanza con la Russia e la partecipazione indiana, di canali bancari e strumenti finanziari in grado di contrastare il monopolio dei giganti mondialisti con sede negli Usa, il cauto, ma sempre più forte ruolo internazionale della valuta cinese, lo yuan o rembimbi, in concorrenza diretta con il dollaro.

Poi c’è il gigantesco, davvero epocale progetto della nuova Via della Seta, già in fase operativa. Sulle piste di una millenaria strada intercontinentale che è stata l’ossatura delle relazioni tra l’Asia e l’Occidente, la Cina intende realizzare una rete di infrastrutture ferroviarie, stradali e marittime lunga diecimila chilometri, allo scopo di avvicinare se stessa – e l’Asia emergente- all’Europa, al Vicino Oriente, alla stessa Africa. Il progetto, chiamato OBOR – one belt one road, una zona una via, è tra i più arditi della storia, cambierà il mondo, la mappa economica e commerciale, la cartografia.

Per dare sostanza alla gigantesca operazione è stata costituita una banca, il cui socio principale è la Cina, con l’apporto di ben 65 paesi tra cui l’Italia, dal capitale iniziale di 100 miliardi di euro. In dieci anni, l’investimento complessivo sarà di circa duemila miliardi. Verranno costruite nuove ferrovie per treni – merci e passeggeri- ad alta velocità, aperte autostrade, sorgeranno nuovi porti, verranno ampliati molti di quelli esistenti, saranno armate navi sempre più gigantesche. L’intento a lungo termine è chiaro, tagliare fuori l’America, o almeno respingerla in un’area di influenza non più planetaria. La via della seta è il simbolo del secolo presente, che diventerà ad egemonia cinese.

Dal punto di vista italiano, la via della seta avrà ricadute notevoli, specie per l’area orientale della nostra penisola e per le città portuali. Potrebbe significare il rilancio in grande stile di Trieste, l’antico emporio dell’Impero austro ungarico in declino da quasi un secolo, specie se nella città giuliana decollerà la strategica zona franca integrale che, dopo un ventennio, è finalmente stata istituita e desta già l’interesse di molti operatori internazionali, tra i quali naturalmente quelli cinesi. Va ricordato che Cosco, controllata da Pechino, è uno dei giganti dell’armamento e del traffico container.

L’Italia, invero, già conosce la penetrazione del Dragone. A parte il controllo della grande area tessile di Prato e dintorni, che ha sconvolto il profilo economico e demografico della zona, e la sempre più capillare presenza commerciale ed artigianale in ogni angolo d’Italia, la Cina possiede già alcuni degli ex gioielli di famiglia dell’industria nazionale. Parliamo di Pirelli (Chem China), dei marchi Ferretti (yacht di lusso), De Tomaso (auto), è al vertice della mitica fabbrica di moto pesarese Benelli, di uno dei giganti del cibo, Fiorucci (salumi e norcineria), ma è anche penetrata nel mondo della moda (Cerruti, Krizia) e, fatto ben più importante, è al 35 per cento in Cassa Depositi e Prestiti Reti, la quale, a sua volta ha in pancia il 30 per cento di Snam e Terna. Nel settore delle nuove tecnologie, Shanghai Electronic Corporation è saldamente presente in Ansaldo Energia. L’elenco potrebbe continuare ed è in costante aggiornamento. E’ notizia recente, inoltre, l’interessamento, accompagnato da deboli smentite, della Great Wall Motors per il settore Jeep della FCA, quella che un tempo era la Fiat. Tutto si tiene, in un poderoso kombinat che mira a rendere planetaria l’influenza e la potenza del Dragone.

Peraltro, la via della seta non è l’unico grande piano che ci riguarda. Una sua variante ha l’epicentro in Grecia, la nazione frustata dalla crisi e dall’ottusa intransigenza finanziaria a guida tedesca. Un vecchio progetto ellenico sembra in via di concretizzazione, per merito della China Gazuba Corporation, il canale lungo 650 chilometri che dal Danubio nel suo tratto serbo, attraverso i fiumi Morava e Vardar, sboccherà in Grecia. Un’operazione della specie cambierebbe radicalmente le prospettive economiche e politiche di almeno tre paesi, la Serbia, la Macedonia e la Grecia, il che significa tra l’altro l’interesse russo, e potrebbe infliggere un fiero colpo ai grandi porti fluviali dell’Europa atlantica, specie Rotterdam, restituendo centralità agli scali italiani. Interessante è anche il fatto che resterebbe tagliata fuori la rotta del Bosforo, dunque la Turchia. Va inoltre rammentato che il porto ateniese del Pireo è già di proprietà cinese, come alcuni scali e centri logistici della Romania (Costanza).

