http://www.lintellettualedissidente.it/

7 gennaio 2017

 

Quadro geopolitico della via della seta

di Daniele Perra

 

L'ingente sforzo economico cinese nel favorire lo sviluppo infrastrutturale in Asia centrale è segno della precisa volontà di rafforzare i legami politico-commerciali all'interno del continente eurasiatico. Tuttavia la percezione di un maggiore coinvolgimento cinese nell'area come minaccia alla politica egemonica nordamericana rischia di dare forma concreta al mai del tutto abbandonato progetto di “balcanizzare” la regione.

 

Poco prima di diventare viceré dell’India, nel 1898, Lord Curzon scriveva: «Turkestan, Afghanistan, Transcaspia e Persia: troppi di questi nomi suscitano soltanto un senso di assoluta distanza, o il ricordo di strane vicissitudini e di atmosfera moribonda. Per me, confesso che sono caselle di una scacchiera sulla quale si gioca una partita per il dominio del mondo»

Per tutta la seconda metà dell’Ottocento Russia e Gran Bretagna si confrontarono indirettamente, tramite il serrato lavoro diplomatico e dei rispettivi servizi segreti, nel cosiddetto “Great game” (definizione dell’ufficiale britannico Arthur Connolly) o “??????? ?????” (Torneo delle ombre), ben consci del fatto che l’Asia centrale avrebbe rappresentato uno snodo geopolitico cruciale una volta che la dissoluzione dell’Impero Ottomano avrebbe raggiunto il suo esito finale. In particolar modo l’impegno britannico era tutto volto ad impedire uno sbocco sui mari caldi all’Impero zarista che in quello stesso periodo si stava pericolosamente espandendo, sottomettendo i khanati dell’Asia centrale. Una storia ampiamente raccontata ma che continua a celare dei risvolti misteriosi ed affascinanti. Di particolare interesse, ad esempio, fu la vicenda dello scontro tra i due agenti segreti che di fatto diedero vita al Grande gioco: il russo ed il britannico Alexander Burnes; entrambi deceduti in circostanze più che misteriose, il primo al suo ritorno in patria nel 1839, mentre il secondo a Kabul nel 1841.

 

A quasi cento anni di distanza esatti dalla dichiarazione di Lord Curzon, nel 1997, l’analista geopolitico statunitense, già consigliere per la sicurezza nazionale sotto la presidenza Carter, Zbigniew Brzezinski, al quale di sicuro non si può negare una certa lungimiranza, seppur applicata al progetto egemonico unipolare nordamericano, scrisse The Grand Chessboard: American Primacy and its Geostrategic Imperatives. Scritta nel mezzo dell’istante unipolare in cui gli Stati Uniti, ubriachi del potere derivato dal crollo dell’URSS, si proponevano come agente globale di polizia, l’opera ha indubbiamente avuto un impatto profondo sulla politica estera statunitense soprattutto nel momento in cui si è optato, sotto l’amministrazione Obama, per la politica del lead from behind. Brzezinski pone in primo luogo enorme enfasi, assolutamente giustificata dal suo punto di vista, sulla potenziale minaccia che potrebbe costituire per il predominio statunitense l’eventuale insorgere di un’unione eurasiatica. Inutile affermare che alla pari di Lord Curzon, Brzezinski, consideri l’Asia centrale di fondamentale importanza per il potere globale.

La sua ricetta per il controllo dell’area è altresì molto chiara, e la dice lunga su quella che è l’attuale politica nordamericana. Infatti l’ampio piano strategico di destabilizzazione dell’area deve la sua genesi proprio al concetto di balcanizzazione dell’Eurasia (Eurasian Balkans), elaborato da Brzezinski. Destabilizzazione che si deve attuare attraverso pesanti ingerenze in politica interna con il preciso obiettivo di massimizzare l’instabilità politica e, qualora non si ricavino gli effetti desiderati (cambio di regime o rivoluzioni colorate – si vedano a tal proposito gli esempi di Georgia e Kirghizistan), utilizzando strategie di guerra non convenzionali come azioni di gruppi paramilitari e/o mercenari, cercando in ogni modo di limitare al minimo l’intervento diretto di truppe regolari. Anche se, come segnalato da Nick Turse sul magazine TomDispatch, nel solo 2015 gli USA hanno impiegato le loro truppe in 145 delle 195 nazioni riconosciute al mondo (una media di circa il 70% del globo terrestre).

