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Giovedì 16 febbraio 2017

 

Non c’è crisi per la spesa militare

di Alessia de Luca Tupputi

 

Il comparto difesa vale l’1,4% del Pil e succhia risorse sia al ministero degli esteri che a quello dello sviluppo economico. In più si spende male e si spreca. L’analisi dell’Osservatorio Milex.

 

La crisi giova al comparto militare-industriale. Negli ultimi 10 anni, mentre i governi varavano riforme lacrime e sangue per far fronte alle congiunture economiche negative e alla mancata crescita, la spesa militare in Italia è cresciuta del 21%. Nel 2017 raggiungerà quota complessiva 23,3 miliardi di euro, circa l’1,4% del Pil. A confermarlo, numeri alla mano, è il primo rapporto annuale dell’Osservatorio Milex, presentato ieri alla Camera: un centinaio di pagine, ricche di dati, che tentano di fare luce su uno dei settori più opachi della nostra economia.

L’Osservatorio - fondato da Francesco Vignarca di Rete italiana per il disarmo e dal giornalista Enrico Piovesana - punta a sfrondare il bilancio della difesa dalle voci non militari, come le spese per i Carabinieri impiegati per l’ordine pubblico, integrandolo con quelle in conto ad altri dicasteri.

È così che si scopre che le missioni all’estero pagate dal ministero degli Esteri quest’anno superano il miliardo di euro, toccando cifra 1,28. Più del 7% rispetto al 2016. E che il ministero dello Sviluppo economico (Mise) userà l’86% dei suoi fondi (3,4 miliardi) - più della stessa difesa (2,3 miliardi) - per comprare armamenti.

 

15 milioni al giorno

Nel 2017 infatti, l’Italia spenderà per l’acquisto di armi, munizioni, missili, mezzi militari e artiglieria pesante ben 5,6 miliardi di euro, ossia 15 milioni al giorno. Mezzi militari tradizionali, per lo più, mentre nel settore della cyber-difesa, sempre più attuale, non spendiamo praticamente nulla, rivolgendoci all’estero per avere protezione delle nostre strutture, dei nostri ministeri e delle nostre reti informatiche. «È necessario un cambio di rotta - osserva Francesco Vignarca - con una politica di spesa militare più contenuta ma più efficiente, che limiti gli sprechi e il procurement, determinato da logiche commerciali e di lobby, che portano la difesa a operare grandi commesse nazionali in funzione della promozione dell’export».

Diretta conseguenza del meccanismo di incentivi pubblici strutturali alle industrie del comparto difesa, sono programmi giustificati gonfiando le necessità (come nel caso del numero degli aerei da sostituite con gli F-35) e il ricorso alla retorica del "dual use" militare-civile. È il caso della nuova portaerei Trieste presentata come nave umanitaria, e delle fregate FREMM 2 presentate come unità per soccorso profughi e tutela ambientale. «Se la Difesa vuole una nuova portaerei dovrebbe dirlo - osserva Vignarca - senza cercare di farla passare agli occhi del parlamento e dell'opinione pubblica, come uno strumento di sostegno al recupero dei migranti in mare».

 

Più comandanti che comandati

Il rapporto evidenzia infine come a gravare maggiormente sui bilanci militari, siano i costi del personale. Circa il 60% della spesa militare italiana serve a pagare stipendi e pensioni delle forze armate, caratterizzate dalla presenza di un maggiore numero di “comandanti” rispetto ai “comandati”. Secondo il Milex oggi si contano 90mila comandanti contro 81 mila comandati; nel 2024 le proporzioni dovrebbero cambiare radicalmente, ammesso che si trovi un modo per ridurre 32mila marescialli e 4500 ufficiali in otto anni. «Finora le grandi manovre per destinare i marescialli ad altre amministrazioni - osserva Piovesana - sono state una disfatta. Il risultato? Spendiamo cifre blu per stipendi e armamenti superiori alle nostre reali esigenze (e che poi non abbiamo i soldi per manutenere), investiamo poco nell'addestramento del personale e dimentichiamo i fronti su cui sarebbe necessario investire: intelligence, prevenzione e difesa informatica».

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lunedì 20 febbraio 2017

Armi, mai così tanti affari dalla fine della Guerra Fredda
di Luca Miele

La denuncia del Sipri: negli ultimi cinque anni, il commercio internazionale di armi è cresciuto dell'8,4 per cento

Non lo ha scalfito, in alcun modo, la crisi economica. Anzi, il volume del commercio internazionale di armi sta conoscendo una fase di continua – e in alcune aree esplosiva – crescita. Nutrito da quella che papa Francesco ha definito “la terza guerra mondiale”: una guerra “a pezzetti”, disseminata, policentrica, agita su molteplici scenari. Secondo i dati del Sipri, lo Stockholm International Peace Research Institute, il commercio di armi è cresciuto dell'8,4% nell'ultimo quinquennio (2012-16) rispetto a quello precedente, il volume più alto dalla fine della Guerra Fredda. Un trend che non conosce interruzioni dal 2004.

La bomba Medio Oriente
A quale geografia obbedisce questo aumento? Secondo la fotografia scattata dal Sipri, iI flussi di armi sono aumentati verso l'Asia, l'Oceania e il Medio Oriente, mentre sono diminuiti verso l'Europa, l'America e l'Africa. I cinque maggiori esportatori - Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Germania - concentrano da soli il 74% del volume totale delle esportazioni di armi. Nel quinquennio 2012-16 le importazioni di armi da parte degli Stati del Medio Oriente sono aumentate dell'86% e rappresentano il 29% delle importazioni mondiali. L'Arabia Saudita, secondo importatore mondiale di armi in questo periodo, ha registrato un aumento del 212%, il Qatar del 245%. Il Paese che in assoluto ha importato più armi è l'India, con il 13% delle importazioni totale. Le sue importazioni sono aumentate del 43% rispetto al quinquennio precedente. Sensibilmente diminuite, del 36%, le importazioni degli Stati europei. Fra i paesi africani spicca l'Algeria come il maggior importatore, con il 46% delle importazioni nella regione, seguita da Nigeria, Sudan ed Etiopia. Nelle Americhe il Messico ha aumentato le importazioni del 184%, mentre in Sudamerica sono diminuite del 18%.

Il ruolo degli Usa
Sul fronte opposto, quello dei Paesi esportatori, gli Usa restano al primo posto, con un aumento del 21% rispetto al quinquennio 2007-11. Circa la metà delle loro esportazioni è destinata al Medio Oriente. La Russia rappresenta il 23% delle esportazioni mondiali, destinate per il 70% a India, Vietnam, Cina e Algeria. La quota cinese di esportazioni è passata dal 3,8% al 6,2%, mentre Francia e Germania rappresentano rispettivamente il 6% e il 5,6%.

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