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Ago 18, 2017

 

Perché Roma ha sfidato Londra ed i servizi americani inviando l’ambasciatore in Egitto

by  Federico Dezzani

 

Torna in Egitto l’ambasciatore italiano, richiamato “per consultazioni” nel lontano aprile 2016 sull’onda dell’omicidio Regeni e della successiva grancassa politico-mediatica: la svolta diplomatica è un’esplicita insubordinazione a quegli ambienti atlantici, collocati tra Londra e Washington, dove è stato pianificato l’assassinio del giovane ricercatore con lo scopo di minare le relazioni italo-egiziane.

C’è da chiedersi le ragioni dell’inattesa mossa di Palazzo Chigi, dopo mesi di sudditanza alla linea angloamericana. L’attivismo francese in Libia, forte dell’intesa con Mosca ed il Cairo e del placet di Donald Trump, ha costretto Roma a riallacciare i rapporti con l’Egitto: era concreto il rischio di essere marginalizzati del tutto dai nuovi assetti mediterranei.

 

Obbedire all’inglese o contenere il francese: il dilemma italiano in Nord Africa

Nella serata del 14 agosto, sperando (erroneamente) che l’occhio vigile del padrone fosse distratto, è rimbalzata sui giornali la notizia del ritorno in Egitto dell’ambasciatore italiano: non si tratta del “britannico” Maurizio Massari, promosso nel frattempo a rappresentante permanente presso la UE per i suoi servigi svolti al Cairo, ma di Giampaolo Cantini.

 

Per sedici mesi l’ambasciata italiana al Cairo (vita travagliata quella del nostro corpo diplomatico in Egitto, come testimonia anche l’autobomba “dell’ISIS” che nel luglio 2015 squarciò il nostro consolato) è rimasta vacante: interrotto qualsiasi contatto tra l’Italia e lo strategico dirimpettaio, proprio quando sembrava che tra Roma ed il Cairo tutto filasse a gonfie vele (scoperta da parte dell’ENI del maxi-giacimento Zohr e partecipazione del premier Renzi al Forum economico di Sharm El Sheik) e fosse possibile sfruttare l’affiatamento tra i due Paesi per la stabilizzazione della Libia. Ma, in fondo, non era proprio questo l’obbiettivo dell’omicidio Regeni? Gettare un cadavere tra l’Italia e l’Egitto, così da scavare un fossato tra i due Stati e manovrare a piacimento la nostra politica estera?

 

Chi ha dunque abbandonato il corpo martoriato del giovane ricercatore italiano nella squallida periferia del Cairo? Forse chi lo inviò con tempismo perfetto nella capitale egiziana per terminare la sua tesi di dottorato. Chi invidiava quella scoperta dell’ENI in grado di modificare gli equilibri economici della regione. Chi vedeva di cattivo occhio l’alleanza tra Roma ed il Cairo ed i suoi influssi nella vicina Libia. Chi mal tollerava il colpo di Stato del feldmaresciallo Abd Al-Sisi e la repressione dell’islam politico. Chi non lesinava sforzi per destabilizzare l’Egitto laico,fomentando il terrorismo dinamitardo nella grandi città e l’insurrezione islamista nel Sinai.

 

Ma sì, stiamo parlando dell’establishment liberal, diviso tra Londra e Washington: la pianificazione dell’omicidio, in particolare, è opera britannica, mentre l’amministrazione Obama (la stessa che scatenò l’islam politico con la Primavera Araba del 2011) si è limitata a fornire la propria copertura politica. Se i mandanti si nascondono oltre Manica, chi ha allora materialmente rapito, torturato ed ucciso Regeni? Quei “servizi deviati”, in questo caso in odore di Fratellanza Mussulmana, che crescono come un’erba infestante in qualsiasi apparato di sicurezza finanziato o formato dagli angloamericani, compreso quello egiziano.

 

Compiuto l’omicidio, abbandonato il cadavere in strada in occasione della visita al Cairo della ministra Federica Guidi e di una blasonata delegazione italiana, non è rimasto altro da fare che esercitare su Roma una pressione crescente, contando anche sull’estrema debolezza politico ed economia del nostro Paese: in altre epoche e contesti, un’operazione sporca simile a quella Regeni, la strage di Fiumicino mirata a incrinare i rapporti tra Roma e Gheddafi, fallì infatti miseramente, grazie alla fermezza di PSI e DC ed ai maggiori margini di manovra dell’Italia.

 

Come costringere il governo italiano a capitolare, nonostante fosse chiaro, soprattutto nel mondo dei servizi segreti(1), che l’omicidio fosse maturato tra Londra e Washington? Stringendo il Paese in una tenaglia mediatico-diplomatica così serrata da impedire qualsiasi movimento: si ricorre così al variegato mondo delle Ong e della sinistra più o meno parlamentare che, da sempre, fanno capo all’establishment atlantico. È l’arsenale che spazia da Amnesty International (sede a Londra e legata a doppio filo al Dipartimento di Stato americano) a figure come quella del senatore Luigi Manconi, responsabile in gioventù del servizio d’ordine di Lotta Continua (il terrorismo angloamericano è multiforme, spaziando dagli anarchici agli islamisti, dai neofascisti ai marxisti-leninisti).

