Originale: Counterpunch

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10 marzo 2017

 

Afghanistan: appunti da una terra fatta a pezzi

di Andre Vltchek

Traduzione di Maria Chiara Starace

 

Adesso è inverno in Afghanistan, alla fine del febbraio 2017. Di notte la temperatura arriva vicino allo zero. Le montagne che circondano la città sono coperte di neve.

Sembra molto più rigido di quanto è realmente.

 

Presto saranno 16 anni dall’invasione del paese a opera degli Stati Uniti e del Regno Unito, e 16 anni dalla Conferenza di Bonn, durante la quale Hamid Karzai era stato “scelto” per dirigere l’Amministrazione afghana ad interim.

Quasi tutte le persone con le quali ho parlato in Afghanistan sono d’accordo che le cose stanno rapidamente passando dal male al fondo.

Gli afgani, in patria e all’estero, sono profondamente pessimisti. Dato che ricevono considerevoli indennità e privilegi, almeno alcuni stranieri di base a Kabul sono molto più ottimisti, ma dimostrare ‘il pensiero positivo’ è quello per cui sono pagati.

Storicamente una delle più grandi culture esistenti sulla Terra, l’Afghanistan sta ora avvicinandosi al punto di rottura, avendo l’indice più basso dello Sviluppo Umano (2015, HDI – Human Development Index, compilato dall’UNDP, Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo),  di tutte le nazioni asiatiche e il 18° più basso in tutto il mondo (tutti i 17 paesi al di sotto di esso si trovano nell’Africa sub-sahariana).

Mentre, ufficialmente, il tasso di alfabetizzazione è circa del 60%, mi è stato detto da due preminenti pedagogisti a Kabul, che in realtà il tasso è ben al di sotto del 50%, mentre è ostinatamente bloccato sotto il 20% per le donne e le ragazze.

Le statistiche sono orribili, ma che cosa c’è dietro i numeri? Che cosa è stato fatto a questa antica e diversa  civiltà che una volta era orgogliosamente all’incrocio dei maggiori itinerari commerciali e influenzava culturalmente un grosso pezzo dell’Asia, e collegava l’Est e l’Ovest, il Nord e il Sud?

Quanto è profondo, quanto è permanente il danno?

Durante la mia visita, mi hanno offerto di viaggiare in un veicolo corazzato, antiproiettile, ma ho rifiutato. Il mio “cavallo” che sta invecchiando è diventata una Corolla malandata, il mio autista e traduttore è stato un coraggioso e dignitoso padre di famiglia dotato di un meraviglioso senso  dell’ umorismo. Anche se siamo diventati buoni amici, non gli ho mai domandato a quale gruppo etnico apparteneva. Non me lo ha detto. Non l’ho voluto sapere, e lui non ha considerato importante affrontare l’argomento. Tutti sanno che l’Afghanistan è profondamente diviso ‘lungo le sue linee etniche’. Dato che sono internazionalista, mi rifiuto di prestare attenzione a qualsiasi cosa si riferisca al ‘sangue’, dato che trovo innaturali e totalmente spiacevoli, tutte queste divisioni, in qualsiasi parte del mondo. Definitela una mia piccola ostinazione; sia il mio autista che io stavamo rifiutandoci ostinatamente di riconoscere delle divisioni etniche in Afghanistan, almeno in macchina, mentre percorrevamo questa terra meravigliosa ma ferita, stupenda ma infinitamente triste.

 

KABUL

Un giorno voi e il vostro autista che è oramai un vostro caro amico, state passando lentamente su un ponte. La macchina si ferma. Si scende a metà del ponte e si comincia a fotografare il fiume sottostante ‘intasato’ da immondizia che galleggia e copre le sue rive. Dei bambini chiedono l’elemosina e si nota subito che operano in un gruppo compatto , che rassomiglia quasi a una piccola unità militare. A Kabul e in così tanti luoghi della terra, c’è una rigida struttura per chiedere l’elemosina.

Dopo un po’ si continua a guidare, verso il ponte Softa, che è situato nel Distretto 6.

Dove ci si trova, tutto sembra essere sfasciato, ridotto a uno schifo infinito.

Mi avevano detto di venire in questo quartiere per vedere di persona una zona di guerra all’interno della città, per vedere ‘che cosa l’Occidente ha fatto al paese’. Qui non ci sono pallottole che volano e nessuna forte esplosione. In effetti non si sente quasi nulla. In realtà non c’è segno di guerra vicino al ponte Softa, si vede soltanto la Morte, la sua orribile faccia incancrenita, la sua falce che taglia tutto quello che è ancora in piedi intorno a lei, che taglia e taglia, lavorando al rallentatore.

Di nuovo, come così tante volte precedenti, si è spaventati. Si è avuta la stessa paura parecchie volte: ad Haiti, nella  Repubblica  Democratica del Congo, nel Kashmir, a Sri Lanka, a Timor Leste, in Iraq e in Perù, tanto per nominare soltanto pochi paesi. In quei luoghi, come qui a Kabul, non si è spaventati perché si potrebbe facilmente perdere la vita in qualsiasi momento, o perché la sicurezza potrebbe essere in pericolo. Ciò che sgomenta, ciò che non si può proprio sopportare, sono le immagini di disperazione, quelle ‘senza via d’uscita’, di assoluta mancanza di speranza che  uccidono,  che  fanno orrore; qualsiasi altra cosa può sempre essere risolta.

La gente che si vede lì attorno  può stare a malapena in piedi. Molti non ce la fanno. La maggior parte di loro sono ‘fatti’ e gironzolano vestiti di stracci, o stanno seduti in posizioni fetali oppure si muovono avanti e indietro senza meta, fissando il vuoto. Alcuni urinano davanti agli altri. Ci sono siringhe dappertutto.

Ci sono dei buchi, profondi e ampi, pieni di corpi umani inanimati.

Prima si gira intorno in macchina, facendo fotografie attraverso il vetro rotto, poi si abbassa il finestrino, e alla fine si scende e si comincia a lavorare, totalmente esposti. Non si ha idea di che cosa possa accadere nei prossimi secondi. Qualcuno comincia a strillare verso di voi, altri tirano sassi, ma sono troppo deboli e le pietre colpiscono solo le spalle e le gambe, delicatamente, senza fare alcun male.

Poi una bomba esplode, non lontano da dove ci si trova. C’è un’esplosione nel 6° distretto, proprio di fronte a una stazione di polizia. Non si riesce a vederla, ma si può chiaramente sentire lo scoppio. E’ un botto attutito e tuttavia potente. Si guarda il telefonino.

E’ il 1° marzo, 2017, a Kabul. In seguito si saprà che parecchie persone sono morte proprio a poche centinaia di metri da dove stavo lavorando, mentre vari altri sono morti nel 12° distretto, a distanza di pochi chilometri.

