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10 settembre 2017

 

Terremoto in Messico, bimbo di 11 anni estratto vivo dalle macerie. Viaggio nella città ferita che trema ancora

di Daniele Mastrogiacomo

 

Juchitàn sarà costruita altrove, fa parte dei tanti piani che le autorità locali, assieme a quelle centrali, stanno mettendo a punto. Il governo ha stanziato i primi fondi. Ma per l’immediato servono tende e acqua, ed è urgente lo sgombero dei detriti

 

Il terremoto in Messico non molla. È ancora lì, nascosto nelle viscere della terra. Le macerie hanno restituito poche ore fa Josuè, un bambino di 11 anni estratto da una abitazione crollata a Juchitan, nello stato di Oaxaca, dopo essere rimasto intrappolato durante il violento terremoto di giovedì notte in Messico. È stato salvato dopo 36 ore da una squadra dei 'topos', gli specialisti dei vigili del fuoco creati subito dopo il terremoto del 1985 a Città del Messico che si infilano negli anfratti delle macerie.

La terra continua a tremare, le scosse le senti, le percepisci, quando cammini e l’asfalto trema sotto i tuoi piedi. La gente, qui a Juchitán, è diventata così sensibile che reagisce d’istinto; senza un apparente motivo abbandona le case diventate degli anfratti e si riversa rassegnata per le strade. “Sta per arrivare una scossa”, dice Martín, 21 anni, un figlio di 2, che ci fa da guida a bordo della sua moto taxi. “Stanno tutti uscendo per strada. È il segnale”, aggiunge sicuro. Ha ragione. La frustata arriva.

Niente a che vedere con quella di venerdì notte quando l’onda d’urto si è sentita fino a Città del Messico. Ma si avverte, nitida. È ondulatoria. Ti manca il terreno sotto i piedi e vieni sballottato da un lato all’altro. Perfino il risciò ha un sussulto. Dieci secondi. Passa tutto. In tre giorni ci sono state 846 repliche. Una decina del sesto grado. La gente resta ancora un po’ in attesa e poi si avvicina di nuovo a quelle che erano le loro case. I tetti sventrati e crollati, le pareti ridotte a scheletri, i pavimenti pieni di travi di legno, tegole e mattoni rossi, di quelli antichi, pieni, che si cucinavano nelle fucine.
 
Ci sono almeno 20 mila persone che vivono all’aperto da tre giorni e tre notti. Perché 7 mila abitazioni, negozi, officine, bar, botteghe sono state dichiarate inagibili. La metà delle 15 mila censite. La maggior parte sorgeva nella parte storica di Juchitán: un quadrilatero disegnato da quattro grandi strade unite da tanti viottoli. Il cuore della città, quella più antica, costruita dai francesi. Non hanno resistito alla scossa; breve, non oltre i 20 secondi, ma intensa. Il movimento ondulatorio ha staccato i tetti formati da assi e tegole e ha abbattuto le pareti. Delle 90 vittime finora registrate ben 71 sono morte qui; le altre 15 nel Chiapas e 4 nel Tabasco. Ci sono oltre 300 feriti dei quali una decina ancora gravi. La maggior parte erano anziane, quando c’è stato il terremoto erano in casa, probabilmente già a letto.

Sono quelle più indifese ma soprattutto quelle più povere. Le loro case, quello che resta delle due stanze, costruite su un solo piano, non avevano assicurazione. Erano appartenute ai loro avi che le avevano ereditate a metà dell’800 grazie alla vittoria dei repubblicani nazionalisti.  Chi è riuscito a salvarsi adesso si trova senza più nulla. Non solo un luogo dove poter dormire e cucinare ma spesso anche lavorare. Questa cittadina di 70 mila abitanti campa con l’agricoltura e con il piccolo commercio. Diventa impossibile mandare avanti la propria attività senza un luogo fisico. Nell’attesa di una soluzione ci si arrangia. Davanti alle case diroccate si sono formati dei giacigli di fortuna. Molti hanno appeso dei teloni per proteggersi dalla pioggia arrivata nelle ultime ore e per vigilare sugli sciacalli che sono apparsi puntualmente.

Qui dormono su materassi, sdraio, sedie, amache attaccate agli alberi che ornano le stradine. Qualcuno ha portato la macchina e ha creato, all’esterno, il nuovo riparo. Si fa tutto sui marciapiedi. Si cucina a legna e ci si lava con le taniche. Al buio. Senza luce, gas e acqua. Alcuni tagliano i fili elettrici rimasti a penzoloni, altri hanno portato cemento e tondini per il calcestruzzo. Rafforzano le colonne e le travi. L’autunno è alle porte. Chi può permetterselo è andato nei pochi alberghi rimasti in piedi. Gli altri, la maggioranza, devono arrangiarsi. La polizia è arrivata in forze. Pattuglia con i gipponi e i camion le strade. Sui cassoni ci sono degli striscioni con la scritta bella evidente, in rosso: “Per proteggere e servire il cittadino”. C’è bisogno di guadagnarsi la fiducia dopo tante delusioni.
 
Il sindaco, Gloria Sanchéz, è tornata dai suoi abitanti. Si è fatta un giro per il centro storico e ha promesso la rinascita. “Oggi muore Juchitán”, ha ammesso con gli occhi lucidi, “ma ne costruiremo un’altra”. Il primo cittadino lo dice chiaramente ma sa bene che l’intero quadrilatero, con il palazzo Comunale, le belle case coloniali, lo stesso collegio francese dove si erano radunati i ribelli per sferrare l’attacco decisivo, dovranno essere demoliti. Perfino la chiesa che risale agli inizi del 1800 ha la cupola crollata. Sfilando lungo la Séptima, il viale elegante della città, si vede una ferita ininterrotta all’altezza delle colonne che reggevano i piani e i tetti. Tutta la zona è transennata. Così la parte viva di Juchitán, dove le famiglie e i ragazzi e le ragazze passeggiavano la domenica pomeriggio, è un quartiere desolato. Sono chiuse la farmacia, la pasticceria, la libreria. Come la banca, il bar, il ristorante. Ma anche il poliambulatorio, i tanti piccoli negozi che rifornivano la piccola borghesia e un’aristocrazia decaduta. Sulla cintura esterna anche il grande supermercato ha le sue ferite. Così come i moderni autosaloni e il centro commerciale che ha un’intera facciata a penzoloni.

La voce gira insistente anche se nessuno la conferma: la città sarà costruita altrove. Fa parte dei tanti piani che le autorità locali, assieme a quelle centrali, stanno mettendo a punto. Il governo ha stanziato i primi fondi. Ma servono per l’immediato. “Abbiamo bisogno di tende, acqua, di sgombrare i detriti. E poi cemento e mattoni”, spiega il governatore di Oaxaca, Alejandro Murat.
Per il futuro ci vuole altro. Juchitán è morta. Ristrutturare ciò che è crollato è impossibile. A meno di un miracolo e una montagna di quattrini. Il miracolo messicano è un altro. Si chiama Baia di Huatulco, Puerto Escondido, Oaxaca de Juaréz. Tre paradisi turistici della costa, a due passi da qui, risparmiati dalla furia del terremoto.

 

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