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lunedì 21 luglio 2014

 

L'India che vorrei

di Raimondo Bultrini

 

Per Arundhati Roy, romanziera famosa e saggista di battaglia, il grande nemico è il sistema delle caste. «La violenza sulle donne e le ingiustizie peggiori nascono da lì. Anche se a Bollywood va di moda scordarlo»

 

Questa orribile storia dell’Uttar Pradesh riguarda solo due su migliaia di ragazze vittime di analoghe forme di violenza. Il pensiero che mi rende cieca di rabbia è che le ragazze vengono violentate perché sono dalit, cioè Intoccabili, perché sono Kashmire o del Manipur e anche perché sono ragazze, che siano povere e indifese, o moderne e quindi “fuori controllo”». Li hanno presi, questa volta, gli assassini che hanno violentato e impiccato a un albero le due ragazzine in un villaggio, e nell’India di oggi e di sempre, neppure questo era scontato. Arundhati Roy, la scrittrice indiana che è appena stata nominata dal Time tra le cento persone più influenti dell’anno (assieme a Obama, Beyoncé e il Papa), seduta in un caffè di Khan Market a Delhi, col sottofondo no stop di canzoni dei Beatles, va diritto al cuore della più tragica contraddizione del Paese dove il bollettino quotidiano degli stupri e delle uccisioni sembra inarrestabile: «Io le liste dei giornali internazionali sulle personalità influenti faccio davvero fatica a prenderle sul serio. Perché l’India vive in molti secoli simultaneamente, così qui trovano voce alcune tra le donne piu potenti e riconosciute del mondo, persone davvero libere come me, - non ho false modestie - o Medha Patkar o Vandana Shiva, e allo stesso tempo un enorme numero di donne incontra un destino tragico, a cominciare dai milioni di bambine uccise per feticidio o per fame e abbandono».

Al centro del lacerante paradosso, Arhundati Roy torna a denunciare, come in forma di romanzo ha fatto fin dal suo best seller Il dio delle piccole cose, il sistema delle caste: «In una società violenta come la nostra, dove la sopraffazione è istituzionalizzata nel principio di Intoccabilità, per un uomo di casta superiore violentare una dalit non è mai stato un problema, in questo caso le donne degli Intoccabili non sono state mai intoccabili». E da lì riparte anche nel suo ultimo libro Il Dottore e il Santo, mettendo questa volta polemicamente in discussione anche un mito assoluto dell’India del Novecento, il Mahatma Gandhi, contrapposto «eticamente e moralmente» alla speciale figura di “intellettuale anti-caste” che fu suo contemporaneo e avversario: B.R. Ambedkar, economista, filosofo, leader degli Intoccabili dalit e giurista che nel secolo scorso ha redatto la Costituzione moderna. Restituendo ad Ambedkar il posto che a suo dire «gli spetta nella storia» e contestando a Gandhi la tolleranza verso la tradizione induista, Roy si ritrova ancora una volta sotto il fuoco incrociato delle polemiche. C’è abituata, da quando nel 1997 Il dio delle piccole cose, pubblicato in 21 Paesi, fu denunciato per le scene di sesso ritenute “offensive” tra la nobile Ammu, la protagonista, e il dalit Velutha, nonché dai capi del governo e del partito comunista del Kerala per i suoi ritratti di leader “rossi” di alta casta e bassa moralità sociale. Quando lo stesso anno quel romanzo vinse il prestigioso Booker Prize lei, radiosa trentacinquenne catapultata ai vertici della letteratura contemporanea, spiegò che non intendeva essere «solo una graziosa signora che scrive libri».

E accantonata la narrativa - «temporaneamente», precisa come tutte le volte che da allora glielo chiedono, annunciando adesso che sta «lavorando a un secondo romanzo» - è diventata la più famosa agitatrice, ambientalista radicale e no global del Paese, attirandosi attacchi ancora più violenti. Tre anni fa la presentazione del suo saggio Broken Republic (in italiano In marcia coi ribelli, Guanda), che conteneva il reportage su un viaggio nelle aree maoiste e racconti dal Kashmir islamico, fu boicottata da folle furiose di filo-governativi che presero anche a sassate la sua casa e le costò denunce per sedizione e richieste d’arresto. In cella c’è poi finita davvero per due giorni, dopo una manifestazione contro la diga sul fiume Narmada.