Il fumo comincia ad alzarsi verso il cielo. Le sirene gemono e varie ambulanze sfrecciano verso il luogo, Poi innumerevoli Humvee (sigla di: high mobility multipurpose wheeled vehicle, n.d.t.), cioè veicoli  a ruote multiuso ad alta mobilità,  cominciano a sparare uno dopo l’altro nella stessa direzione, seguiti da veicoli corazzati più pesanti e meno maneggevoli. Si ‘cattura’ tutto questo, lentamente, fotografando la scena e facendo un’istantanea  da una certa distanza al Palazzo Darul Aman, monumentale ma ancora semidistrutto.

Che cosa volete farci?

Alti muri di cemento stanno sfregiando e frammentando la città. A Kabul, quasi ogni casa degna di essere protetta,  ora è  recintata. Alcuni divisori e barriere sono semplicemente enormi, quasi irreali. Ci sono muri che proteggono le ambasciate straniere e gli edifici governativi, i palazzi, le basi militari, le stazioni di polizia e le banche, e anche i complessi delle Nazioni Unite, anche la maggior parte delle scuole private e degli alberghi. L’aeroporto internazionale Hamid Karzai è circondato da perimetri che potrebbero mettere in imbarazzo la maggior parte delle linee della Guerra Fredda: dall’area di parcheggio si deve percorrere a piedi quasi un chilometro per arrivare all’entrata del terminal internazionale, con il bagaglio e attraverso gli innumerevoli controlli di sicurezza.

Naturalmente le istituzioni e le organizzazioni occidentali  hanno le recinzioni più notevoli e così anche l’esercito afgano e le basi militari e gli uffici governativi.

Enormi droni-dirigibili  per la sorveglianza  stanno levitando al di sopra della città.

Potrebbe essere considerato tutto come qualcosa di totalmente grottesco, anche ridicolo, ma nessuno si diverte. E’ tutto molto serio, davvero serio, in questo caso.

L’Afghanistan è stato gradualmente sopraffatto da qualcosa di assolutamente estraneo: dall’apparato di sicurezza di stile occidentale. Diecine di migliaia di ‘esperti’ nord-americani ed europei, pagati profumatamente si sono impegnati moltissimo,  realizzando il loro ‘sogno bagnato’ segreto: recintare qualsiasi cosa in vista, monitorare tutti quanti i movimenti che si  verificano nella capitale, costruire barriere sempre più alte, installando contemporaneamente le più recenti telecamere ad alta tecnologia quasi a ogni incrocio, e al di sopra di ogni cancello.

Non lontano dall’Ambasciata degli Stati Uniti (o, più precisamente, non lontano dalla recinzione tipo Grande Muraglia cinese che la circonda) ho notato un complesso di edifici che mi era familiare e che mi ricordava quelli che di solito venivano costruiti in tutti gli angoli dell’Europa Orientale e a Cuba. Ho chiesto al mio amico di entrate con la macchina in uno  di quei complessi.

Ecco come sono entrato a “Macroyan”. Abbiamo spento il motore e tutto quello che era attorno a noi è diventato improvvisamente calmo, quasi dormiente. Il tempo si era fermato. In tutta la zona si poteva percepire  una specie di leggero decadimento, ma, guardando più attentamente, quei vecchi condomini apparivano ancora decenti e solidi, con notevoli spazi pubblici tra l’uno e l’altro. Ho avuto la sensazione che mi era permesso di poter dare un’occhiata rara a un vecchio Afghanistan socialista.

Mi sono fermato tra i due ingressi del Blocco 21: il n. 2 e il n. 3. Ho guardato in alto verso il 4° piano. Chi ci ive adesso? Chi ci viveva prima, circa 25, anche 30 anni fa?

Una sedia da ufficio distrutta si trovava, senza scopo, in mezzo a un parcheggio, e un uomo anziano e handicappato stava allontanandosi dal blocco, muovendosi tristemente a carponi. C’era una scuola costruita dai Sovietici proprio di fianco al Blocco 2. Era nota come scuola primaria Dosti e mi hanno detto che, durante la guerra era stata bombardata un paio di volte e che un sacco di bambini erano morti al suo interno. Ora la scuola è privata e ha un nome nuovo – ‘Alfath’, ed è una scuola superiore.

A parte pochi fili spinati e recinzioni sfilacciate e  arrugginite, tutto ha un aspetto decente e quasi curato. Questa è la zona dove preferiscono ancora vivere molti membri della classe media di Kabul, che va diminuendo. Gli edifici abitativi  di Macroyan sono rassicuranti: irradiano sicurezza e permanenza, anche se sono circondati da un universo instabile e spaventoso.

All’improvviso, ho immaginato un ragazzo e una ragazza che forse un tempo vivevano qui. Tanti anni fa. Come fanno i bambini in tutte le parti del mondo, a quella età, stavano appena cominciando lentamente a scoprire la vita, a formulare i loro sogni e le loro  aspettative. In quei giorni il nuovo quartiere pieno di alberi,   sarà stato come una promessa di un futuro più luminoso, di un paese molto migliore.

Poi, improvvisamente, punto e basta.

La guerra. Una fine improvvisa di tutto quello che il futuro prometteva. Il crollo dell’ottimismo, o dell’entusiasmo, o della fiducia. Restarono soltanto morte e distruzione, e sogni infranti. Per coloro che sono stati almeno in qualche modo, fortunati: un’amarezza e poi una fuga precipitosa, invece della massima infelicità e della morte. Punto. Azzeramento totale. La vita, però, non si ferma mai, va avanti, è sempre così. Le cose in qualche modo si ricomposero, non in maniera idilliaca,  ma si ricomposero.

Continuai per molto tempo a fissare il Blocco 21. I ricordi continuavano ad arrivare, come se io stesso avessi vissuto lì, molto anni fa, quando ero un bambino. Ho a malapena notato che stava diventando molto freddo. Ho cominciato a tremare. Non volevo andarmene, ma dovevo farlo. Un succo fresco di melograno a una bancarella sulla strada, mi ha riportato alla realtà, mi ha svegliato, ma non è riuscito a riscaldarmi.

 

GRANDE STORIA, CULTURA CHE CAMBIA, OCCUPAZIONE E PAURA CONTINUA

Un famoso intellettuale afgano, il Dottor Omara Khan Masoudi, che è stato, tra molte altre cose, l’ex direttore del Museo Nazionale, è ora amareggiato per i cambiamenti che invadono la cultura del suo paese.

“In passato, abbiamo  avuto anche  molti gruppi etnici che vivevano in questo paese, ma di solito coesistevano in armonia. Poi la nostra cultura è stata influenzata da conflitti e violenza.”

