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22 aprile 2017

 

La storia postmoderna su di uno strapiombo senza radici

di Francesco Pietrobelli

 

Lo spaesamento generale delle conoscenze, la presunta impossibilità di giungere ad una verità – in breve, il postmoderno – colpisce ogni branca di studio, storia inclusa. Intrappolata fra un riduzionismo semplicistico ed un relativismo confusionario, essa è incapace di assumere il valore tanto utile all’uomo sradicato dell’oggi.

 

Parafrasando Hannah Arendt, il male che colpisce in qualsiasi tempo è banale, nel senso che è qualcosa di cui non ci si rende conto. Abituati a viverci in mezzo, sembra qualcosa di innocuo, ordinario e scontato. Neppure ci si pone la domanda se qualcosa in esso non vada, incapaci di accorgersi dei danni che esso compie nella società.

La degenerazione del sapere umanistico degli ultimi secoli, di cui il postmoderno è culmine, non fa sconto. Essa è un male banale in quanto considerato come il vero sapere, mantenuto e insegnato – sic! – nelle università, quando invece dovrebbe essere visto come la serpe velenosa da cui stare alla larga. La cultura odierna – di cui l’accademia è l’espressione lampante – è incapace di rendersi conto del pericolo, delle contraddizioni insite in ciò che insegna, trafitta com’è dai denti avvelenati dell’ignoranza. La scienza storica degli ultimi secoli purtroppo non è esente da questa malattia: sprofondata in teorie tanto problematiche quanto assurde, non riesce a tessere gli avvenimenti del passato in un quadro unitario, spremer fuori dalla loro essenza anche un solo insegnamento che parli all’uomo contemporaneo.

 

La continuità dell’Occidente si è spezzata da quando il libro antico ha smesso di contenere insegnamenti per trasformarsi in documento.

 

Questa la lapidaria sentenza che Gómez Dávila esprime in un conciso aforisma sull’attuale destino della storia. E, come ben spiegano Antonio Lombardi e Gabriele Zuppa in Nicolás Gómez Dávila e la modernità,

 

oggi più che mai l’indagine sul passato si è trasformata in mera conoscenza erudita: un catalogo di avvenimenti, una cronologia minuziosa, una ricostruzione del fatto storico puntigliosa e rigorosa sotto ogni punto di vista, capace di servirsi di strumenti scientifici all’avanguardia, ma non più in grado di fornire un qualche insegnamento a colui che vi si approcci.

 

È un quadro desolante, che si vorrebbe ben volentieri smentire. Dopotutto, quante volte si sente dire che la storia è necessaria per capire il proprio presente? Quando mai non si dice che senza la conoscenza del passato dimentichiamo le nostre radici? E soprattutto, non è questo quello che i professori ricordano ad ogni lezione?

Certamente, nella forma, queste domande hanno quasi sempre una risposta affermativa. Quanto al contenuto tuttavia, le lezioni degli stessi tendono alla direzione opposta. Incapace di riempirsi di un concreto e positivo significato, la storia è importante si trasforma in un flatus vocis ripetuto a pappagallo senza un vero motivo per cui crederci. Col risultato che i poveri alunni, inizialmente volenterosi, si ritroveranno a fine carriera nel più amaro spaesamento. Basta aprire un manuale di introduzione alla storia, in questo caso quella medievale, per leggere frasi come:

 

[la] nostra cultura storica, non interessata a giudicare le civiltà, ma piuttosto a leggerne i funzionamenti.

 

Si tolga il giudizio: è negativo, è presunzione di verità, di essere migliori! Si mantenga invece un pacato leggerne i funzionamenti, frase che spesso si riduce a fare la storiella erudita sul cambiamento di alcuni elementi del passato, tanto ininfluenti quanto narrati senza la capacità di sviscerarne il vero significato. Un risultato inevitabile, quando ci si rifiuta proprio di giudicare le civiltà, che altro non è se non confrontarsi realmente con esse, mettere in discussione il proprio modo di vivere, capire se si è migliori o peggiori. La cultura altra – in questo caso, quella passata – è significativa proprio perché è diversa, cioè esprime una concezione del vivere diversa. In un dato periodo storico una civiltà si è costituita repubblica. Ha avuto senso quel cambiamento, data la situazione concreta di quel popolo? Lo Stato che si è sviluppato era stabile, poggiava su valori in cui credere? Soprattutto, quelle vicende cosa possono insegnare alla propria comunità? Vi è qualcosa di migliore, dal quale imparare e così cambiare in meglio, oppure vi sono contraddizioni da tenere a mente per non ricadervi?

La storia, in fin dei conti, altro non è che l’insieme delle vicende umane. Un processo lungo e problematico, ma che proprio grazie alle difficoltà in esso insite, ha permesso all’uomo di migliorarsi, sviluppare cioè comunità che, rispetto a quelle precedenti, vivono – o almeno tentano di farlo – con meno contraddizioni, coerentemente con determinati valori.

 

Il passato è l’immenso sistema di esperienze che trascende e fonda la nostra esperienza attuale: che è piccola, limitata, miope, a meno che non si confronti con i propri avi, oltre che con il proprio prossimo.

 

Ma la confusione non si ferma qua. Nel tentativo – se mai questo si presenta oggigiorno – di comprendere il processo storico, la stessa comprensione dell’oggetto di studio si presenta assediata da ostacoli. Se prima esso era visto come qualcosa di indipendente dal soggetto, studiabile oggettivamente da ogni storico che si approcciasse col giusto metodo, ora è appurato come un elemento soggettivo, relativo a come il soggetto lo interpreta, lo legge alla luce della sua forma mentis:

 

la spiegazione e l’interpretazione dell’oggetto scaturisce da un processo cognitivo non scontato. Ogni fonte materiale, come insegna il post-processualismo, viene costruita dallo studioso e non è oggettiva, come del resto avviene per ogni testo scritto.

 

Che l’oggetto non sia qualcosa di indipendente dal soggetto che vi si approccia è più che appurato. Che tuttavia da differenti punti di vista scaturisca che la verità non possa esserci, questo scontato non è. In quanto la comprensione è relativa al soggetto, questo non vuol dire che essa in ogni caso sia vera, cioè che il soggetto abbia un punto di vista equivalente a tutti gli altri. Se la rivoluzione francese è letta positivamente da alcuni studiosi, mentre altri propendono per una visione critica, il risultato non è l’annullarsi delle opinioni in un ognuno la pensa diversamente, ma la necessità di confrontarsi criticamente, cogliere le motivazioni che portano gli studiosi a sostenere una tesi, testarne la loro fondatezza, la loro in-contraddittorietà. Consapevoli che la conoscenza non è mai qualcosa di sicuro e stabile una volta per tutte, ma che ciò non è un motivo per non proseguire il tentativo del suo affinamento, assegnandosi a contraddizioni come l’affermazione della relatività di ogni cosa.

Al momento, l’historia non è poi molto magistra vitae. Impelagata com’è in queste e altre confusioni concettuali, finisce per essere sradicata dalle sue stesse fondamenta, diventando il dirupo in cui si cadeallorquando si dimentica la diritta via di studio che tale disciplina richiede. Risalire lo strapiombo non è facile, ma è il dovere che ogni vero storico deve adempiere. Trascurare la storia non è un’opzione accettabile.

 

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