Fonte: Ereticamente

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21/11/2017

 

L’utopia transumanista: una critica ragionata

di Flavia Corso

 

“Chi cerca di realizzare il paradiso in terra, sta in effetti preparando per gli altri un molto rispettabile inferno” Paul Claudel

 

La recente uscita nelle sale cinematografiche di Blade Runner 2049, sequel del famosissimo e profetico capolavoro di Ridley Scott, ha riportato alla luce una delle questioni filosofiche più salienti del ‘900: il concetto di “transumanesimo”. Secondo Julian Huxley, lo scienziato che nel 1957 coniò per primo il termine, “transumano” è “l’uomo che rimane umano, ma che trascende se stesso, realizzando le nuove potenzialità della sua natura umana, per la sua natura umana.” Il transumanesimo è, pertanto, un movimento culturale e filosofico che si pone l’obiettivo di mettere l’umanità nella condizione di poter superare se stessa, andare oltre i naturali limiti psico-fisici dell’essere umano, come l’invecchiamento e le malattie. I transumanisti ritengono che ciò sia possibile attraverso l’utilizzo della tecnologia, che assurge al ruolo di vera e propria redentrice degli esseri umani, altrimenti schiavi della loro stessa condizione. E’ il trionfo dell’hybris, della volontà di varcare i confini prestabiliti, di cogliere il frutto proibito fino a mettere in dubbio il concetto stesso di “essenza umana”, privo, secondo tale corrente filosofica, di fondamento teorico vero e proprio.

 

Nell’ambito di questo paradigma, si prospettano scenari in cui uomo e macchina non sono più entità separate, ma si amalgamano in un unico soggetto, il cyborg, l’esemplare della nuova razza umana creata in laboratorio. Erede della tradizione illuminista, il transumanesimo porta alle estreme conseguenze il primato della ragione, riducendo la res extensa cartesiana a mero strumento operativo della res cogitans. Il corpo umano, proprio a causa dei suoi “difetti di fabbrica”, viene quindi percepito come un limite, un intralcio, un ostacolo da superare, il bastone tra le ruote della futura emancipazione umana. Si tratta, insomma, di una forma di perfettismo utopico: la perfezione diventa una categoria oggettiva al quale l’uomo deve tendere costantemente, la stella polare dell’azione morale, in quanto l’essere umano – ed è questa una delle fondamentali premesse della filosofia transumanista – non è ancora ciò che dovrebbe essere. L’uomo autentico deve ancora fare la sua comparsa nella storia, deve ancora liberarsi dalle catene che lo tengono prigioniero, e l’unico mezzo necessario al raggiungimento di questo fine è proprio la tecnologia. Ernst Bloch, nel suo Il principio speranza, esprime con la formula della “tendenza-latenza” la tensione teleologica intrinseca all’utopismo: S non è ancora P (il soggetto non è ancora il suo predicato), in cui essere P è ciò che S non solo può ma “deve” diventare per essere veramente S. Finché non è P, non è ancora se stesso.

 

Secondo il pensiero utopico, vero motore dell’ottica transumanista, l’uomo autentico non è quello attuale, non ha ancora fatto la sua reale apparizione perché nel corso della storia è sempre stato imprigionato dalla necessità non solo biologica, ma anche sociale. La tecnologia, infatti, viene considerata fonte di salvezza dell’uomo non solo in quanto individuo, ma anche in quanto essere sociale; obiettivo del transumanesimo sarà infatti anche quello di liberare l’uomo dal lavoro e dalla fatica, poiché solamente attraverso l’otium, nella libertà di non fare, nella non necessità, potrà attuarsi la vera e autentica potenzialità umana. Dal mito prometeico alla brama di immortalità il passo è breve, e sembra proprio che i transumanisti considerino la morte un problema da risolvere, una questione a cui la scienza e la tecnologia tenteranno di porre rimedio. Ciò che per Tommaso Moro era l’isola di Utopia, per i transumanisti è la “singolarità”. Sul sito dell’AIT (Associazione Italiana Transumanisti), possiamo leggere quanto segue:

“L’avvento dei transumanisti ha un nome, “singolarità”, introdotto dallo scrittore Vernor Vinge all’inizio degli anni ’90 per definire un vero e proprio salto quantico del progresso tecnologico. Il “singolarianesimo”, l’attesa profetica della singolarità che inaugurerà l’era postumana, è pertanto il credo laico professato dai transumanisti. Badate bene: non siamo qui di fronte alle fantasticherie di una bizzarra setta New Age. Tutte le più grandi aziende della Silicon Valley hanno mostrato l’intenzione di sfidare l’irreversibilità della morte, prime fra tutte Google, con a capo l’ingegnere Ray Kurzweil, uno dei padri del transumanesimo e dell’intelligenza artificiale, il quale è persino cofondatore della Singularity University, centro di formazione che propone percorsi di studio, conferenze e seminari inerenti all’innovazione tecnologica, e si prefigge lo scopo di formare la future classi dirigenti nel mondo. Per questi colossi dell’hi-tech, la mortalità umana è l’ultimo ostacolo da superare per potersi finalmente dimenticare dell’aldilà e garantirsi il paradiso nell’“aldiqua”.

 

Considerazioni critiche

In ogni forma di pensiero utopico, è ammessa una sorta di arbitrarietà nello stabilire ciò che è bene e male per l’umanità. La presunzione di conoscere quale possa essere la società ideale in cui vivere si basa, di fatto, su un’assenza totale di criteri razionali. La corrente transumanista, come si è già detto, nega l’oggettività del concetto di natura umana ma, al contempo, pretende di fornire una definizione di “uomo perfetto”, cadendo paradossalmente in un circolo vizioso contraddittorio. Nel tentativo di allontanarsi da una visione antropocentrica, il transumanesimo non fa che riproporla nuovamente, portandola alle estreme conseguenze. In altre parole, si potrebbe affermare che il tentativo sia, per assurdo, quello di rendere soggettivo il concetto di natura umana, ma oggettivo quello di “miglioramento” della specie. Ma la prospettiva post-umana mette in discussione anche l’idea di identità personale. L’approccio dualistico che riduce la mente ad una sorta di centralina dell’intero organismo (si pensi al cosiddetto “mind uploading, il trasferimento della mente umana in un computer) vanifica totalmente la concezione della persona come unità psicofisica, e il fatto che ogni singola cellula dell’organismo sembra possedere una sorta di memoria interna dovrebbe indurci a riflettere in maniera più approfondita sulla questione dell’identità personale. Un ultimo punto su cui vorrei soffermarmi è l’illusione di libertà a cui i transumanisti sembrano aspirare. Un’illusione, appunto, perché nel mondo ipertecnologico a cui si approderà in futuro, non sembra esserci alcuno spazio per la vera e autentica libertà. L’essere umano, o ciò che ne rimarrà, sarà al contrario schiavo della tecnologia, perché dal momento che le grandi aziende dell’hi-tech si conteranno sulle dita di una mano, non è difficile ipotizzare che ciò che oggi viene considerato un’innocente alternativa, un domani diventerà subdolamente necessità.

 

La necessità è strettamente connessa alla libertà, ed è proprio questa connessione che permette la loro reciproca esistenza. L’uomo non può sentirsi veramente libero se il suo agire non è in qualche modo correlato ad una dimensione di necessità, ma la libertà post-umana è una libertà vuota, che sopprime se stessa, perché non più vincolata ad una necessità naturale, ma artefatta e priva di significato. Così, in un futuro forse nemmeno troppo lontano, quando dovremo lottare persino per la nostra umana e sacrosanta mortalità, ci renderemo conto di quanto fossero colme di tensione spirituale le parole del celebre replicante di Blade Runner, Roy Batty: “E’ tempo di morire.”

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