“Prima della guerra, era la cultura che di solito ci rappresentava nel mondo. Durante e dopo la guerra, le nostre culture venivano, però, usate per giustificare il conflitto.”

Il Dottor Masoud mi ha detto che, secondo lui, è sbagliato che una cultura cada nelle mani di politici che creano divisioni. “Se la cultura è politicizzata, perde la sua essenza,” ha affermato.

Gli ho domandato se questo si applica anche all’America Latina, all’ex Unione Sovietica e alla Cina, dove (almeno in grande misura) la ‘cultura politicizzata’ ha svolto un ruolo estremamente importante, determinando il corso del suo sviluppo. Ha sorriso, replicando:

“A essere precisi, politicizzare le culture non è sempre una cosa così brutta… Quando lo si fa per ottenere progresso o uguaglianza sociale, non ho nulla in  contrario.  Mi indigno, però, quando lo fanno le persone come alcuni capi religiosi sciiti, sunniti, o anche degli estremisti…La cultura è molto ampia, e le religioni sono soltanto una parte di questa, ma in Afghanistan i leader religiosi hanno usato la cultura per i loro interessi meschini.

In un caffè, sperduto da qualche parte nella desolazione di un complesso internazionale e delle Nazioni Unite, che si chiama ‘Il villaggio verde’, il mio amico e Capo dell’Unità dell’UNESCO per la cultura, Signor Masanori Nagaoka, mi ha spiegato:

“L’Afghanistan o Vecchia Ariana, come molti antichi autori greci e romani chiamavano la regione nell’antichità, può essere riconosciuta come la culla multiculturale dell’Asia Centrale, che collega l’Est e l’Ovest tramite canali commerciali che trasmettevano anche idee, concetti e lingue come prodotto secondario del neonato commercio internazionale. La conseguenza è che l’Afghanistan attuale è una società multietnica, multilingue, con una storia complessa che risale a molti millenni fa. Le numerose civiltà sono testimoniate nelle documentazioni archeologiche, sia locali che straniere…”

Nagaoka è, però ben consapevole delle complessità affrontate dal paese e della cultura fatta a pezzi dai conflitti letali dei decenni e secoli passati.

“Purtroppo l’Afghanistan è anche una nazione frammentata da una storia di conflitti prolungati, esacerbati dall’isolamento geografico per molte comunità e da un limitato e inadeguato accesso alle infrastrutture e alle risorse, sia in campo geografico che demografico. Come punto di partenza teorico, il processo di riabilitazione in corso in Afghanistan, deve affrontare questi problemi, se la nazione deve unificarsi in base a un obiettivo comune, promuovendo una società libera da conflitti e dove la diversità etnica sia riconosciuta per i suoi benefici sociali, culturali ed economici, piuttosto che essere considerata, come spesso accade, un ostacolo alla realizzazione di particolari obiettivi dello sviluppo. Parte della soluzione per questo problema sta nella campagna di una pubblica discussione positiva per promuovere una comprensione inter-culturale e per aumentare la comprensione del potenziale che questo discorso possiede di contribuire a obiettivi più ampi di riavvicinamento, di consolidamento della pace e di sviluppo economico in Afghanistan.”

Sono andato in areo Herat dove ho visto capolavori eccezionali di architettura: dalla meravigliosa cittadella restaurata (preziosa quanto le cittadelle di Aleppo e di Erbil), alla Moschea del Venerdì e gli straordinari, unici minareti che si innalzano orgogliosamente verso il cielo.

Come sembravano familiari tutti quei tesori architettonici! In varie occasioni mi sono rivolto a Nazir, il mio amico a Herat, che era sempre entusiasta di condividere l’emozionante storia della sua regione: “Guarda! Questo potrebbe trovarsi a Delhi… e questo a Samarcanda!”

Di sicuro, il sito più visitato in India, il Qutub Minar, situato appena fuori Nuova Delhi, è forse il maggior simbolo dell’architettura afgana  indo-islamica, mentre sia Herat  che Samarcanda erano collegate dalla Via della Seta e nel corso della storia hanno continuato a influenzarsi reciprocamente.

In Afghanistan, la storia, l’occupazione e il conflitto in corso sembrano essere strettamente intrecciati.

Mentre lavoravo lì, la Cittadella di Herat era letteralmente invasa  delle truppe italiane. Mi hanno detto che un qualche ufficiale della NATO di alto rango stava visitando il sito, e, senza vergogna, un commando italiano armato fino ai denti stava vagando lì attorno per rendere sicuro ogni angolo del vasto cortile. E’ come se gli afgani avessero perduto il controllo del loro paese!

Dopo un più attento esame, la scuola coranica (madrassa) di Hussein Baiqara, risulta ancora essere, in realtà, un campo minato. Tra i quattro splendidi minareti, una squadra di sminamento del ramo locale della Fondazione “Halo Trust”, stava cercando manualmente munizioni inesplose. Mi hanno permesso di entrare, ma soltanto come corrispondente di guerra e a mio rischio, certamente non come ‘turista’.

“In questo sito abbiamo già trovato due mine e 10 munizioni inesplose”, mi è stato detto da uno degli esperti della Halo Trust. “Ora tutta questa zona è vietata al pubblico. Non molto tempo fa, qui un bambino è stato ferito gravemente: ha perduto una gamba.”

Nulla è tranquillo in Afghanistan, neanche i siti storici antichi.

Non molto viene messo in dubbio in questo caso.

In generale vengono incoraggiati discorsi positivi sulla storia e la cultura antica, ma discutere dei drammatici cambiamenti nella cultura afgana moderna, cioè quelli che si sono verificati come conseguenza dell’invasione di Stati Uniti e Regno Unito e dell’attuale ininterrotta occupazione del paese a opera della NATO, è quasi del tutto proibito. Di fatto, perfino la stessa parola ‘occupazione’ si può a malapena sentire. Invece, termini come ‘protezione’, ‘difesa’, e ‘aiuti internazionali’ sono state impiantate in profondità nella psiche della maggior parte degli Afgani.

La cultura che è stata famosa per lunghi secoli per la sua passione per la libertà e l’indipendenza, sembra distrutta. Mentre gli Afgani si erano opposti eroicamente a tutte le passate invasioni britanniche, mentre alcuni di loro hanno combattuto contro l’invasione sovietica, attualmente non esiste alcuna opposizione organizzata e unita (nazionale, non religiosa) contro l’occupazione del paese a opera dell’Occidente.

Ho incontrato il professor Jawid Amin, dell’Accademia di Scienze Sociali dell’Afghanistan, in una piccola guardiola di fronte al Museo di Arte Moderna di Kabul.