Quanto all’Africa, è lì che si concentrano mire e progetti a lungo termine del colosso orientale. Gli investimenti aumentano di anno in anno, siamo oltre i 50 miliardi di dollari nel 2016, una somma che in Africa è notevolissima. Cinese è la ferrovia che dalla Repubblica Centrafricana e dalla Repubblica Democratica del Congo sboccherà a Dar es Salaam, Tanzania, lo scalo meno lontano dal territorio della Repubblica Popolare. I binari trasportano, e sempre più trasporteranno le materie prime di cui l’Africa è ricchissima e di cui è vorace consumatore il nuovo impero industriale e tecnologico.

Si parla di numeri che sembrano inventati da un Barone di Munchhausen con gli occhi a mandorla e sono invece del tutto corrette e verificabili. In un ventennio, l’uso del petrolio in Cina è aumentato di 35 volte; sono destinati al sistema industriale del nuovo impero l’80 per cento del rame, dell’alluminio e dell’acciaio. La gran parte del legname africano è esportato in Cina, come il cobalto, da cui si estrae il coltan, componente essenziale per l’informatica e la telefonia mobile. Le statistiche qui sono imprecise, approssimate per difetto, ma sembra che nel Congo almeno 100 mila minatori, spesso bambini, pagati due dollari al giorno, un’ottima paga laggiù, lavorino in condizioni terribili per dodici ore al giorno. I nostri apparati cellulari ringraziano.

Il fenomeno più inquietante, tuttavia, è la nascita e la crescita esponenziale delle città fantasma di marca cinese in varie zone dell’Africa. Quella a poca distanza da Luanda, capitale dell’ex colonia portoghese dell’Angola, Africa sud occidentale, potrebbe già adesso ospitare mezzo milione di abitanti. Analoghi insediamenti sono presenti, in costruzione o in progettazione in varie aree dell’Africa occidentale. L’idea è quella di trasferire nel tempo (deportare?) dai 300 ai 500 milioni di cinesi nel continente nero. Il numero impressiona, sembra un’altra boutade, una spacconata o una follia di paranoici complottisti, ma il Dragone ci ha abituati a dare seguito alle iniziative più sconcertanti, ad iniziare per un disprezzo totale per l’ambiente e la salvaguardia della natura.

Forse, anche i movimenti di popolazione dall’Africa sub sahariana che si abbattono sulla polveriera libica e da lì sulle nostre coste non presidiate possono essere seguiti e spiegati anche attraverso il protagonismo del gigante asiatico. La storia, oltretutto, dimostra che in fatto di xenofobia, quando non di aperto razzismo i popoli dell’Asia orientale non sono secondi a nessuno. Non sarebbe quindi strano se l’obiettivo cinese, a lungo termine, fosse quello di svuotare della popolazione autoctona le zone dell’Africa di loro massimo interesse economico o residenziale.

Nel Corno d’Africa, decisivo per il controllo del traffico di carburanti fossili, Pechino è presente in forze. Possiede una base a Gibuti (ex Somalia francese), la più grande all’estero di un esercito che è, per effettivi ed armi convenzionali il più numeroso del mondo. I militari cinesi sono di stanza anche nel gigante Nigeria, decisivo per le risorse energetiche, nel Mali e nel Sudan, il che rende impensabile l’assenza di un ruolo nelle carovane di giovani uomini intenzionati a raggiungere il Mediterraneo e poi l’Europa. Né va dimenticata, in zona, l’influenza del sempre attivo colonialismo francese, che soffre la concorrenza cinese e che, se scacciato dall’Africa Centrale, come sempre più spingono a fare le classi emergenti locali, perderebbe una parte eminente del suo reddito. Non molti sanno che ben quattordici stati africani, tra i quali Camerun Senegal e Costa d’Avorio condividono la stessa moneta, il franco CFA, controllato dal Tesoro francese, su cui Parigi continua a lucrare il reddito di emissione (signoraggio).

Insomma, la storia corre veloce, e non sarà la negazione dei fatti o la politica dello struzzo che nasconde la testa sotto la sabbia a preservare l’Italia dalle conseguenze degli scenari storici che si profilano, i quali, inevitabilmente, cambieranno, con le nostre vite, la visione della realtà e del mondo a cui eravamo abituati. Per questo, occorre riportare la geopolitica la centro della conoscenza, restituirle un ruolo nella formazione delle classi dirigenti, permettere ai settori più consapevoli della pubblica opinione di farsi un’idea meno falsa, abborracciata e costituita in gran parte da pregiudizi, luoghi comuni e fake news su tutto quanto si muove nel mondo a velocità e con accelerazione crescente.

L’alternativa non più l’espulsione dalla storia, evento che l’Italia ha metabolizzato senza problemi da ben più di mezzo secolo, ma la sopravvivenza civile e biologica di un popolo universale, il nostro, che seppe dare molto alla storia, alla cultura, alla conoscenza, al mondo intero.

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