Dunque la stretta collaborazione che Russia, Iran e Cina stanno costruendo è stata inevitabilmente percepita come enorme minaccia sia dall’amministrazione Obama quanto dal neoeletto presidente Trump, le cui prime mosse in ambito diplomatico sembrano confermare la precisa volontà di indebolire Cina ed Iran in primo luogo e di ostacolare qualsiasi tipo di rafforzamento delle interconnessioni politico-commerciali eurasiatiche. Sfortunatamente, per USA ed Occidente in generale, recentemente i rapporti tra queste tre potenze dell’area si stanno ulteriormente rinsaldando, attirando inoltre nella loro orbita nuove pedine; si pensi all’inedito CPEC (China Pakistan Economic Corridor) che sta portando il Pakistan a sganciarsi progressivamente dalla doppia morsa nordamericana e saudita. In questo contesto assume notevole rilevanza l’ambizioso progetto cinese OBOR (One Belt – One Road) che mira a ristabilire, attraverso una complessa rete infrastrutturale, l’antica via della seta. Un progetto geostrategico che ha avuto nell’inaugurazione della rete ferroviaria Yiwu – Teheran (10.399 km attraverso Cina, Kazakistan, Turkmenistan ed Iran) il suo preludio. Una rotta che consente maggiore sicurezza rispetto a quella pakistana in quanto non attraversa le instabili regioni delle FATA (Federally Administered Tribal Areas) a maggioranza etnica pashtun e del Belucistan. Ed un progetto che mira, attraverso lo sviluppo economico, il lavoro diplomatico e la diretta collaborazione con paesi a maggioranza etnica turcofona, a congelare la conflittualità nella provincia di frontiera dello Xinjiang, riducendo l’influenza che hanno sulla popolazione musulmana determinate tendenza radicali anche abilmente orchestrate e sfruttate dall’intelligence nordatlantica in chiave anti-cinese.

In questo la Cina sta abilmente cercando di ripetere l’abile lavoro diplomatico che gli imperi del passato, come quello mongolo di Gengis Khan o quello tataro (turco-mongolo) di Tamerlano, in Occidente ricordati solo come esempi di brutalità e spietatezza, hanno svolto nel destreggiarsi tra differenti religioni e culture e sempre nel quasi totale rispetto della diversità (si pensi ad esempio alla libertà religiosa concessa in questi contesti imperiali alle comunità ebraiche bukhariote).

Con buona pace di Bernard Guetta e dei suoi epigoni, l’interconnessione politico-commerciale tra Iran, Cina, Russia e gli altri partner eurasiatici sta aumentando in modo esponenziale. Iran e Cina in particolar modo hanno sul tavolo un progetto di aumento del volume di scambi commerciali bilaterali dai 53 miliardi del 2013 ai 600 miliardi entro la fine del prossimo decennio. Con questo la Cina punta a fare dell’Iran un centro strategico per il commercio all’interno del continente eurasiatico.