Gli domandato se c’è qualche tipo di arte o qualche gruppo di intellettuali apertamente critici nei riguardi degli Stati Uniti e dell’occupazione. Ha risposto con sincerità:

“Qui non abbiamo nessuno che sia apertamente critico degli Stati Uniti o dell’Occidente, semplicemente perché le critiche sono proibite dal governo. Io personalmente non amo gli americani, ma non posso dire di più…Anche io lavoro per il governo. Mio fratello e mia sorella vivono negli Stati Uniti. Circa le arti critiche: nulla potrebbe essere messo in mostra qui senza il permesso del governo, e, fin dai tempi di Karzai, il governo è controllato dall’Occidente…”

Un preminente intellettuale afgano, Omaid Sharifi, mi ha spiegato al telefono: “Nelle province si possono ancora vedere dei dipinti che raffigurano l’uccisione di civili compiuta da droni americani…ma non a Kabul.”

Sto cercando di lavorare il più in fretta possibile, incontrando persone che mi aiutano a fare luce sulla situazione. Alla fine comincia a formarsi un quadro disastroso.

Ho incontrato una reporter giapponese che ha vissuto in Afghanistan per quasi un quarto di secolo. La sua valutazione della situazione era pessimista in grande misura:

“Gli Afgani avevano una limitatissima scelta… E’ vero al 100% che dietro al governo di Karzai c’erano gli Stati Uniti…gli Afgani non volevano accettare l’intervento straniero, ma presto hanno imparato come il denaro svolge un ruolo importante. Tutta la cultura afgana ora sta cambiando, perfino alcuni suoi elementi essenziali, come l’ospitalità: le persone non vogliono spendere dei soldi per questa, o non ne hanno da poter mettere da parte…”

Ho domandato al Dr. Masoudi perché la cultura afgana non ha accettato i Sovietici e i loro ideali ugualitari, orientati al sociale, mentre sembrano tollerare l’invasione occidentale che sta diffondendo disuguaglianza, disperazione e subordinazione. Mi ha risposto appassionatamente: “Il più grosso errore che ha fatto qui l’Unione Sovietica è stato di attaccare apertamente la religione. Se prima si fossero attenuti ai pari diritti e poi fossero lentamente andati verso la considerazione delle contraddizioni della religione, forse avrebbe potuto funzionare…Invece hanno cominciato a dare la colpa alla religione per la nostra arretratezza,  e, di fatto, per tutto. O, per lo meno, questo è il modo in cui è stato interpretato dalla coalizione dei loro nemici, e, naturalmente, dall’Occidente.

“Perché l’invasione occidentale è ‘riuscita’? Guardi il regime di Karzai…Durante il suo governo, gli Stati Uniti hanno convinto la gente che l’intervento dell’Occidente era ‘positivo’, ‘rispettoso della loro religione e delle loro culture’. Continuavano a ripetere ‘in base a questa e a quella convenzione dell’ONU’, e, di nuovo, ‘come deciso dall’ONU’…Hanno usato la NATO che è un enorme gruppo di nazioni, come ombrello. C’era un protocollo’ ‘brillantemente efficace’ che hanno sviluppato…Secondo loro, non hanno fatto nulla unilateralmente, ma sempre con il ‘consenso internazionale’ e allo scopo di ‘aiutare gli Afgani.’ D’altra parte, l’Unione Sovietica non ha mai avuto la minima occasione di spiegarsi. E’ stata attaccata immediatamente, e su tutti i fronti.

“Opposizione all’occupazione occidentale? Arte anti-occidentale?” Un esperto culturale russo a Kabul è stato chiaramente sorpreso dalla mia domanda.

“Prima di tutto, i talebani hanno distrutto le più artistiche tradizioni di questo paese. Inoltre, la situazione economica e sociale in questo paese è così disperata che quasi nessuno ha il tempo di pensare a un qualche contesto più ampio. Più del 60% degli afgani sono senza lavoro. Ci si dovrebbe ricordare anche di un’altra cosa: gli Afgani sono molto orgogliosi e molto amanti della libertà, come ha dimostrato la storia del paese, ma sono anche estremamente pazienti. Vada a visitare il Cimitero Britannico. E’ stato costruito nel 1879 per accogliere i morti della seconda guerra anglo-afgana, ma, malgrado tutto quello che il Regno Unito ha fatto a questo paese, e malgrado tutte le recenti guerre e i conflitti, il cimitero non è stato mai attaccato, mai danneggiato.”E’ vero. Non ho mai sentito nessuno parlare di questo argomento. Tutti gli orribili crimini commessi sul territorio dell’Afghanistan, sembrano essere stati dimenticati, almeno per ora.

Ma non è tutto: nessuno qui sembra avere un gran desiderio di ricordare quegli orrori dello scorso decennio, scatenati dall’imperialismo occidentale. Neanche una volta ho notato una discussione che affrontava l’argomento principale della storia afgana moderna: in che modo l’Occidente è riuscito a indurre con l’inganno i Sovietici ad invadere l’Afghanistan nel 1979 e in che modo ha creato e poi armato il più spregevole mucchio di fanatici religiosi:i Mujahedeen, e in che modo, successivamente, entrambi i paesi – Afghanistan e Unione Sovietica – sono stati ampiamente distrutti.

Tutto, naturalmente, è stato fatto con “grande rispetto” per la nazione afgana, per la sua cultura e le sue tradizioni e anche  per la sua religione.

Mi piacerebbe essere un testimone invisibile di una lezione di storia moderna all’Università Americana dell’Afghanistan, un’istituzione ‘rinomata’ che ora rigurgita letteralmente di migliaia di collaboratori che stanno producendo una nuova razza di obbedienti ‘élite’ filo-occidentali.

Mentre passiamo davanti all’ Ospedale Jamhuriat (Ospedale della Repubblica) che ha  un nuovo edificio di 10 piani e che può ospitare 350 pazienti, costruito dalla Cina nel 2004, il mio autista, Mr. Tahir, sospira: “Questo è stato realmente un grande regalo da parte della Cina per noi… i cinesi lavorano davvero duramente, non è vero?”

“Hanno un sacco di zelo e di entusiasmo”, ho detto con prudenza. “Il fervore socialista, sai. Credono sinceramente nella costruzione, nel miglioramento del loro paese e del mondo. ..”

“Devono amare il loro paese…”

“Sì.”

“L’Afghanistan è povero”; la faccia di Mr. Tahir è diventata improvvisamente triste.

La nostra gente non ama più il proprio paese. Non lavorano più per migliorarlo. “Lavorano soltanto per se stessi, per le loro famiglie…”

“Prima era diverso? Sai…” Ho fatto un gesto vago con la mia mano. “Prima di tutto questo…”

“Naturalmente era molto diverso,” ha risposto, facendo di nuovo un largo sorriso.

