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lunedì 20 novembre 2017

 

Da Heidegger a Dugin: dal nazismo al neonazismo

di Fabio Della Pergola 

 

Un articolo del Corriere di questi giorni ci informa che il filosofo tedesco Martin Heidegger non fu affatto vicino al regime nazista solo per il breve periodo della sua carica di rettore dell'Università di Friburgo, tra il 1933 e il 1934, ma che “per almeno otto anni, fino al luglio 1942” partecipò “ad una commissione per la filosofia del diritto che ebbe un ruolo di rilievo nella nazificazione del sistema giuridico”. Un ruolo molto significativo quindi, per molto tempo e ai livelli più alti del sistema di potere, nell’organismo presieduto da Hans Frank, governatore della Polonia occupata e uno dei pochi esponenti nazisti condannati a Norimberga per i crimini del regime e infine giustiziati. Heidegger fu perciò un intellettuale organico - non si dice così? - al processo reazionario e sterminatorio del regime che lui tentò addirittura di dirigere, proponendosi come “guida spirituale” del nazismo e fonte prioritaria del pensiero antimodernista.

 

È nota la continuità con il pensiero heideggeriano di tanta parte della cultura europea postbellica, in particolare di sinistra, da Sartre a Foucault, da Lacan a Binswanger e, in Italia, a Basaglia. Meno noto, fino a qualche tempo fa, l’uso della sua elaborazione filosofica da parte di quello che appare oggi come il più abile e politicamente attivo (anzi, decisamente superattivo) dei pensatori contemporanei di area reazionario-tradizionalista: Alexandr Dugin.

 

Ne ho parlato più volte qui dove ho cercato di capirne il progetto, interpretandolo; e poi qui e, prima ancora, qui

 

Progressivamente ne abbiamo visto crescere l’importanza fino ai massimi gradini del potere russo ed essere salutato come “il Rasputin di Putin” dal sito Breitbart News dell’ex chief strategist di Trump, Steve Bannon. La sua teorizzazione è stata esaltata dal leader della Alt-Right americana, il neonazista Richard Spencer così come dai più bellicosi siti trumpisti d'oltreoceano (spesso vere e proprie centrali di produzionie in serie di fake news) come il Veterans Today o Infowars di Alex Jones.

Dugin era in Turchia la notte del fallito (e quanto mai sospetto) putsch attribuito ai gulenisti e si è incontrato in quell’occasione con il sindaco di Ankara, Melih Gokcek, molto vicino a Erdogan. In “successive interviste” ha affermato di essere stato a conoscenza che il golpe “stava arrivando”. Alcuni dicono che sia stato lui a mediare, attraverso Gokcek, la riconciliazione tra Putin e Erdogan dopo l’abbattimento del jet russo ai confini della Siria. Nel frattempo è volato a Erbil a parlare con gli indipendentisti curdi ricorrendo anche a qualche velata pressione: «è più o meno facile dichiarare l'indipendenza, ma è molto più difficile da conservare o difendere». Secondo l’opposizione iraniana il giornale pro-Ahmadinejad Resalat «ha definito Dugin un frutto dei "semi puri" che l'ayatollah Ruhollah Khomeini ha piantato in Russia quando ha scritto al leader sovietico Mikhail Gorbachev nel 1989». Nientemeno.

 

Se si passa dal Medio Oriente all'Europa è palese la sua influenza sui movimenti antieuropeisti dell’estrema destra del Vecchio Continente: oltre ad austriaci e francesi secondo il sito Hungarian Spectrum fiancheggia anche il partito xenofobo ungherese Jobbik, e le formazioni nazionaliste polacche, come dimostra il portale conservatore 

Konserwatyzm che svolge un’accurata sintesi del pensiero eurasiatico di Dugin, chiedendosi poi: «davvero non si vede che l'Occidente è una chiara civiltà dell'anticristo?»

 

L’Anticristo (sic), cioè «un ordine globale, multirazziale e multietnico, basato sui diritti umani, sul pluralismo e l’uguaglianza: è il grande nemico a cui contrapporre i valori tradizionali difesi nella Russia di Putin. Dugin la vede come avanguardia di un conservatorismo nazionalista in cui la religione ortodossa “è la cerniera del mondo che vogliamo costruire”». 