Questo ampio progetto infrastrutturale cerca altresì di andare incontro alle precise necessità economiche e strategiche delle repubbliche post-sovietiche dell’Asia centrale rimaste imprigionate dallo scontro geopolitico nella regione. Dal momento del crollo dell’Unione Sovietica le vie di comunicazione con il mondo esterno hanno rappresentato la priorità assoluta per ciascuna delle neonate repubbliche centro-asiatiche. La costruzione di infrastrutture, ed in particolar modo di oleodotti, capaci di garantire una interconnessione con il mercato mondiale per l’esportazione di cospicue risorse energetiche poco sfruttate ed in parte ancora sconosciute, sembrava la carta vincente che molti leader post-sovietici puntavano ad utilizzare per garantirsi una duratura permanenza al potere. Nel momento dell’indipendenza le risorse petrolifere del solo Kazakistan erano stimate in 85 bb (miliardi di barili) mentre le risorse di gas dell’intera regione erano stimate tra i 6,7 ed i 9,5 trilioni di metri cubi. Per diversi anni il ruolo che molti di questi leader, l’uzbeko Islam Karimov ed il turkmeno Saparmurat Niyazov su tutti, hanno avuto nel cercare di bilanciare i propri rapporti tanto con la Russia quanto con gli Stati Uniti, ha reso l‘Asia centrale un complesso ginepraio di interessi geopolitici contrastanti.

Per tutti gli anni Novanta e gli inizi del nuovo millennio gli Stati Uniti hanno cercato di elaborare un preciso progetto geostrategico volto alla realizzazione di una serie di oleodotti capaci di sfruttare le risorse energetiche centro-asiatiche tagliando fuori Russia, Cina ed Iran. Ed in questo senso si poteva leggere la scelta del compiacente ex consulente di Unocal/Chevron, nonché membro di una rinomata famiglia mafiosa afgana, Hamid Karzai, come presidente dell’Afghanistan “liberata” dal giogo talebano-qaidista, ed il complesso intreccio di alleanze che gli USA strinsero con svariati signori della guerra (e della droga) locali provenienti da gruppi etnici differenti. L’evidente fallimento del progetto nordatlantico in Afganistan (i talebani ed i loro alleati ad oggi controllano quasi l’80% del territorio) non sorprende visto e considerato che, come affermò da subito il generale Igor Rodionov, ex comandante della 40° armata sovietica, in Afghanistan dal 1984 al 1986, Karzai ed i suoi sgherri a libro paga ISI e soprattutto CIA rappresentavano solo gli interessi particolari di un gruppo mafioso e non riscuotevano nessun tipo di consenso tra la popolazione.

Il conflitto afgano continua a rappresentare la principale minaccia alla stabilità regionale, soprattutto se si considera che tutti i paesi confinanti hanno dovuto patire delle ripercussioni, più o meno nefaste, determinate anche da un diretto coinvolgimento “etnico” nel conflitto, come nel caso di Uzbekistan e Tagikistan. Tuttavia il conflitto afgano ha anche rappresentato una notevole opportunità di riconoscimento internazionale per leader come Islam Karimov che, offrendo ampia libertà di azione alla coalizione a guida USA sul proprio territorio, si è guadagnato altrettanta libertà di azione in politica interna, utile per stringere in una morsa oppositori politici ed IMU (Islamic Movement of Uzbekistan): il gruppo jihadista creato da Tahir Yuldashev e Juma Namangani, la cui base territoriale è la valle uzbeka del Ferghana, e che ha interpretato alla perfezione il salto di qualità teorico e pratico del salafismo-jihadista dal terrorismo fine a se stesso tipico del qaidismo alla concreta progettualità politica di Daesh.

L’intrinseca eterogeneità etnica dell’area ed il fatto che in buona parte sia ancora abitata da popolazioni dedite al nomadismo può rappresentare tanto una minaccia quanto un fattore positivo. Lo studioso pakistano di scuola anglo-sassone Ahmed Rashid, non a torto, ha definito le forme di nazionalismo centro-asiatico coniando l’espressione quasi antinomica di “nazionalismo riluttante”. Di fatto le repubbliche post-sovietiche altro non sono che una creazione artificiale dovuta alla politica delle nazionalità stalinista imposta per fare fronte alla pericolosa ribellione dei cosiddetti basmachi (letteralmente “briganti”): una ribellione, durata più di un decennio e brutalmente sedata, che la neonata Unione Sovietica ereditò dall’Impero zarista e che ebbe la sua scintilla nel rifiuto delle popolazioni locali alla coscrizione obbligatorio nel momento in cui Enver Pascia ne assunse la direzione politico-intellettuale, di fatto, è stata l’unica ideologia realmente capace di risvegliare le coscienze delle popolazioni turcofone centro-asiatiche.

