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19 ottobre 2015

 

Boris Vian

di Martina Turano

 

In nemmeno quarant’anni di vita, Boris Vian si è inserito nel panorama culturale parigino del primo Novecento nelle vesti più disparate: ingegnere, musicista, scrittore impegnato ed ironico. Un malato di cuore che per questo non è mai sazio di una vita di cui già presagisce la brevità. Nato nel 1920 a Ville-d’Avray e morto nel 1959 a Parigi, egli è al contempo figlio e padre del proprio tempo, subendone le tendenze e al contempo ravvivando queste ultime negli aspetti più prolifici. Con la sua variegata produzione artistica, tra musica e letteratura, sperimenta ogni possibilità di innovazione, indaga le profondità dell’animo umano in maniera insolita, ineffabile, sottendendo messaggi malinconici e reali, così attuali che si stenta a non classificare la produzione di Vian come profetica e futurista nel suo genere.

 

“Un poeta / è un essere unico / in tanti esemplari, / che pensa solamente in versi / e non scrive che in musica / su soggetti diversi / sia rossi che verdi / ma sempre magnifici.”

 

Nel 1920 a Ville-d’Avray non lontano dalla Parigi culla di un Jazz ai primordi dei suoi sviluppi francesi, nasce Boris Vian. Di questo tipo di musica non è solo coetaneo. Vian e la musica sono figli di una stessa epoca. Quando alleva un Vian adolescente, trombettista in erba, la musica riveste un ruolo materno; diverrà invece quasi una figlia, una protetta, quando sarà seguita, animata, promossa nelle sue forme più innovative da un Vian maturo, che di musica s’intende, che musica produce e promuove. Dall’acquisto, nel 1934, della prima tromba con la quale suona nel complesso costituito da amici e dai fratelli Lélio e Alain, a quando ingaggia Miles Davis nel 1957, di tempo ne è passato.

Le evoluzioni di Vian in campo musicale sono da ascrivere al clima di generale rinnovamento artistico in cui il Jazz la fa da padrone, configurandosi come nuova tradizione, destinata a porsi come erede del Charleston degli Anni ‘20. Se la felice temperie culturale parigina ha contribuito ad attirare in Francia musicisti come Duke Ellington, ben presto si assiste al fiorire di nuovi grupppi Jazz quali il Quartet du Hot Club de France, oltre alle riviste settoriali nelle quali lo stesso Vian scrive numerosi articoli di critica e ritratti di artisti dell’epoca. Quando il jazz prende piede, a dispetto delle critiche antimoderniste ed antiamericaniste che rifiutavano il cosiddetto bepop, Boris Vian si colloca nei club del quartiere parigino di Saint-Germain, pian piano sostituitosi nella sua funzione a Montmartre. Cafè de Flore, Tabou, Saint-German (di proprietà dello stesso Vian) sono i club che si configurano come incubatori di una tradizione, punto di ritrovo non solo per mucisti ma anche per intellettuali (Quenau, Merleau-Ponty, Lemarchand, Camus, Sartre).

Se il Jazz degli Anni ’20, ai tempi della sua prima importazione, si inserisce a latere di una tradizione secondo la quale nei club si ballano ancora Tango e Valzer, ai margini di ciò che è comune e istituzionalizzato rimane anche più tardi, negli Anni ’40,  quando il governo di Vichy, collaborazionista e conservatore, tra le sue riforme moralizzatrici inserisce l’imperativo “rasare gli zazous”- i giovani con capelli lunghi raccolti in un codino, vestiti di giacche lunghe, pantaloni attillati e ombrello. Ancora una volta ai confini del divertissement si colloca dunque le zazou, un jazz che è una forma di resistenza, un passatempo contestatario, avverso al regime poiché sospettato di simpatizzare con gli alleati e i neri americani. Scampato ai rastrellamenti a causa dei problemi di cuore, Vian emblema della Saint-German di quell’epoca non fa nulla per mettere a tacere le voci che gridano allo scandalo del preteso libertinismo caratteristico dei club, degli orari d’apertura prolungati nella notte, dell’immaginario del club come catacomba moderna dove la buona gioventù si dissolve assieme ai buoni costumi. Proprio quei luoghi, tutt’altro che ricettacolo di corruttela e depravazione, sono stati banco di prova unico di un Vian (divenuto direttore del reparto jazzistico della Philips) ormai punto di riferimento per i musicisti americani di transito in Francia, e al contempo banco di prova ultimo per una Parigi che dopo il periodo di Saint-Germain, a partire dalla metà degli Anni ’50 non sarà più un’attrattiva per i musicisti come lo era per le vecchie generazioni e non potrà più competere con una New York che si avviava ad essere l’indiscussa capitale del Jazz.

Se fin qui si può pensare che ci sia molta storia e poco Vian, si è destinati a ricredersi. Nel momento stesso in cui l’attività artistica di Vian non può essere nettamente definita in un preciso ruolo, un determinato genere, una cronologia costante, si vede come ciò che rimane da considerare è il tempo inteso come “lunghezza”, se si considera l’arco della sua vita (1920-1959) come “epoca”, se si considera che la temperie culturale in cui l’akmè di Vian va collocata influenza e contemporaneamente è influenzata da quest’ultimo, che ne è parimenti figlio e padre. Ecco come Vian non è solo nella Saint-Germain del jazz e della cultura, ma è la Saint-Germain del jazz e della cultura.