 

NON E’ RIMASTO NULLA DI SOCIALE, NON SI VUOLE NULLA DI SOCIALISTA

Ho fermato varie persone che stavano camminando sulla strada, in varie parti di Kabul. Volevo comprendere delle cose essenziali: era rimasto qualcosa di sociale a Kabul? La ‘liberazione’ occidentale ha portato almeno qualche progresso, dello sviluppo sociale e migliori livelli di vita?

La maggior parte delle risposte sono state davvero molto pessimiste. Soltanto le persone che lavoravano o che  facevano un secondo lavoro in nero  per le forze armate occidentali, per le ambasciate, per le ONG o per altri ‘ consulenti internazionali’ erano, in qualche misura, ottimisti.

Mi hanno spiegato che quasi tutti nelle campagne e nelle città delle province erano senza lavoro. La disoccupazione tra i laureati era di oltre l’80%.

A Herat, una città di quasi mezzo milione di persone, una lunga fila sconfortante si snodava davanti all’ambasciata iraniana. Mi hanno detto che diecine di migliaia di persone sono già emigrate dall’altra parte del confine. Adesso, agli afgani che stavano cercando di andare a vistare i loro parenti che vivono in Iran, è stato detto di lasciare un deposito di 300 euro, nel caso che decidano di non tornare.

Ho chiesto che cosa si produce a Herat e mi hanno risposto, senza nessuna ironia, “per lo più soltanto detersivi in polvere e biscotti”. Il turismo dall’Iran era soltanto di 150 persone all’anno! La zona tra la città e il confine era pericolosa e ci sono frequenti rapimenti.

Nella maggior parte delle città di provincia, una normale famiglia deve andare avanti con 2.300-2500 afgani al mese, che corrispondono a  non molto di più di 30 dollari americani.

Il governo fornisce acqua corrente soprattutto per progetti di edilizia del governo. Le persone che vivono altrove devono scavarsi da soli i loro pozzi.

L’elettricità è costosa e ora si ipotizza che una famiglia media a Kabul paghi circa 35 dollari americani al mese. Anche nella capitale, molte persone devono tirare avanti senza elettricità. Gli ‘investitori’ indiani sono in partenariato con il governo. Le forniture elettriche e anche l’acqua sono percepite come iniziative imprenditoriali e non come servizi sociali essenziali.

Mentre in passato poteva contare su trasporti pubblici soddisfacenti, ora Kabul è costretta a dipendere da veicoli privati e da questi pochi ‘bus di città’ che sono a ‘scopo di profitto’ e che sono di proprietà privata e fatti funzionare da privati.

Ci sono scuole governative in Afghanistan che, in teoria, sono gratuite, ma non, però,  i libri, le matite e le divise e altre cose fondamentali.

Forse la più notevole struttura moderna di Kabul è, in realtà, l’edificio di 10 piani dove c’è l’Ospedale Jamhuriat, un regalo della Repubblica Popolare della Cina, non dell’Occidente.

Ci si chiede: dove sta davvero andando quella leggendaria ‘assistenza’ degli Stati  Uniti e dell’Europa? Forse ai milioni di tonnellate di cemento usate per la costruzione delle massicce recinzioni? Forse per l’acquisto fatti con il denaro degli sponsor, di telecamere di alta tecnologia e di sistemi di sorveglianza, e anche per la “bella vita” di migliaia di ‘contractor’ e di ‘esperti della sicurezza’ occidentali?

Ho parlato a più di centinaia di afgani. Quasi nessuno era pronto a citare il socialismo, come se questa meravigliosa parola fosse scomparsa, fosse stata cancellata dal lessico locale.

“In realtà si ricordano con molto affetto del socialismo,” mi ha detto una volta il mio conoscente giapponese di base a Kabul. “Tuttavia, non si viene incoraggiati a  parlare di questo argomento. Potrebbe causare problemi di tutti i tipi.”

 

LA TEMPORANEA VITTORIA OCCIDENTALE

Mentre ero a Kabul uno degli esperti locali che lavora per un’organizzazione internazionale, mi ha detto:

“IL NESP – Piano Strategico Nazionale per l’Istruzione) è stato appena elaborato… Il finanziamento è arrivato dall’Occidente. Molti incontri si sono tenuti direttamente all’ambasciata degli Stati Uniti e negli uffici della Banca Mondiale. Il Ministero afgano dell’Educazione ha avuto scarsa voce in capitolo circa il curriculum, che è stato fondamentalmente imposto dai paesi occidentali…”

Non posso citare la fonte di questa informazione, dato che questa persona probabilmente perderebbe il suo incarico per avere espresso queste opinioni.

In seguito ha chiarito ulteriormente:

“Le decisioni politiche riguardanti l’educazione vengono proposte da gruppi di paesi donatori che sono per lo più paesi occidentali. Il Ministero dell’Educazione, che ha possibilità limitate, ha un ruolo minore nell’elaborazione della politica del NESP III (2017-2021). Invece di costruire le competenze del governo, i paesi donatori assumono il ruolo principale nel cambiamento del sistema educativo, e questo non assicura assolutamente un’educazione sostenibile per l’Afghanistan.”

Come in tutti gli stati clienti dell’Occidente, l’educazione in Afghanistan è manipolata e mirata a servire gli interessi dell’Occidente. Ci si aspetta che produca masse obbedienti e acritiche. Invece di patrioti determinati e produttivi, sta rigurgitando maggiordomi del regime il quale a sua volta serve prevalentemente gli interessi  stranieri.

Quasi tutta l’informazione scorre attraverso i canali che sono, almeno in qualche misura, influenzati dall’estero: media sociali, reti televisive e anche la stampa.

Il leggendario spirito afgano di resistenza e il coraggio sono stati distrutti (speriamo soltanto temporaneamente) brutalmente, con la supervisione di indottrinatori e propagandisti stranieri altamente professionali.

Coloro che sono disposti a collaborare con le forze di occupazione, improvvisamente, non lo nascondono neanche più, e mostrano orgogliosamente la loro condizione come se fosse un emblema, non una vergogna. Molti sono ora felici di essere “associati” con l’Occidente e con le sue istituzioni.

Di fatto l’occupazione non viene chiamata neanche più occupazione, almeno dalle élite che sono ben ricompensati dal sistema per le loro capriole e piroette linguistiche e intellettuali.

E gli afgani continuano ad andarsene.

L’Afghanistan sta perdendo i suoi figli e figlie più  dotati, ogni giorno, ogni mese, in maniera irreversibile.

