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15 novembre 2017

 

Leo De Berardinis, lirica e politica di un teatrante in esilio

di Vincenzo Morvillo

 

«Non vogliamo i Teatri. Dateci i palazzi». Lo ricordo ancora, caro Leo. Con quella tua voce profonda, proveniente da spazi remoti ed insondabili galassie, dall’orfico Ade dei nostri abissi e dalle ancestrali porte del Tempo; con quella tua voce che evocava orrori e suscitava spasmi – il tuo Scaramouche faceva zumpa’ ‘a ggente ‘a coppa ‘e segge – che lasciava prorompere una risata acre e sorridere con dolcezza riflessiva; con quella tua voce educatissima e cinicamente ironica, raffinata e scura, ebbra di vita e di oracolare pessimismo, come solo quelle dei rapsodi e dei poeti dionisiaci che intonano i τρ?γος ?δω (canti del capro) sapevano essere; con quella tua voce sempre al limite tra  provocazione e serietà, ri/velazione teatrale e spettacolarità del reale, esplodesti, durante una conferenza stampa al Mercadante – non ancora Teatro Stabile Nazionale di Napoli, insozzato dalle stimmate purulenti della vergogna defuschiana – in quel tuo grido. 

Un grido che era di disperazione, per un’arte che cominciava a segnare il passo di fronte all’invasione, ormai barbarica, del mercato e della televisione, ma anche di duro incitamento, una sferzata sul viso di politicanti ed attori, registi, autori, critici e teatranti vari che, a quella barbarie, sempre più cominciavano a inchinarsi. 

Parlammo, poi, e fu un riconoscermi e un comprendere, raramente provato in seguito. Un veder sgorgare acqua limpida di poesia e crepitare frammenti incendiati di pensiero. Dicevi, come il tuo amico Carmelo (Bene, ndr), che «il critico dev’essere un poeta». Ci ho provato e ci provo, a restituire e creare emozione. A volte, smarrendomi nell’arzigogolo di un ragionare “a freddo”, che impantana la parola semplice e lascia prevalere l’ acculturazione, come chiamava Pasolini l’avvento della cultura piccolo-borghese di massa; altre – anche ricordandomi delle tue parole, certo – tenendo il cuore a briglia sciolta e lasciando fluire il calore del sangue, dimodoché l’intelligenza “bassa” del sentire possa fondersi con la cultura “alta” del sapere. 

Così, sulle tracce lasciate come le briciole di Pollicino nell’irta foresta della filosofia teatrante, vedo la sintassi cedere felicemente la mano alla sinestesi, l’ermeneutica all’esplorazione ermetica, la semiotica dei linguaggi alla semantica dei sensi, l’epistemologia alla mantica, la lingua alla dislessia, la logica alle baudelairiane correspondence, su catene di s/montaggio significanti; vedo la forma del contenuto soccombere al contenuto della forma, l’artificio all’essenziale. La retorica dei tempi inutili venir sconfitta dalla poetica degli attimi irripetibili. 

Parole magiche, le tue, mi sembravano e ancora mi sembrano, che fondevano lirismo e politica. D’altronde, il tuo Teatro, caro Leo, era null’altro che questo. Lirica e Politica. Un teatro in esilio, auto sfrattatosi dagli edifici architettonici in bello stile, disabitato dalle comode poltroncine in velluto rosso. Un teatro senza suolo in epoche di ius soli e ius sanguinis: quasi uno sfregio liberatorio alla legalità imperante dei codici e degli algoritmi legislativi. 

Un Teatro territoriale, s/confinante, impastato di sabbia e sudore, occupato dall’immacolato incanto di un’umanità innocente ed infima, sulla scala sociale delle classi. Umanità aristocratica e stracciona. Umanità composta di donne e uomini che, come schegge rotte di bottiglia, si ammassano, ubriachi, ai bordi dei marciapiedi dopo una notte di bagordi. Umanità composta da clochard, vagabondi, personaggi zingareschi, operai e sottoproletari. Umanità lirica e politica, che portava la crudeltà della vita nei tuoi spettacoli sconcertati. Jam session jazz, dove dio ed il suo Verbo stantio vengono espulsi dall’o/scenità ontologica del bebop, musica improvvisata e tragica, satiresca e orfica, sul cui pentagramma risuonano partiture per gesti, voci, corpi, che si fanno scrittura, sinfonia, ritmo scandito da un attore/demiurgo, metà sciamano e metà Amleto cyber punk, polistrumentista e polifonico. 

Lirica e Politica. La potenza di una lirica fatta di voce e corpo, nutrita nel silenzio della solitudine di una cella, di un carcere duro al 41 bis, imposto dalle guardie democratiche della reazione e della Tradizione più bieca: quella che non tradisce. 

Voce/Corpo Corpo/Voce lirici, alimentati nella disperazione bipolare di una caverna arcaica, abitata da fantasmi e guitti kafkiani, da maschere e occhi eduardiani, che si agitavano nel tuo lucido inconscio e prendevano forma, poi, nelle tue mani artigiane, d’argilla e di fuoco. Politica prepotente e irriducibile, di quella che non fa sconti, perché vissuta e sofferta sulla pelle e sulle assi di un palco che tu, lucifero solitario e anarchico tra i cunicoli e le saittelle della Storia, Angelus Novus in guerra con le divinità olimpiche di un teatro e di un esistere in cartapesta, messi in vendita a buon prezzo sui banchi dei mercatini rionali, trasformavi, con un battito d’ali, nel terreno di uno scontro sociale, di una lotta di classe che approda alla rivoluzione agognata attraverso Joyce e Rimbaud, Dante e Omero, Piero della Francesca, Caravaggio e Totò, Leopardi e Villon, la sceneggiata e la tragedia greca, il jazz e la musica classica, Mozart e Coltrane. 

