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9 gennaio 2017

 

The Doors 50th tra nostalgia e memorabilia

di Matteo Fais

 

Il primo album omonimo, The Doors, ha compiuto cinquant’anni il 4 gennaio. A Los Angeles, il giorno è stato dichiarato festa cittadina. Tutti i giornali hanno celebrato la ricorrenza. Ma perché i Doors sono ancora così amati, anche dai più giovani? In più una breve recensione dell’ultimo album, London Fog.

 

Strano tempo davvero il nostro! Jim Morrison è vivo. A Venice, in quel di Los Angeles, il 4 gennaio, giorno dell’uscita del loro primo album, si celebra The Day Of The Doors. Puoi ben dirlo quindi che Jim è vivo! Il più vivo di tutti i cantanti! Incredibile il nostro tempo, patetico il tanto che basta da far sorridere: viviamo di morti e di spettri a illustrare le nostre t-shirt. Il Comandante Che Guevara in posa fiera e ieratica … Jim Morrison in quell’immagine in bianco e nero oramai assurta nell’inconscio collettivo a icona sacra, a santino, lì dove tiene le braccia spalancate e fissa la camera con olimpica superiorità. Lo confesso, ogni tanto mi spiace di essere un uomo così novecentesco, eppure giunto sul crinale del secolo appena due decenni prima della sua fine.

 

Mi sono perso tutto: la guerra, il sessantotto, il terrorismo, TUTTO!

 

Mi restano solo i maledetti anni ottanta, che nel mio ricordo sono i cartoni animati su Italia 1. Eppure, io sono ancora in quel tempo, ma è come aver vissuto il proprio secolo solo a bocce ferme, a passioni sopite. Perdonate l’amarezza. Il primo album dei The Doors ha appena compiuto cinquant’anni. Lo so che ne parlo come di un padre, o di una madre. Il fatto è che così mi piace immaginarlo. Proprio come nel visionario incipit di Luminal di Isabella Santacroce, dove sta scritto: «a volte penso che sia stata la luna a partorirmi tra spasmi di cosce pallide sapientemente allargate tra le stelle proprio in alto. Così appesa sopra un concerto di David Bowie lei si apriva lasciandomi cadere». Nella mia mente, mi figuro la luna con le sue pallide cosce aperte, ma sopra un concerto dei The Doors.

Ma come può un album cinquantenne avere ancora una forma tanto smagliante? Perché resta ineguagliato? Molto semplicemente perché non è, come invece cantavano gli Stones, solo rock n’ roll. È qualcosa di più. È una vera e propria opera lirica suonata in chiave rock. È quanto ci sia di più vicino nella musica popolare all’opera d’arte totale wagneriana. È la trasposizione americana dello spirito della tragedia greca. È la poesia com’era concepita alle sue origini, musicata e cantata allo stesso tempo. In effetti, i Doors avevano dalla loro una peculiarità irripetuta nella storia della musica: un poeta che scriveva le loro liriche.

 

Altro che Nobel per la letteratura a Bob Dylan!

 

Se quest’ultimo è un folk singer che si è, in alcuni episodi della sua produzione, avvicinato alla poesia, Morrison era un poeta che ha prestato le sua doti di versificatore al rock. Per buttarla sul ridere, direi che si tratta di tutta un’altra musica. Quando chiesero a Michel Houellebecq cosa pensasse in merito alla possibilità che la canzone potesse costituire un modo per continuare a dare un seguito alla poesia, in questi tempi così antipoetici, lui rispose: «Sì, anche se il testo poetico non è necessario, è una cosa in più. Ci sono delle ottime canzoni nelle quali il testo non ha una forma poetica particolare, ma quando ce l’ha si aggiunge qualcosa». Messo di fronte alla richiesta di fornire un esempio in tal senso, senza esitazioni – cosa rara nello scrittore francese –, soggiunse immediatamente «Jim Morrison sta al limite tra canzone e poesia […] Quanto a Bob Dylan, non sono i testi quello che preferisco in lui, quanto il modo incredibile di cantare». Ipse dixit e non mi sento di contraddirlo. Si potrebbe aggiungere unicamente che non si ravvisa minore poeticità nei testi di Morrison, rispetto alle liriche di alcuni immensi verseggiatori americani quali Sylvia Plath, o il sempre caro Walt Whitman.

