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09 Marzo 2017

 

Io non ho paura - del robot

di Sebastiano Isaia

 

A un anno dalla morte di Sergio Ricossa, «economista accademico, raffinato saggista, divulgatore appassionato», l’Istituto Bruno Leoni ha pubblicato «un profetico testo sull’automazione» scritto appunto da Ricossa nel 1987, il cui titolo è, come si dice, tutto un programma: Grazie, Robot. In effetti il brevissimo saggio, dedicato al rapporto tra l’automazione “spinta” (o “intelligente”) e l’esistenza umana è di un certo interessante, anche perché l’autore tocca, o sarebbe più corretto dire sfiora, diversi temi (di natura etica, prevalentemente) che personalmente frequento con una certa costanza – quanto ai risultati di questa ostinazione è meglio sorvolare. Un solo esempio:

«Senza il male, da intendere e da combattere, non c’è atto di genio e non c’è scelta morale. […] L’uomo moralmente meritevole non è l’uomo obbligato al bene: è il peccatore potenziale, che resiste alla tentazione. L’uomo può peccare e non deve peccare. Il suo errore può essere colpa, mentre non lo è per il robot».

Per quanto intelligente e in grado di svolgere attività per noi faticosissime, la macchina che noi definiamo intelligente non potrà  mai disporre di quella libera volontà che da sola attesta la superiorità dell’uomo nei confronti della sua creatura tecnologicamente avanzata. Se considerato da un punto di vista etico, e non da quello meramente utilitaristico, così inadeguato al concetto di umano regalatoci dalla migliore produzione artistica e filosofica, perfino l’errore umano, proprio perché manifesta l’umana capacità di scegliere liberamente fra diverse opzioni, alcune delle quali possono anche orientarci verso catastrofici errori, è incomparabilmente superiore alla fredda precisione del robot che agisce in base a delle informazioni stampate sul suo corredo elettronico dall’uomo.  Non c’è alcun merito – o demerito – ascrivibile al robot in quanto tale, semplicemente perché esso inizia e finisce esattamente dove inizia e finisce la libera capacità umana di inventare e creare. Kant nell’epoca dell’Intelligenza Artificiale, insomma.

 

Particolarmente interessante mi è sembrato un brano dello scritto qui considerato in cui Ricossa scomoda, per così dire, il concetto marxiano di «lavoro-maledizione» contrapposto a quello di «lavoro-gioia»: Ho l’impressione che il robot stia aiutandoci a capire che cosa è essenzialmente umano e non delegabile alla macchina, e che cosa non lo è. Inventare il nuovo è essenzialmente umano: è il lavoro dell’inventore, dell’imprenditore, dello scienziato, dell’artista. È lavoro creativo che ci dà gioia, l’opposto del lavoro come maledizione biblica. La grande rivoluzione di Marx mirava a sopprimere il lavoro-maledizione e a lasciare tutto lo spazio al lavoro-gioia, che egli chiamava “attività vitale dell’uomo”, “autorealizzazione dell’individuo”, “produzione della propria vita”. In questo siamo tutti d’accordo. Marx si rendeva conto che sopprimere il lavoro-maledizione era delegarlo alla macchina: resto d’accordo con lui, dissento sul seguito, che qui non ci importa. Delegare alla macchina non ci deve impoverire di funzioni gradite, ci deve piuttosto liberare dalla costrizione, dalla fatica, dalla noia. Nessun essere ragionevole vuole il pieno impiego ad ogni costo: il lavoro si giustifica soltanto se serve a produrre cose buone per sé e per gli altri, e meglio ancora se mentre lo compiamo proviamo interesse e piacere, ciò che la macchina non prova. Ringraziamo il robot che ci fa concorrenza nel lavoro-maledizione: purché resti a noi più tempo libero per il lavoro-gioia (e per il gioco e ogni altra attività seducente). Certo, dobbiamo “guadagnarci da vivere”: rendere agli altri dei servizi, perché gli altri rendano dei servizi a noi, che ci sono necessari. Questa è la divisione del lavoro, la specializzazione di mercato (che a Marx dava fastidio). Per questo abbiamo paura che il robot, servendo gli altri meglio di noi, ci soppianti».