A Marigliano, i tuoi luoghi, le tue dramatis personae, i tuoi emarginati, i tuoi emigranti, il tuo Teatro fatto di strada e dolore, di geometrica follia e algebrica irrazionalità, risuonano ancora della tua, della vostra – Perla, indimenticabile fremito di angoscia e di rabbia sulla scena, fu il tuo doppio, ancora più autentico – rivoluzione contro l’estetica borghese e contro il primo vagito idiota di una post avanguardia che si avviava ad essere la nuova cifra del pensiero dominante. Post tutto. 

Dicevi che «L’avanguardia esiste nei periodi rivoluzionari: in Italia non c’è mai stata. È un termine di comodo che si è dato da noi ad un teatro diverso da quello di potere. Alcuni di noi hanno combattuto davvero il potere, per altri è stato solo un periodo di anticamera prima del teatro ufficiale». 

Mai profezia fu più azzeccata. Oggi, gli avanguardisti, i ribelli, i dissacratori, i compagni di ieri sono, per la gran parte, gli intellettuali fasulli alle dipendenze del Potere e del Capitale, da cui si sono lasciati comprare di buon grado e per pochi spiccioli. Voi però, all’epoca dei ripetuti assalti al cielo, la vinceste, quella Rivoluzione. E la vinceste per me, per noi, per i clochard e i proletari affamati di amara Bellezza da insultare, perché la contemporaneità rivoluzionaria vince sempre sull’interpretazione postuma dei fatti. Sull’esegesi critica, che tende a ricomporre ortopedicamente l’esperienza della frattura insurrezionale ed iconoclastica, riassorbendola nei recinti angusti del conformismo statolatra e liberale, respingendola fuori, come epifenomeno contestuale e, tutto sommato, di poco conto. 

La roulette del Mercato globale ricomincia a girare e la Storia finisce. Ma la Storia ed i suoi mali trovarono la loro deflagrazione tragica in quegli anni ’70, durante i quali un intero sistema, un intero mondo, con la sua annessa morale asfissiante e pretesca, furono messi a ferro e a fuoco nel nome non di un delirante fanatismo giovanile, ma nel segno della Libertà e dell’Uguaglianza tra le donne e gli uomini, che con quella morale, con i suoi codici linguistici e giuridici, volevano fare i conti una volta per tutte, spezzandone le catene e sovvertendone l’ordine. 

Ordine borghese, morale borghese, estetica borghese, che dettava le sue regole anche in teatro. E tu e Perla, brigatisti e nappisti senza mitra, dissidenti armati di parole, di gesti, di immagini, di poesia, minaste alla base le fondamenta di quel Teatro vecchio e opprimente come la borghesia dell’ancien regime che lo governava. 

La vittoria durò poco, come l’illusione del sogno, che si scolora nell’alba plumbea di un giorno di Novembre. La reazione ricominciò a tessere le sue trame. Col tempo rimasticò i nuovi linguaggi, le nuove idee, le grandi aspirazioni di libertà?, comprò buona parte dei rivoltosi asciugatisi al vento delle mode, e sputò il tutto nel grande calderone della post modernità. Il denaro e la merce divennero ancor più misura di tutte le cose. L’uomo fu annientato e ridotto all’immagine del suo Avatar. 

Tu te ne sei andato prima, dopo una lunga malattia. Forse per non assistere allo spettacolo più degradante. Il Teatro ridotto a megastore. La tua stessa Opera dimenticata, per lo più, o museificata tra gli scaffali della cultura dei professori e degli addetti ai lavori. Celebrata e non più vissuta. La sceneggiata, che con te era diventata, mescolata a Shakespeare, codice simbolico del riscatto sottoproletario, in un sud senza lavoro e vittima di arcaiche posture culturali, oggi è ridotta al più insignificante citazionismo radical-chic, scaduta all’oleografia camorristica della fiction televisiva. 

«Non si può bluffare se c’è una civiltà teatrale, ed il teatro è una grande forza civile. Il teatro toglie la vigliaccheria del vivere, toglie la paura del diverso, dell’altro, dell’ignoto, della vita, della morte», dicevi ancora. Ma stavolta il tempo, quello che inganna, gestito da comparse di quart’ordine come gli assassini di K ne “Il Processo”, ti ha dato torto.  I mercanti smaniosi di ricchezze e popolarità, stanno devastando qualunque civiltà, non soltanto quella teatrale. 

«Lo spettacolo è l’episteme del nostro tempo», per citare Debord. Ma quello a cui stiamo assistendo va oltre. È uno spettacolo pornografico e orrendo. Lo snuff movie della nostra disumanizzazione. Il Teatro, tranne rarissime eccezioni, è abitato da microbi e lacchè, pronti a baciare le suole dei Principi di turno. La  vigliaccheria del vivere, la paura del diverso, dell’altro, dell’ignoto, della vita, della morte non solo sussistono ma sembrano diventate il comun denominatore delle nostre squallide esistenze. 

Non è tempo di Titani, ma di nani e ballerine in un circo di periferia. E allora mi ricordo di te. Mi ricordo dei pochissimi spettacoli tuoi, visti e recensiti. Mi ricordo e mi rifugio nella potenza del tuo stare in scena senza esserci. Del tuo essere fuori di te. E ti guardo, scultura filiforme di Giacometti, bruciare sulla ribalta di un teatro vuoto. Figura che si consuma lenta, bestemmiando, nel suo ultimo rito profanatorio, mentre attorno il Tempio crolla. Mi manchi, meraviglioso pazzo!

 

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