La Signora Yukiko Matsuyoshi, ex diplomatica giapponese, e attualmente esperta di educazione all’ONU, è preoccupata delle attuali tendenze in Afghanistan, un paese dove ha trascorso parecchi anni:

“Ora le classi sociali sono state ricreate dopo la caduta dei talebani, ma il paese sembra non avere nessuna ideologia. Le persone seguono soltanto le tendenze che vengono gettate sulla loro strada. C’è corruzione, c’è l’enorme business dei papaveri e ci sono i palazzi. E nelle campagne c’è miseria, quasi nessun accesso all’informazione. Gli afgani stanno lasciando il loro paese. Chiunque può, se ne va: brave persone, persone del governo… sembra che tutti cerchino di scappare.”

Improvvisamente, l’Occidente viene percepito come una qualche Terra Promessa. Coloro che riescono ad arrivarci, si vantano della loro nuova ‘patria’, inviando immagini colorate tramite i media sociali: Disneyland, Hollywood, i castelli tedeschi…

Ho visto l’altra faccia della medaglia, in terribili campi profughi in Grecia, nei campo francesi a Calais; la gente che affoga tentando di attraversare il mare dalla Turchia all’Unione Europea.

Non c’è più discussione sul fatto che l’Afghanistan debba essere capitalista o socialista. Il dibattito si è fermato. La decisione è stata presa, da qualche altra parte, ovviamente.

Le facce dei leader dell’Alleanza del Nord ‘decorano’ (o alcuni direbbero ‘sfregiano’) tutte le strade più importanti che ho percorso. Ahmad Shah Massoud è diventato un eroe nazionale durante il regime di Karzai.

Ho viaggiato per più di 100 km nord, per vedere la tomba di Massoud, o pollice, o qualunque cosa realmente sia quella mostruosità che hanno eretto al di sopra della splendida Valle del Panshir. Folle di persone vanno lì nei fine settimana, alcuni fin da Kabul, e ci sono anche coloro che  pregano il ‘leader’.

L’ex combattente “anti-sovietico” e “anti-comunista” è certamente un ‘eroe’ perfetto, la cui memoria è curata dal regime filo-occidentale.

Viaggiano in macchina attraverso la Valle del Panshir, ho visto parecchi carri armati sovietici e veicoli corazzati in rovina ai lati della strada. Ho visto anche un villaggio distrutto, un ricordo inquietante della guerra. Si chiama Dashtak. Le case di fango somigliano a un  cimitero, a un orrendo monumento.

Ho fatto delle fotografie e le ho mandate a Kabul, a dei miei amici perché identifichino i luoghi. Voglio sapere, sentivo di dover sapere che aveva raso al suolo questo villaggio sulla riva del fiume, circondato da montagne così stupende.

La risposta arrivò in pochi minuti: “Credo che sia stato nel 1984, a opera dell’Unione Sovietica”. Seguiva un link a un libro pubblicato in Occidente che citava un ex consigliere ucraino o sovietico di un comandante afgano  di un battaglione. Il titolo del libro era : “The Bear Went Over the Mountain” (L’orso andò sulla montagna).

La citazione non sembrava molto convincente. “Torniamo indietro”, hi chiesto al mio autista e traduttore. “Parliamo con le persone che vivono sull’altra parte  del fiume.”

Abbiamo trovato tre abitanti, in tre diverse parti del villaggio; tre persone abbastanza anziane da ricordare quello che è accaduto qui circa 30 anni fa. Tutte e tre le testimonianze coincidevano: le forze di Massoud avevano portato rifugiati di altre parti della valle. Prima dell’inizio della battaglia, tutti se ne sono andati. Durante il combattimento le case di fango sono state distrutte, ma nessun civile vi è rimasto ucciso. Ci sono sempre molte interpretazioni diverse degli eventi storici. Tuttavia, le analisi della storia afgana moderna disseminate dall’Occidente e dal regime afgano, tra gli afgani, sono sospettosamente unanimi e terribilmente unilaterali. Sto decisamente programmando di riesaminare questo punto durante il mio prossimo viaggio in Afghanistan. Lo considero essenziale. Il futuro dell’Afghanistan dipende certamente dalla comprensione del suo passato.

Ci sono enormi droni-dirigibili, roba di orribile aspetto, usata per la sorveglianza in volo, che si librano al di sopra della base dell’aviazione  militare americana vicino a Bagram. Gli stessi droni si possono vedere “levitare” sopra Kabul, ma nella zona di Bagram, con l’incredibile sfondo delle montagne, sembrano particolarmente spaventosi.

La base aerea è enorme. Sembra anche più grande della base di Incerlik, vicino ad Adana, in Turchia. E’ un capolavoro assoluto di volgarità militare, con torri di guardia dovunque, con fili spinato, vari strati di muri di cemento, telecamere di sorveglianza e luci potenti. Se questa non è un’occupazione, allora che cos’è realmente?

Anche questa volta il mio autista è totalmente calmo. Voglio fotografare questa mostruosità, e mi fa girare, in modo che posso trovare un posto realmente buono. ‘Calcolo la luce’, cerco l’angolo giusto, così, durante il tramonto quelli che ci potrebbero osservare dall’interno del ‘castello’, sarebbero  “accecati” e potrei ottenere almeno qualche immagine decente.

Mi rendo conto del fatto che in Afghanistan l’Impero spesso uccide qualsiasi cosa che si muove, se c’è il minimo sospetto o senza alcun sospetto, dato che per loro la vita umana della gente locale non conta quasi nulla.

Dopo che il sole cala, comincio a lavorare in fretta.

In qualche modo sento che la mia visita in Afghanistan sarebbe incompleta, senza avere almeno alcune immagini della base di Bagram – uno dei simboli più espressivi dell’occupazione.

E quindi questo è ciò che è diventato l’Afghanistan sotto gli stivali occidentali ‘liberatori’! Fili spinati, aerei da caccia stranieri, muri di cemento dappertutto, battaglie con gli elementi religiosi fondamentalisti (inventati e prodotti dall’Occidente), un selvaggio capitalismo grottesco, collaborazione ignorante svergognata, e armi, armi, armi e anche miseri in quasi tutti gli angoli, e una delle più basse aspettative di vita e più bassi standard di vita che esistono sulla Terra! E, naturalmente, gente che scappa, che si lascia dietro questo bel paese, un paese che improvvisamente è non amato, umiliato, abbandonato da così tante persone!

Tutto questo sta accadendo soltanto, grosso modo, quattro decenni dopo i tentativi eroici di creare dei grandi progetti sociali di case popolari, dopo l’attuazione di una rete ben funzionante di trasporti pubblici, dell’istruzione pubblica e dell’assistenza sanitaria e anche dopo un tentativo di introdurre il laicismo, costruendo, contemporaneamente, una dignitosa società ugualitaria.