Il suo nuovo saggio è una introduzione alla più dura e controversa opera di Ambedkar, dal significativo titolo L’eliminazione delle caste. Perché ha scelto quel testo? «Crescendo sono sempre stata acutamente consapevole dell’ingiustizia del sistema delle caste. Credo sia ovvio per chiunque abbia letto il mio romanzo. Ma le pagine di Ambedkar fanno capire il problema storicamente, politicamente e teoricamente. Ecco perché sono così importanti, anche se sfortunatamente ben pochi hanno avuto finora questo volume sugli scaffali».

Il libro è uscito nel pieno della campagna elettorale che ha visto la vittoria del fondamentalista hindu Narendra Modi. «Il nuovo premier è l’espressione di un’ideologia non dissimile da quella del progressista Congresso, entrambi figli di una cultura elitaria e totalitaria al servizio del grande capitale».

Ma lei va oltre, accomunando le idee di Modi a quelle del Mahatma in materia di religione e società. Un’eresia per quanti considerano Gandhi agli antipodi della filosofia della destra hindu. «Non era mia intenzione dissacrare una figura tanto amata per il gusto di andare controcorrente. Durante la ricerca su Ambedkar ho riletto gli scritti e le citazioni di Gandhi su ogni aspetto che avesse a che fare con il tema delle caste, e sono rimasta allibita dalle coincidenze. Modi ha usato perfino le stesse parole del Mahatma per spiegare perché per esempio, il bhangi - ovvero il membro della categoria di pulitori di fogne - ideale non dovrebbe aspirare a un gradino più alto nella scala sociale degli uomini, ma guadagnarsi una vita migliore nell’aldilà, svolgendo il suo mestiere ancestrale con umiltà e spirito di servizio. Nell’introduzione al libro di Ambedkar, che a onor del vero Gandhi lesse e difese dalla censura pur non condividendolo, io riporto numerosi scritti dove il Mahatma giustifica un sistema che ha creato e crea enorme sofferenza e indicibili ingiustizie. Scriveva: “Se la società induista è stata capace di resistere, è perché si fonda sul sistema di caste...Distruggerlo e adottare il sistema di società occidentale europea significa abbandonare il principio di occupazione ereditaria che è l’anima del sistema di caste. Il principio ereditario è un principio eterno...”».

Resta davvero “eterno” anche nell’India di oggi? «Oggi per molti intellettuali specialmente di sinistra dire che le caste non esistono è perfino una cosa carina, progressista, e non vedi questi temi trattati nei film di Bollywood. Sono diventati invisibili. Eppure i Sottocasta, Intoccabili, Inavvicinabili, o comunque vengano chiamati gli “impuri” dell’India, formano la gran massa degli 800 milioni di poveri che sopravvivono con meno di 20 rupie, neanche mezzo dollaro, al giorno. Anche il legame con la violenza contro le donne è evidente: più di 1500 donne dalit sono state violentate nell’anno dello stupro sull’autobus di Delhi, nel 2012, e 600 dalit sono stati uccisi per motivi legati alla loro casta. E anche in Kashmir l’esercito che violenta è parte dello status quo, come in Manipur, dove Irom Sharmila sta digiunando senza successo da 13 anni contro l’impunità dell’esercito e la legge che gliela permette».