Qualora si tenti di definire entro confini netti la produzione di Vian, ci si accorge di trovarsi a camminare su un terreno paludoso. Difficile inquadrare, riassumere, sintetizzare i prodotti della sua attività, restia ad essere soggetta ad etichettature. Ineffabile è l’aggettivo che per certi versi risulta adeguato a descrivere lo stesso Vian autore, lontano dal voler essere digerito dalla critica in una determinata veste o in un determinato ruolo. In meno di quarant’anni è vissuto un Vian “imprenditore” (proprietario del club Saint-German), come un Vian laureato in ingegneria metallurgica; c’è poi il giornalista critico, il traduttore, il romanziere, lo sceneggiatore teatrale, il Patafisico. A ben guardare, se musica e letteratura non sono le uniche componenti della sua vita, sono senz’altro i campi in cui l’estro di Vian si esprime in maniera più prolifica e completa. Autore di più di cinquecento canzoni, dieci romanzi, sette opere teatrali, è senz’altro al suo lettore che Vian fornisce la più funzionale chiave d’accesso per la comprensione della sua poetica e della sua persona. L’aspetto più affascinante che emerge dalla lettura delle sue opere è la contraddizione tra l’uno e il molteplice.

La spiccata tendenza alla poliedricità che si riscontra nella sua biografia, la si può trovare nella stessa produzione letteraria. Le sue molte vite si intravedono forse nella eteronimia degli pseudonimi: si pensi al famoso Vernon Sullivan col quale, per sfuggire alla censura, pubblicò romanzi hard boiled (neonato genere americano di noir caratterizzato da lessico e descrizioni forti e crude). L’eclettismo si coglie nei romanzi in cui l’intreccio tendente all’assurdo e all’inverosimile, è intriso di particolari, indizi, sfumature senza cogliere i quali la comprensione del romanzo risulterebbe parziale e manomessa. La stessa tecnica di allusione, le atmosfere surreali e quasi oniriche, le metafore, la retorica dell’assurdo, vogliono deliberatamente stravolgere la prosa canonica, la classica comprensibilità del buon romanzo borghese.

In Autunno a Pechino ad esempio, si nota un utilizzo del titolo e delle citazioni improntato al non-sense: se da una parte le citazioni introduttive a ciascun capitolo sembrano non aver nulla a che vedere con l’argomento del capitolo che segue, dall’altra non c’è alcuna pertinenza fra contenuto del romanzo e un autunno a Pechino. Anzi, una dimensione parallela e desertica denominata Exopotamia fa da sfondo desolante alle vicende che coinvolgono i personaggi, giunti lì per contribuire alla costruzione di una ferrovia destinata a non portare in nessun luogo. Il romanzo trasmette un messaggio ineffabile, che inizialmente si stenta a cogliere nel suo significato più profondo ma di cui si sente l’eco tremendamente malinconico. Di nuovo, unicità e molteplicità si ravvedono ne La schiuma dei giorni, storia d’amore che letteralmente inghiotte i due protagonisti. E’ solo una trama a sfondo sentimentale? In esso c’è il germe di una critica sociale? Trasmette una visione tragica, una morale nischilista, pessimista? Probabilmente tutte queste domande costituiscono possibili chiavi di lettura e di ri-lettura. Ognuna di esse fornisce una lettura pluralista, uno sguardo focale sul molteplice. L’irrealismo e l’assurdo non si configurano dunque come contrapposizione alla realtà, rifugio da essa, negazione di essa ma al contrario sono sua lucida rappresentazione. Ineffabilità mista a concretezza, singolarità e molteplicità, sono affiancate da un linguaggio del tutto originale e talvolta straniante, caratterizzato da giochi di parole e neologismi. Con Vian sembra quasi che la poesia e i suoi stilemi siano penetrati nella prosa. Insolito narratore ed abile dissacratore, conduce una sottile critica ad ogni forma di diktat culturale. Da animatore del club di Saint-Germain, alla velata parodia dell’erudizione fine a se stessa, dell’esistenzialismo ormai divenuto di moda in quegli anni – lo ridicolizza proprio lui che collaborava con la rivista Les Temps Modernes e che era amico di Sartre.

Le sue peculiarità sono distorsione, straniamento, manomissione assieme a straordinaria profondità di riflessione, sensibilità, originalità. Artista engagé ma al contempo ironico, è caratterizzato dal rifiuto di ogni economia, ogni astensione, da uno spirito vitalistico sfrenato che non scade mai nell’esaltazione o nell’autodistruzione.

Un sano e sfrenato desiderio di vivere che si spense con lui la mattina del 23 giugno 1959, a trentanoveanni, nel Cinema Marbeuf dove assisteva alla prima cinematografica di J’irai cracher sur vos tombes (Sputerò sulle vostre tombe), controverso romanzo edito sotto pseudonimo.

 

“Distruggono il mondo / In pezzi /Distruggono il mondo / A colpi di martello / Ma non mi importa / Non mi importa davvero/| Ne rimane abbastanza per me / Ne rimane abbastanza / Basta che io ami / Una piuma azzurra / Una pista di sabbia / Un uccello pauroso / Basta che io ami / Un filo d’erba sottile/Una goccia di rugiada / Un grillo di bosco / Possono rompere il mondo / In frantumi / Ne rimane abbastanza per me […].”

 

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