Enver Pascia è stata una personalità estremamente complessa. Generale, membro dei Giovani Turchi e Ministro Ottomano della Guerra durante la Prima Guerra Mondiale, riparò in Germania al termine del conflitto e lì entro in contatto con il dirigente bolscevico Karl Radek, desideroso di creare una alleanza con il nazionalismo turco e tedesco in chiave anti-imperialistica. Con Karl Radek partecipò al Congresso dei Popoli d’Oriente di Baku nel 1920 con il preciso obiettivo di trovare una soluzione politica accomodante per sedare la rivolta dei basmachi. Tuttavia Enver Pascia si unì alla rivolta e, sfruttando le ambizioni panturche del movimento Giovane Bukhara, ne divenne presto il leader con l’obiettivo di creare un’entità statuale musulmana comprendente l’intera Asia centrale. La sua megalomania è rimasta nella leggenda così come i suoi ordini e gli scritti, tutti riportanti la dicitura “Comandante in capo di tutti gli eserciti musulmani, genero del califfo e rappresentante del profeta”. Tuttavia il suo esercito era costituito di sole ventimila unità e lui stesso venne ucciso in combattimento nel 1922.

Il comunismo nazionale islamico di Mirza Sultan Galiev fu l’altra soluzione con la quale i bolscevichi tentarono di tenere a freno la riottosità delle popolazioni turcofone della regione. Il progetto era ancora una volta ambizioso: la costituzione di una grande repubblica del Turkestan che avrebbe riunito tutti i popoli musulmani dell’ex Impero zarista sotto l’egida di una sorta di Islam democraticizzato e sovietizzato. Galiev morì in prigionia nel 1938. Tuttavia Stalin non abbandonò l’idea di “sovietizzare” l’Islam. Ed in questo senso si può leggere la creazione nel 1943, in pieno conflitto mondiale, dei quattro direttorati spirituali per le comunità musulmane in Unione Sovietica: istituzioni che permisero la vera e propria formazione di una nomenklatura islamica all’interno dell’URSS. Una nomenklatura da cui sono usciti i rispettivi leader politici che hanno guidato i processi di indipendenza delle repubbliche centro-asiatiche nel momento dell’implosione dell’URSS.

Proprio allo stalinismo, come afferma lo storico Aldo Ferrari, bisogna riconoscere il merito di aver preservato quest’area geografica, cruciale per lo sviluppo della progettualità politica eurasiatica, dall’americanismo. Di fatto, lo stalinismo, nonostante l’imposizione del pensiero unico marxista-leninista, ha consentito, proprio attraverso la politica delle nazionalità ed il riconoscimento della diversità religiosa, la salvaguardia di forme culturali millenarie che nemmeno il tentativo nordamericano di esportazione del “cargo-cultismo”, nel momento delle indipendenze nazionali, è riuscito a scalfire. Per tutto il periodo sovietico i costumi, le cerimonie popolari e i riti religiosi riconducibili non solo all’Islam o allo scimanesimo ma anche a quella che Renè Guenon chiamò “tradizione primordiale”, si sono conservati e sono stati praticati in modo diffuso sia apertamente, ma soprattutto in segreto, anche dalle più alte cariche della nomenklatura sovietica. La stessa suddivisione del potere su base clanica semi-feudale (si pensi agli uzbeki che si ritengono diretti discendenti di Gengis Khan e del clan Shaybani), inserita nel contesto del processo di democratizzazione post-sovietico, ha consentito la creazione di una struttura organizzativa quasi impermeabile all’infiltrazione culturale esterna.