La vittoria gloriosa dell’imperialismo occidentale su una delle più vecchie e grandi culture, sembra essere completa. I Britannici hanno tentato, in varie occasioni; hanno ucciso e torturato, ma sono stati sconfitti. Non  hanno mai perdonato. Hanno aspettato per decenni, e sono tornati con la loro progenie vigorosa e aggressiva. Ed eccoli qui, tutto l’Afghanistan appare esausto e sconfitto. E’ malamente ferito ed è stato trascinato attraverso una sporcizia inimmaginabile.

Non credo però che sia schiacciato dall’Occidente o dai fondamentalisti religiosi o da questi due loro alleati storici.

Nel suo profondo, l’Afghanistan è più giudizioso. Ha già sperimentato molti anni di speranza, ne conosce il sapore. Durante i lunghi secoli e millenni della sua esistenza, è sopravvissuto a vari momenti spaventosi, si  è sempre rimesso in piedi, invitto e orgoglioso. Sono sicuro che si risolleverà di nuovo.

Andando in aereo, in macchina o camminando attraverso le sue magnifiche montagne, ho spesso pensato che l’Afghanistan è come un organismo vivente, che mi stava facendo l’occhiolino e che mi faceva sapere che è vivo, che vede tutto quello che succede e che non è affatto inutile lottare per il suo futuro.

Osservavo gli snodi  dei contatti elettrici che alcuni decenni fa di solito reggevano  quei fili aerei usati dalla rete dei leggendari filobus di Kabul.

“Quei meravigliosi veicoli arrivavano dall’ex Cecoslovacchia”, mi ha detto un impiegato che avevo fermato nel centro della città. “Erano belli, e sapete che li guidava di solito? Delle ragazze: donne ottimiste che per qualche motivo erano sempre di buon umore.”

A quanto pare, Kabul aveva tre linee di filobus, una delle quali aveva inizio (o fine) al ‘Cinema Pamir’. Di che colore erano i filobus di Kabul? Ho visto delle fotografie ma quelle che ho potuto trovare sono in bianco e nero. Quando ero bambino, sono cresciuto in Cecoslovacchia e i nostri filobus erano rossi. Quelli di Leningrado, la mia città natale, erano blu e verdi, e alcuni anche rossi. Quando acceleravano, sembrava che cantassero una canzone ingenua, che gemessero, lamentandosi ironicamente della loro vita faticosa.

Immaginavo una donna energica, una professionista che saliva su questi filobus. Forse era ansiosa di andare a vedere uno di quei grandiosi vecchi film sovietici al Cinema Pamir, forse “The Dawns Here are Quiet” – Le albe qui sono tranquille (film di guerra, russo, n.d.t.)) o di andare al lavoro o di visitare le diverse parti della città. Si sarebbe rannicchiata su un comodo sedile nel veicolo elettrico. Stava diventando buio, ma la città era sicura. Una donna dietro il volante stava realmente sorridendo. C’erano bandiere che sventolavano in tutta la città.  C’era speranza. C’era un futuro. C’era un paese da costruire e amare.

Avevo sospettato che i filobus di Kabul in realtà fossero azzurri. Non ho alcuna idea del motivo. Era soltanto una mia intuizione.

Improvvisamente ho sentito un forte colpo, e poi lo stridio dei freni.

“Tira su il finestrino”! ha gridato il mio autista. Stavamo entrando in un quartiere miserrimo (slum) abitato dagli sfollati. Abbiamo lasciato la strada. Polvere dappertutto. Miseria assoluta. La città di Bagrani, ora si chiama slum di Bagrani, appena a pochi chilometri a est di Kabul, sull’autostrada per Jalalabad.

Ho afferrato il pesante corpo metallico della mia Nikon professionale.

Il mio sogno dell’Afghanistan degli anni ’70, un pese gentile ed entusiasta, è terminato bruscamente. Ora intorno a me c’erano bambini che soffrono di malnutrizione. Ho sentito voci eccitate, accusatorie di uomini e donne che erano stati costretti a venire da tutti gli angoli dell’Afghanistan. Percorrevamo una strada accidentata, diretti verso numerose strutture di fango semi crollate e tende sporche.

“Siamo scappati dai combattimenti a Shinwar, nella Provincia di Helmand, dai dintorni di Jalalabad  e da Kandahar,” mi gridavano parecchi sfollati che ora vivono a Bagrani.

“Abbiamo 1000 famiglie dell’Helmand e più di 1000 famiglie di Kandahar che vivono qui. Abbiamo perduto le nostre case nei nostri villaggi e nelle nostre città…Anche le persone dei dintorni di Jalalabad hanno perduto le loro case. Daesh (ISIS) è attiva in varie parti del paese…I combattenti talebani spesso cambiano bandiera e si uniscono a Daesh. Ci sono combattimenti in corso dappertutto: Daesh, talebani, e le forze governative si affrontano.”

Come sono coinvolti la NATO in generale e gli Stati Uniti in particolare, chiedo tramite il mio interprete.

“Ci sono gli americani, naturalmente. La maggior parte di loro combatte dal cielo, ma talvolta sono anche sul terreno.”

“Uccidono i civili?”

“Sì, certo. I nostri figli, i nostri mariti vengono regolarmente uccisi da loro”, grida una donna vestita con un burqa azzurro che tiene in braccio un bambinetto.

Mi dicono che la miseria è dappertutto e sta distruggendo il paese. E non c’è quasi nessun aiuto che arrivi dallo stato corrotto e quasi in bancarotta.

Sidiqah, un’anziana signora, piange di disperazione e di rabbia: “Non ci è rimasto nulla, ma nessuno ci aiuta! Non sappiamo che cosa fare.”

Quando fotografo, un piccolo gruppo di persone comincia a far dondolare la macchina. La situazione sta diventando tesa, ma non penso che affronteremo un pericolo immediato. Continuo a lavorare. Sta diventando tutto molto personale. Non capisco perché, ma è così…

Poi, silenziosamente, un gruppetto di persone si avvicina a noi. Tra di loro ci sono un uomo con una barba molto lunga e una ragazza con una faccia bella e tragica. Indossa una maglietta dove sono raffigurati vari topi bianchi carini, ma la manica destra è vuota. Le manca tutto il braccio.

La sua faccia è straordinaria. Fissa lo sguardo direttamente nella mia macchina fotografica, e quando abbasso le lenti, sento che i suoi occhi cominciano a penetrare i miei. Senza che venga pronunciata una sola parola, percepisco chiaramente che cosa sta tentando di trasmettermi:

“Che cosa mi hai fatto?”