Ma se ne può attribuire a Gandhi una responsabilità? «Io mi sono domandata come la dottrina gandhiana della non violenza e satyagraha potesse adagiarsi così confortevolmente sulle fondamenta di un sistema divisivo che si regge solo sulla minaccia e l’applicazione permanente della violenza. La dominazione di casta su base religiosa e di mestiere come un tempo, bramini, Yadav, Jat, eccetera, è stata sostituita dal moderno concetto di nazione hindu e di razza hindu, da quando con le nuove idee di “rappresentanza” i numeri, il consenso della popolazione, sono diventati importanti alle urne. E in cambio di voti alle caste inferiori e a quanti si erano convertiti all’Islam, al Sikhismo o al cristianesimo per sfuggire allo stigma della propria casta si offrono posti riservati negli impieghi e nelle scuole. Non a caso il tentativo di Ambedkar di far votare separatamente i dalit per dotarli di propri organi di rappresentanza, fu ostacolato fermamente proprio da Gandhi, che iniziò uno sciopero della fame seguito da tutta l’India con trepidazione. E quando vicino a Pune migliaia di contadini espropriati delle loro terre bloccarono i lavori in una miniera degli industriali Tata, che distruggeva il loro ambiente ancestrale, proprio il Mahatma li invitò a desistere. Ci sono altri esempi nel libro, tratti da vicende note, che riporto non per screditare la figura di Gandhi, ma per invitare quanti hanno bisogno di un santo a vederlo almeno nella sua interezza».

Tornando a lei, ricevendo per il Il Dottore e il Santo il premio Samata Ratna, che di solito va scrittori dalit, ha detto di preferirlo perfino al Booker Prize. «C’era stato qualcuno che mi aveva contestato il diritto di parlare di Ambedkar in quanto non-dalit (sua madre è cristiana siriana, il padre hindu di alta casta, ndr). Per questo il riconoscimento mi ha particolarmente toccato.

Uno degli aspetti meno noti della sua vita è il periodo passato in Italia, quando studiava da architetto restauratore, ma già voleva diventare scrittrice. «Ho passato sei mesi in Italia, soprattutto a Firenze. Ma l’Italia ha avuto una profonda influenza su di me già molto prima di atterrare a Roma. Tra i miei più cari amici c’era Carlo Buldrini, scrittore, architetto e giornalista che viveva qui in India quando avevo 17 anni. È stato lui a ispirare in molti modi il mio modo attuale di pensare, la scelta di prendere il mondo a modo mio, respingendo il ricatto di chi sostiene che così si turba la pace».


Letterata e militante
1961 Nasce il 24 novembre 1961. Suo padre era un hindu di alta casta, manager di una piantagione di tè del Bengala, della tradizione di sacerdoti bramini che insegnano e praticano i Veda. La madre, una cristiana di fede siriana, proveniente da una famiglia che cambiò religione per sfuggire al sistema religioso di discriminazioni dell’induismo, era attivista femminista in Kerala.
1963-1983 I genitori divorziano quando ha due anni e cresce in Kerala con il fratello e la madre, che apre e dirige una scuola. Dopo il diploma si laurea in architettura a Delhi, dove incontra il compagno di studi Gerard de Cunha. La coppia di trasferisce per qualche anno a Goa.
1984-1996 Tornata a Delhi, lavora per l’Istituto nazionale urbanistico e incontra il regista indipendente Pradip Krishen, che le offre una parte nel suo primo film di successo, Massey Sahib. Si sposano e scrivono insieme serie tv e film, mentre dal 1992 Arundhati mette mano a quello che diventerà il suo best seller.
1997 Pubblica Il dio delle piccole cose, storia semiautobiografica (la protagonista Ammu è in parte ispirata alla madre) che intreccia una storia d’amore con la critica radicale del sistema delle caste in India. Clamoroso successo internazionale tradotto in 21 lingue, vince il Booker Prize.
1998-2009 Mette da parte il lavoro di narratrice e negli anni successivi pubblica una decina di saggi politici e pamphlet polemici, pubblicati anche in italiano da Guanda, mentre milita appassionatamente sul fronte delle principali proteste e controversie indiane (la diga di Narmada, l’autonomia del Kashmir, il nucleare, l’occupazione delle terre in Kerala, la lotta alla corruzione) e internazionali (contro la guerra americana in Afghanistan e in Iraq).
2010-2014 Con il saggio Broken Republic (In marcia con i ribelli, 2012) denuncia l’escalation nella repressione militare del movimento maoista Naxalita, con l’ultimo saggio, Il Dottore e il Santo, una lunga presentazione di L’annientamento delle caste, scritto nel 1936 dal Padre della Costituzione indiana B.R. Ambekdar, attacca le ambiguità di Gandhi sul tema, tornando al centro di infuocate polemiche.

 

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