La cosa sconvolgente, al di là di questi tappeti sonori dagli arabeschi psichedelico blues, è stata la capacità di Morrison di rilanciare coi suoi testi, nel nuovo mondo e in lingua inglese, il meglio della tradizione poetica e letteraria europea. Baudelaire, Rimbaud, Sofocle, Nietzsche, Brecht. Potete immaginare, anzi sapete, cosa abbia prodotto una tale mescolanza fatta ribollire con abbondanti dosi di radice di peyote. Sono state visioni di serpenti e deserti uniti al mito di Edipo sapientemente riadattato al suolo statunitense. Dioniso sbarcato in America. Concerti come orge bacchiche in stadi pieni, invece che sulle colline dell’antica Grecia.

 

Morrison è stato scrittore teatrale e attore del suo stesso spettacolo

 

Quale arcana e insondabile congiunzione astrale può aver prodotto questa irripetibile aggregazione? Resta il mistero e il nostro rapimento nel mettere sul piatto – pardon, accendere l’iPod – e sentire l’intro di batteria, a cui seguono le tastiere di Manzarek, in Break on Through (To The Other Side). Aprimi un varco sull’altro lato. Uno squarcio nel Velo di Maya forse? E cosa succederà dopo? Tutto ci apparirà come realmente è, infinito… Quando? Quando le porte della percezione saranno aperte. È una sensazione primordiale, animalesca, dionisiaca, fa quasi paura, anzi terrore. Vi siete arresi, vero? Non vi resta che lasciarvi andare, ballare in trance. Questo disco resta, come le Illuminazioni di Rimbaud per la letteratura, pregno di sprazzi di genialità e passaggi sfolgoranti, ma con un residuo di impenetrabilità, una variabile di comprensione eternamente aperta all’ascoltatore e all’esegeta. Quando si arriva a The End, il delirio ha il sopravvento. Si è come presi da quella improvvisa placidità d’animo che deve provare il soldato, quando si arrende al nemico. Pare che addirittura l’ingegnere del suono presente in studio durante la registrazione, da un certo momento in poi, smise di curarsi dei ferri del mestiere, in preda all’estasi. Un’esperienza totalizzante.

Da non trascurare anche tutto ciò che sta nel mezzo. La delicatissima e toccante The Crystal Ship, il cui pathos resta sempre, tra le impennate e i sussurri del cantato, lieve come un volo di piuma trascinata dal vento. Soul Kitchen, Twentieth Century Fox,  e perfino l’essenziale I Looked at You sono piene di un’energia che risveglia i sensi e li sconvolge di un’eccitazione erotica. Alabama Song (Whisky Bar) è una ballata acida, su testo brechtiano, dove la disperazione incontra un ritmo ballerino e finanche divertente. Light My Fire è il picco centrale dell’album, frutto di quel genietto un poco defilato di Robby Krieger, il cui contributo alla produzione doorsiana non verrà mai abbastanza lodato. Questo pezzo è un po’ anche la rivincita dei tre veri musicisti della band – Jim non sapeva suonare – che vanno a dimostrare di avere una loro ratio anche autonomamente, indipendentemente dal fascino del frontman. Back Door Man è la cover dell’album. La versione originale è di Howlin’ Wolf. Per molti versi si tratta dell’anello di congiunzione tra le loro radici blues degli esordi e quello più evoluto che tornerà a impregnare il loro ultimo lavoro, L.A.Woman. End of the Night è lenta e a momenti mormorata, ma piena di suoni che ricordano il tintinnio di un cristallo, scuro e fragile come la notte. Take it as it Comes rilancia il ritmo incalzante, quasi bossa nova di Break on Through. Chiaramente piena di doppi sensi, elettrizza, e invita a una sensualità naturale, libera da qualunque costrizione. The End ci attende subito dopo con la sua struttura barocca e quel favoloso andamento epico.