Appare ovvio dunque che il fallimento dell’imposizione dei modelli occidentali sia il risultato in primo luogo dell’intrinseca difesa della propria tradizione ed in secondo luogo di un processo di destalinizzazione mai del tutto giunto a conclusione. Questo ha portato molti analisti occidentali (in stile Foreign Policy) a coniare per l’Asia centrale il neologismo di “Absurdistan”, per il semplice fatto che, ai loro occhi, tutto ciò che non capiscono o che non vogliono capire appare naturalmente assurdo. É assurdo, per loro, che una regione, per tanti secoli crocevia e base geografica di imperi che facevano del multiculturalismo e della difesa del patrimonio culturale particolare la propria peculiarità, non si lasci ammansire dalle gioie sfrenate del libero mercato globalizzato. Ora, se il nazionalismo non rappresenta una reale minaccia in quanto questi popoli hanno sempre dovuto confrontarsi con realtà imperiali; l’artificiosità di confini che separano lo stesso gruppo etnico in differenti nazioni, se abilmente sfruttata nell’ottica di balcanizzazione dell’Eurasia proposta dalla dottrina Brzezinski, può rappresentare una potenziale minaccia che Russia, Iran e Cina dovranno essere abili a disinnescare. In questo contesto risulta particolarmente complessa la situazione tra Uzbekistan e Tagikistan, a cui il nuovo presidente uzbeko Shavkat Mirziyoyev dovrà in qualche modo fare fronte. Di fatto Samarcanda e Bukhara, centri storici della cultura islamica persiano-tagika, si ritrovano all’interno dei confini uzbeki insieme ad un relativamente piccola minoranza tagika. Il Tagikistan è il paese dell’area maggiormente instabile. Sconvolto da una pesante guerra civile dal 1992 al 1997, è la repubblica centro-asiatica che ha maggiormente subito le ripercussioni del conflitto afgano, soprattutto per il fatto che un quarto della popolazione afgana è di ceppo etnico tagico. Ed all’interno del Tagikistan Stalin creò la regione autonoma del Gorno-Badakhshan che occupa il 44% del territorio nazionale ma al cui interno vive solo il 3% della popolazione per lo più composta da gruppi etnici pamiri di religione sciita ismaelita.

Il Kirghizistan sembra intenzionato a voler perseguire la linea neutralista intrapresa dal Turkmenistan. Scelta che sembra dimostrata dalle recenti dichiarazioni del presidente Atambayev sulla necessità di liberare il paese da ogni base militare straniera; anche se i contratti in vigore con l’esercito russo scadono “solo” nel 2058 e prevedono una ulteriore estensione di altri 25 anni. Il Kazakistan di Nursultan Nazarbaev rimane ad oggi l’unico vero paese stabile dell’area. Stabilità dovuta in parte all’aver abbracciato fin da subito il progetto geopolitico eurasiatico ma soprattutto ad una salda Costituzione che garantisce pari diritti e pari dignità linguistica a tutti i gruppi etnici presenti al suo interno: kazaki, russi, ucraini, uzbeki ed i tedeschi del Volga, diretti discendenti delle popolazioni germaniche che sotto Pietro il Grande divennero sudditi dello Zar. Il kazako è lingua ufficiale ma il russo rimane la lingua franca per ogni tipo di comunicazione inter-etnica ed internazionale. I potenziali presupposti per la minaccia della balcanizzazione dell’area rimangono, soprattutto se si considera che gli USA difficilmente lasceranno che un’area cruciale dal punto di vista geostrategico diventi parte integrante del progetto di unione eurasiatica. In questo contesto anche la Turchia, per le evidenti affinità culturali con i paesi dell’area, può svolgere un ruolo fondamentale una volta liberatasi dal cappio nordatlantico, dagli evidenti problemi di stabilità interna e dal paradigma neoliberista della politica estera dell’era Davutoglu indirizzata solo al mero interesse economico e non alla condivisione di un reale progetto politico-culturale.

top