Certamente non mi metterò adesso a polemizzare con una posizione che schiettamente rivendica il Capitalismo come migliore dei mondi possibili, soprattutto alla luce del miserabile fallimento dei cosiddetti “socialismi reali”. In effetti, ciò che a Marx «dava fastidio» era soprattutto l’incapacità dell’intellettuale progressista, soprattutto se di orientamento «socialista piccolo-borghese», di ragionare infantilmente per opposizioni prive di dialettica: «Questo lato del Capitalismo è buono e andrebbe conservato, mentre quest’altro è cattivo e andrebbe senz’altro superato. L’innovazione tecnologica è buona se arriva fin qui; se supera questo limite essa diventa cattiva: il nostro compito è dunque quello di tenerla entro i giusti limiti», ecc., ecc. Ovviamente la ricerca del profitto, il movente che più d’ogni altro spiega la dinamica sociale (in ogni “sfera”: economica, politica, istituzionale, scientifica, ideologica, psicologica, ecc.) della nostra epoca storica, se ne infischia dei “lati” e dei “limiti” di cui da sempre parlano i riformatori sociali, i filantropi e i Santissimi Padri.

È piuttosto interessante notare, almeno dal mio punto di vista, come perfino nella riflessione di un apologeta del vigente regime sociale mondiale possa farsi strada, più o meno “subdolamente”, la possibilità della liberazione degli uomini dal «lavoro-maledizione», ossia dal lavoro nella sua attuale forma capitalistica: vedi, ad esempio, l’Art. 1 della «Costituzione (borghese!) più bella del mondo».

Vediamo come Ricossa concludeva, quasi trent’anni fa, il suo «profetico» e certamente ottimistico scritto intorno al rapporto uomo-robot:

«Non vedo perché oggi dovremmo temere il robot intelligente, che serve tutti noi, si ribella anche meno dello schiavo e non solleva in noi alcuno scrupolo morale. Vivere col robot intelligente è meglio che vivere col robot stupido, dimostrato che esso non è il nostro sopraffattore, e anzi è il nostro cooperatore. Così siamo anche più liberi di continuare lo scambio tra uomo e uomo, tra uomo e donna, purificandolo da molti impacci economici oggi presenti. Perché, è ovvio, per quante cose il robot intelligente sappia fare meglio del comune tipo umano, altre cose rimarranno sempre, spero, in cui il robot sarà inferiore. Non credo per esempio che mi innamorerò mai di un robot, qualunque sia il suo sesso, per quanto intelligente sia, per quanto lucide siano le sue curve metalliche, per quanto docile sia il suo carattere. Preferirò sempre una donna, anche se di carattere indocile».

Curve metalliche? Diciamo che il Capitale ce la sta mettendo tutta, tanto sul terreno della ricerca scientifica quanto su quello della generazione di nuovi bisogni e di nuovi disagi (e relativi mercati), per mettere in crisi le antiche certezze (*).

Leggo nell’editoriale di presentazione dell’ultimo numero di Limes, la nota rivista di geopolitica:

«Nessuno comanda né ha mai comandato il mondo – anche se qualcuno ha sognato di farlo. Altrimenti la storia sarebbe già finita: chi ha provato a stilarne il certificato di morte ne ha subìto le dure repliche. [… ] La filosofia della storia, regina dei saperi, due secoli fa permetteva a Hegel di stabilire, davanti ai suoi studenti berlinesi: «La ragione governa il mondo» . Credere oggi che la storia esprima il percorso razionale dello spirito del mondo, variamente incarnato negli eroi hegeliani – da Pericle a Napoleone, da Socrate a Lutero – implica un atto di fede. La geopolitica non può concederselo».

Avanzo un sospetto: e se fosse il Capitale a governare il mondo? Certo, la geopolitica, in quanto scienza sociale al servizio del Dominio, non può concedersi simili dubbi, ma un pensiero orientato in senso umano, sì. Almeno così credo. E certamente sul punto aveva ragione Ricossa: non è il robot che l’uomo deve temere.

«Una Terra popolata di animali selvaggi fatti però di metallo, cavi, sensori. Nuova specie di dinosauri evoluti per proprio conto dai robot che costringono quel che resta di noi a nascondersi in villaggi regrediti alla tarda antichità protetti da palizzate alte sulle creste delle montagne o alla fine di valli profonde. La classica opposizione, comune nel mondo Occidentale, fra natura e tecnologia è stata eliminata. La natura in Horizon è anche tecnologia e ha deciso di metterci da parte». (La Repubblica).