La sentite anche voi questa gioia, che sgorga da un sentimento tragico abissale, dietro la musica dei Doors e la voce di Jim? È Nietzsche, Nietzsche e lo spirito greco – Morrison è stato infatti il più greco degli americani! Si chiama amor fati, locuzione latina con cui si indica l’accettazione entusiastica del proprio destino, malgrado la dolorosa consapevolezza della propria mortalità e dell’irrazionalità dell’esistenza. Dunque, un sì alla vita. Decisamente d’antan come prospettiva in questi tempi di depressione e nichilismo, appena attenuati da una barretta di Tavor da sgranocchiare come cioccolato a merenda e trenta gocce di Xanax per mandarlo giù meglio. Ma, del resto, noi abbiamo la scusante di non vivere in una situazione che permette e incoraggia rituali di purificazione dalla negatività e dalle costrizioni. Ci resta solo il consumo e questa ansia da esauriti, assiepati fuori dai grandi magazzini durante i saldi di fine stagione. Mica possiamo andare a un concerto di Morrison, sentirci parte di uno spirito che ci travalica e ci unisce al contempo. Anche perché la maggior parte di noi passerebbe il suo tempo a scattare foto con l’iPhone. Se poi Jim si azzardasse a dirne qualche d’una delle sue, tipo «Siete solo degli schiavi, con uno strumento del capitalismo in mano», già lo vedo che verrebbe subito inserito tra le citazioni più rilanciate su Facebook, per poi essere twittato e Dio solo sa cos’altro… dimenticavo #JimSeiIlMigliore.

Siccome questi sono tempi di miseria, oltre che economica, artistica, i vecchi Doors, almeno quei due rimasti vivi e che ben si sono guardati dal morire a ventisette anni, hanno astutamente pensato di trarne profitto. Noi siamo in fondo come vecchi nostalgici e, alla stregua di tutti gli anziani, guardiamo al passato remoto come a un Eldorado di felicità, non vedendo niente di buono a cui fare riferimento nel presente. Su questa nostalgia, che ci rende tutti simili al protagonista di Midnight in Paris di Woody Allen, disinteressati al nostro tempo ma sempre alla ricerca smaniosa di memorabilia di una sconosciuta età dell’oro, loro ci hanno campato e ci campano tuttora alla grande. In quest’ottica vanno viste tutte le operazioni che negli anni si sono succedute, come i vari dischi live e le più o meno interessanti edizioni per il quarantennale di ogni album, con le versioni non finite su disco delle più note canzoni (outtakes, in inglese). Tra queste spicca sicuramente su tutte quella in due dischi di L.A.Woman, dove a quasi ogni pezzo è stata affiancata la meglio riuscita delle registrazioni prima di quella definitiva. È stata data così anche a noi l’emozione di sentire Morrison che scambia due parole coi musicisti, prima che inizi la seduta di registrazione e via dicendo.

 

Nell’epoca dell’infinita riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, anche ciò è possibile: partecipare a un evento privato avvenuto prima della propria nascita

 

Per chi ha qualche problema a fare i conti col fatto che i Doors siano finiti decadi e decadi orsono e a noi non sarà mai dato di aspettare con ansia il loro nuovo album, come – Dio li perdoni! – gli odierni adolescenti aspettano quello di Fedez, si segnala l’emissione sul mercato dell’ultimo ripescaggio dei nostri beniamini. Si intitola London Fog. Per chi non lo sapesse il London Fog era un locale situato in Sunset Strip, in prossimità del più noto Whisky a Go Go, dove Jim e company erano di casa, nel senso che vi suonavano quasi ogni sera. Le registrazioni sono quel che sono, meglio non farsi illusioni. Non c’erano computer e ci si divertiva con poco. Oggi come oggi, con un registratore mp3 da cinquanta euro si sarebbe potuto fare di meglio. A ogni modo, la band c’è e si sente, gracchiante e ovattata sotto la pochezza della registrazione. Una vera chicca per gli amanti del gruppo. In quel periodo i Doors facevano quasi esclusivamente cover dei classici blues, ma si possono ascoltare anche le versioni prime di due pezzi poi finiti su vinile, la straniante Strange Days e la blueseggiante You Make Me Real. Insomma c’è da emozionarsi, qualunque età voi abbiate, se siete degli appassionati. Per marzo poi, è prevista un’ulteriore edizione dell’omonimo primo album. Dopo quella per il quarantennale, ecco adesso quella per il cinquantennale. Disco rimasterizzato nella versione stereo e poi in quella mono. C’è pure il vinile.

 

Non oso immaginare quale arrampicata commerciale sugli specchi si stia preparando per i sessanta. Ma meglio non pensare da qui a dieci anni… Tanto il futuro non ci interessa, vero?

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