Cerco di sostenere il suo sguardo almeno per pochi secondi, ma poi abbasso gli occhi. Ora sono nel panico. Voglio abbracciarla, stringerla, portarla via da qui, da qualche parte, in qualche modo; adottarla, portarla via in aereo da qui, darle una casa, ma so che non c’è nessun modo in cui mi sarebbe permesso di farlo. I miei occhiali si annebbiano molto. Borbotto qualcosa di sconnesso. Sono un duro, ho visto molte guerre, mi sono trovato di fronte alla morte in varie occasioni. Cerco di rimanere calmo ogni volta che mi trovo in posti come questo, in qualsiasi posto lavori. Quello che mi sta accadendo qui e ora accade molto raramente, ma accade davvero.

E’ il 4 marzo 2017 in Afghanistan. Il mio volo è previso che parta il giorno successivo, nel tardo pomeriggio. So che lo prenderò, ma capisco anche, e silenziosamente faccio la mia promessa a questa ragazzina con i topi carini e la manica vuota, che non lascerò mai completamente il suo paese.

Quello che accadrà dopo è prevedibile: ancora un’altra notte insonne. Tutto ritornerà, si riprodurrà come un film nel mio cervello. Il campo provvisorio di Bagrani, un alto campo che sta ospitando persone evacuate da Kunduz, alcuni campi con mine inesplose in mezzo a Herat, quelle centinaia di cadaveri viventi che vegetano nel centro del Distretto di Kabul, poi varie esplosioni, innumerevoli carcasse in rovina di carri armati sovietici, l’inquietante ed enorme base dell’aviazione americana vicino a Bagram, la bizzarra tomba di Massoud, i bianchi droni-dirigibili, i muri di cemento, le torri di osservazione, i controlli di sicurezza e le vuote bocche di vari tipi di armi che puntano in tutte le direzioni.

Sarò stanco, esausto, ma non sarò mai consapevole che non ho il diritto di riposare, non adesso né a breve.

Continuo a pensare al Cinema Pamir, ai filobus di Kabul e al Blocco 21 nel quartiere di Makroyan in stile socialista… 4° piano, interno 2 o forse 3…Continuerò a immaginare che cosa potrebbe aver avuto luogo lì, se la vita non fosse stata interrotta così repentinamente e così brutalmente.

L’Afghanistan, una terra stupenda ma terribilmente segnata da cicatrici e ferita, ha subito un trauma. E’ stata frastornata  e disorientata. Può a malapena camminare, ma è ancora l’Afghanistan, ha camminato comunque, contro ogni previsione!

Più tardi, quella sera, ricorderò quello che una volta un grande poeta e cantante cubano, Silvio Rodriguez, ha scritto circa il Nicaragua. E a un certo punto, soltanto pochi momenti prima che l’alba avrebbe cominciato a ridare colori luminosi al mondo, sostituirò il Nicaragua con l’Afghanistan, e improvvisamente comprenderò che è esattamente quello che sento verso questa bella nazione fatta a pezzi: “L’Afghanistan fa male, soltanto come fa male l’amore.”

Fa male come l’amore…

Fa male…terribilmente, perciò è amore.

Tutto questo sarebbe accaduto più tardi, ore dopo. Alla fine smetterò di lottare e accetterò semplicemente.

Ora, però, la vecchia Toyota risale sulla strada asfaltata e riesco a malapena a tenere gli occhi aperti. Nei scorsi giorni ho dormito molto poco.

Mr. Tahir, il mio autista e ora mio amico, appare sorprendentemente calmo e non preoccupato. Dopo tutto il tempo che ha lavorato con me, chiaramente è pronto a qualsiasi avventura o a qualsiasi incubo.

Mi porge dei fazzoletti di carta. Il mio polso sinistro sanguina, anche se non troppo. Verosimilmente ho urtato qualcosa negli slum, o mi sono scorticato senza accorgermene. Le mi macchine fotografiche sembrano sempre più pesanti e il mio taccuino sembra sporco; continuo a farlo cadere a terra. Anche i miei vestiti sono sporchi. Ma andiamo, andiamo avanti, ed è una buona cosa!

“ E’ tutto distrutto, Mr. Tahir”, lo informo cortesemente.

“Sì, signore”, risponde, co un’uguale dose di rispetto. Siamo una bella squadra.

“Ma stiamo procedendo”, rammento a lui e a me stesso.

“Stiamo procedendo, signore.”

Di nuovo la testa mi cade sul petto. Apro gli occhi appena pochi minuti dopo. E’ già molto buio. Kabul attorno a me; l’Afghanistan. E’ bello essere qui. Sono contento di esserci venuto.

“Dove andiamo ora, signore?”

“A Jalalabad, Mr.Tahir.”

“Signore? Jalalabad è dietro…E a quest’ora…”

Non dice di no. Non ha detto mai ‘no’ a nessuna delle mie richieste in tutti quei giorni. Mi sta soltanto informando. Se fossi davvero sufficientemente pazzo e insistessi,  accetterebbe. Sa che potremmo essere nei guai,  forse perfino uccisi, ma non si rifiuterebbe. E’ mio amico e mi sento al sicuro con lui.

“Scusa, mi sono addormentato… Volevo dire: andremo presto a Jalalabad, quando tornerò in Afghanistan.”

Penso per pochi secondi. Questo viaggio, stare proprio qui, tutto sembra giusto, esattamente come si suppone che sia. Non sono sicuro di dove voglia precisamente andare, proprio adesso, ma una cosa la so per certo: devo continuare ad andare.

“Per favore, guidi e basta, Mr. Tahir.”

“Avanti?” mi chiede, istintivamente. So che lo sa. Entrambi lo sappiamo, ma non fa male chiedere.

“Sì, per favore. Vada avanti. Sempre avanti!”

 


Andre Vltchek è un filosofo, romanziere, regista e giornalista d’inchiesta. Ha scritto articoli sulle guerre e i conflitti in dozzine di paesi. Tre dei suoi libri più recenti sono: Il romanzo rivoluzionario “Aurora”, e due opere di successo di saggistica:  “Exposing Lies of the Empire” [Smascheramento delle menzogne dell’Impero] e “Fighting Against Western Imperialism [Lotta contro l’imperialismo occidentale] Guardate altri suoi libri su: http://andrevltchek.weebly.com/books.html. Andre sta realizzando documentari per teleSUR e Al-Mayadeen. Guardate Rwanda Gambit, il suo documentario  sul Ruanda e la Repubblica Democratica del Congo. Dopo aver vissuto in America Latina, in Africa  e in Oceania, Vltchek attualmente risiede  in Asia Orientale e in Medio Oriente  e continua a lavorare in tutto il mondo. Può essere raggiunto sul suo sito web http://andrevltchek.weebly.com e su Twitter: https://twitter.com/AndreVltchek


Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://www.counterpunch.org/2017/03/10/afghanistan-notes-from-a-broken-land

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