 

Queste sono le basi reazionarie dell'ideologia duginiana, nazionaliste, tradizionaliste e religiose, ma nel rispetto della religione di ogni popolo, luteranesimo, cattolicesimo, cristianesimo ortodosso, islàm.

 

Ma non l'ebraismo a cui si riservano i più sconcertanti distinguo d'altri tempi: «gli ebrei sono portatori di una cultura religiosa che è profondamente distinta da tutte le manifestazioni storiche della spiritualità indoeuropea». E questa peculiarità ebraica costituirebbe l'essenza di «coloro che non sono solo culturalmente, nazionalmente e politicamente, ma anche metafisicamente diversi». Palesemente riprende Heidegger che nei Quaderni neri sosteneva: «La questione riguardante il ruolo dell’ebraismo mondiale non è una questione razziale, bensì la questione metafisica su quella specie di umanità che, essendo per eccellenza svincolata, potrà fare dello sradicamento di ogni ente dall’essere il proprio “compito” nella storia del mondo» (QN, Riflessioni XIV). Dugin a modo suo ripete la stessa argomentazione: «L’ebraismo vede il mondo come una creatura alienata da Dio, come un esilio, come un labirinto meccanico, in cui vaga il popolo eletto».

 

Lo sradicamento, l'alienazione, la diversità sono caratteristiche proprie di questo mondo, «il mondo del “Giudaismo”» che Dugin definisce «un mondo ostile a noi», perché «i nostri universi appartengono ai poli opposti della realtà». E se, bontà sua, ricorda che i campi di sterminio tedeschi hanno dimostrato di poter «distruggere gli ebrei, ma di non essere in grado di estirpare l'Ebraismo», il suo obiettivo è quello di "capire" questi diversi, dove, sia chiaro, «“capire” significa non "perdonare", ma "sconfiggere"». Non è chiaro che cosa l'ebraismo dovrebbe farsi perdonare, ma l'importante è che sia sconfitto e che questo accada, si badi bene, «con la Luce della Verità».

 

Niente di nuovo sul fronte orientale, quindi. Anzi, aria fritta. Ma se ai tempi di Heidegger l'antisemitismo era parte integrante della weltanschauung mitteleuropea (e non sarebbe comunque corretto ridurre il suo pensiero al solo antisemitismo), ripetere oggi, dopo Auschwitz, gli stessi deliri è a dir poco sconcertante.

 

Eppure è con queste basi ideologico-filosofiche che il pensatore russo ha intessuto rapporti globali di cui si era occupata, già tre anni fa, la rivista Internazionale, cercando una interpretazione politica a certe peculiarità paradossali delle destre europee: «È certamente normale che le forze della destra radicale di paesi diversi si alleino. Ma la particolarità è che in Russia le forze reazionarie e parafasciste hanno anche un forte legame con il passato sovietico, che in teoria dovrebbe essere il nemico giurato della destra europea di derivazione fascista. Anche, qui, però tutto passa in secondo piano nel nome della lotta comune all’americanismo e alla globalizzazione. E, soprattutto, nel nome di un progetto ideologico e geopolitico che da qualche anno fa proseliti negli ambienti dell’estrema destra in tutto il pianeta: l’eurasismo di Aleksandr Dugin».

In Italia sono stretti i legami del filosofo russo con la Lega “sovranista” di Matteo Salvini che lo ospitò a Milano in un incontro organizzato dall’Associazione Lombardia-Russia (Presidente Onorario Alexey Komov, rappresentante del Congresso Mondiale delle Famiglie in Russia e manager della chiaccheratissima Fondazione Carità di San Basilio il Grande di Konstantin Malofeev). Ospitalità che fu poi ricambiata da una cordiale intervista di Dugin a Salvini in visita a Mosca. Ancora più esplicita l’associazione leghista Piemonte-Russia che ha nominato Alexandr Dugin addirittura suo presidente onorario.

Altri movimenti di estrema destra seguono la stessa strada "eurasiatista". Lo vedremo in seguito.

 

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