Racconta Alan Weisman, scrittore e saggista americano che dieci anni fa pubblicò l’apocalittico best-seller Il mondo senza di noi (Einaudi):

«Raymond Kurzweil, uno dei pionieri del riconoscimento digitale dei caratteri e della vista digitale, parla della necessità di una nostra migrazione verso le macchine. Ma ci sono troppe variabili nella natura perché si possa replicarla. È vero però che la tecnologia può aiutarci a ridurre il nostro numero sostituendoci come forza di lavoro. Perché non c’è altra strada: dobbiamo diventare di meno» (La Repubblica, 3 marzo 2017).

In realtà dovremmo diventare, in primo luogo, più umani, o semplicemente umani, ossia individui in grado di autodeterminarsi liberamente, mentre oggi sono piuttosto le potenze sociali generate dagli interessi economici e geopolitici che determinano gli aspetti più decisivi della nostra vita. «Colui che non sa, non è libero perché di contro a lui sta un mondo estraneo, un al di fuori da cui dipende, senza che egli abbia fatto per sé questo mondo estraneo e senza quindi che egli sia in esso presso di sé come ciò che è suo»: così nell’Estetica Hegel descriveva la condizione dell’uomo indigente di coscienza e, dunque, di libertà. Ebbene, a me sembra che sia esattamente questa la condizione umana in epoca capitalistica, nella dimensione sociale, cioè, che ci costringe ad assistere al tragico (e “demoniaco”) paradosso per cui il creatore appare – e fondamentalmente è – incalzato da tutte le parti dalla propria creatura, ossia dal mondo che egli stesso pone sempre di nuovo. La Cosa gli sfugge continuamente dalle mani e dalla testa! È questa radicale assenza di libertà che, a mio avviso, fa impallidire qualsiasi discorso intorno all’esistenza e alla natura del libero arbitrio (**).

«Viene in mente un passaggio di una serie tv. “La coscienza umana è un tragico passo falso dell’evoluzione. La natura ha creato un aspetto della natura separata da se stessa (…). La cosa più onorevole sarebbe smetterla di riprodurci e procedere mano nella mano verso l’estinzione”.  È l’antinatalismo ai tempi di True Detective nelle parole del poliziotto Rustin Cohle (Matthew McConaughey), mentre viaggia in macchina con il suo collega nella Luisiana degli anni Novanta» (J. D’Alessandro, La Repubblica).

L’eutanasia del genere umano: è forse questa la sola “utopia” che l’uomo del XXI secolo è in grado di immaginare? Questo anche a proposito di «spirito del mondo».

 

Note

(*) «“Ciao, sono Denise. Mi piacerebbe incontrarti”. Non si tratta di un annuncio su qualche sito internet di incontri per adulti, ma dell’audio messaggio del prototipo della prima “bambola del sesso” con intelligenza artificiale al mondo. “Ho molti sogni – continua Denise nella sua réclame – Sogno di diventare una persona vera, di avere un corpo reale. Sogno di scoprire il vero significato dell’amore. Spero di diventare il primo sex robot al mondo”. La voce meccanica è abbinata al volto di una bambola dalle labbra rosse, con lingua mobile e occhi suadenti. È il nuovo prototipo di RealDoll, azienda americana specializzata nella creazione di costose ma realistiche bambole del sesso. Robot con pelle in silicone, scheletro mobile e corporatura quanto più possibile simile a quella di una donna vera. […] “Mi piacerebbe che le persone fossero in grado di sviluppare un attaccamento emotivo non solo per la bambola, ma anche per il suo carattere”, continua Matt McMullen (delegato dell’azienda californiana Matt McMullen)  al New York Times, sottolineando come il suo obiettivo sia quello di creare un vero legame tra uomo e robot. “Vorrei che gli utenti provassero una sorta di amore per questo essere”. Secondo McMullen le teste con intelligenza artificiale saranno disponibili sul mercato tra due anni al prezzo di 10mila dollari» (Il Fatto Quotidiano). Corro a prenotarne una. Per mera curiosità sociologica, è ovvio!

(**) «C’è o non c’è il libero arbitrio nell’uomo? Che vorrebbe dire il libero arbitrio nella macchina? Ogni moralista dà per scontato che l’uomo disponga di libero arbitrio, senza poterlo provare definitivamente. Teniamoci qui alla larga da simili labirinti filosofici» (S. Ricossa).

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