Si arriva quindi al richiamo del nostro ambasciatore al Cairo (aprile 2016) ed al successivo gelo politico tra Italia ed Egitto: sedici lunghi mesi in cui Londra e Washington sono riuscite a stravolgere la nostra strategia nella vicina Libia. L’Italia ha dovuto ritirare l’iniziale sostegno al generale Khalifa Haftar, basato in Cirenaica e sponsorizzato dall’Egitto, per abbracciare “il governo d’unità nazionale” di Faiez Al-Serraj, “calato” su quella Tripolitania dove spadroneggiano gli islamisti sostenuti da Londra e Washington (e da attori regionali come Ankara e Doha) e dove prospera il traffico dell’immigrazione clandestina in comune accordo conle solite Ong “liberal”.

 

Se Roma snobba il Cairo, se l’Italia ritira il proprio sostegno ad Haftar, non per questo il mondo si ferma: anzi, nell’attuale fase di crescente “dinamismo” internazionale, abbondano gli attori pronti ad insinuarsi negli spazi lasciati vuoti dal nostro Paese. La Francia, in particolare, gioca una partita indipendente, che la porta in rotta di collisione con gli interessi angloamericani (e, di riflesso, quelli italiani): piena sintonia con l’Egitto di Abd Al-Sisi ed aiuti, in termini militari e diplomatici, al generale Khalifa Haftar.

Attorno all’asse franco-egiziano convergono, progressivamente, altri protagonisti: la Russia di Vladimir Putin, alleata di ferro di Al-Sisi e Haftar, e le “monarchie reazionarie” (Arabia Saudita, EAU, Bahrein, etc.) ai ferri corti con gli islamisti-rivoluzionari (Qatar e Turchia). Alla Casa Bianca, poi, non siede più Barack Hussein Obama, acceso sostenitore della Fratellanza Mussulmana e dei cambi di regimi mediorientali, ma “l’isolazionista” Donald Trump, certamente non infastidito dal protagonismo franco-egiziano nella lontana Libia.

 

La situazione internazionale, fino a pochi mesi fa improntata in una certa maniera, cambia così improvvisamente direzione. E si muove impetuosa. Il 5 giugno il Qatar è isolato dai vicini, il 25 luglio il presidente Emmanuel Macron “sdogana” a livello politico il generale Haftar ricevendolo a Parigi coll’evanescente Faiez Al-Serraj, il 14 agosto Haftar vola a Mosca per l’ennesimo incontro con i vertici russi, decisi a ristabilire la propria influenza in Libia dopo la defenestrazione di Gheddafi. In questo quadro in rapido divenire, l’Italia è relegata ai margini: i ponti con l’Egitto sono tagliati, il dialogo con Haftar inesistente, la scommessa di Faiez Al-Serraj ormai persa. L’infausta decisione del governo Gentiloni di “aiutare” la marina militare di Tripoli nella lotta all’immigrazione, non fa che sbilanciarsi ulteriormente verso quella fazione, il governo d’unità nazionale e gli islamisti della Tripolitania, che rischiano di soccombere nel prossimo futuro.

 

Nasce così il dilemma: proseguire sulla linea tracciata da Londra (anch’essa messa all’angolo dall’attivismo franco-russo-egiziano) o cercare di rientrare in gioco e contenere l’esuberanza francese, riaprendo il canale col Cairo?

La paura di essere estromessi dal Nord Africa e la consapevolezza che l’avvento dell’amministrazione Trump ha stravolto gli equilibri, spingono verso l’accomodamento con l’Egitto.

 

Nonostante la campagna in extremis per impedire il ritorno del nostro ambasciatore (si legga, a questo proposito, l’articolo “Inviare l’ambasciatore Cantini al Cairo senza chiarire quale sia il suo compito sarebbe un grave errore”(2) di Antonio Armellini, papavero della nostra diplomazia nonché membro dell’Istituto di Studi Strategici di Londra(3)), il 14 agosto la Farnesina dà notizia della partenza di Giampaolo Cantini per il Cairo.

Colpo di coda da parte dell’establishment angloamericano? Inevitabile. Sul New York Times, testata giornalistica che ha dichiarato guerra a Donald Trump insieme ad ampi settori della CIA, appare a distanza di 24 ore il dettagliatissimo articolo “Why Was an Italian Graduate Student Tortured and Murdered in Egypt?”, contente questo passaggio decisivo:

“In the weeks after Regeni’s death, the United States acquired explosive intelligence from Egypt: proof that Egyptian security officials had abducted, tortured and killed Regeni. ‘‘We had incontrovertible evidence of official Egyptian responsibility,’’ an Obama administration official — one of three former officials who confirmed the intelligence — told me. ‘‘There was no doubt.’’ At the recommendation of the State Department and the White House, the United States passed this conclusion to the Renzi government.”

L’amministrazione Obama ha fornito al governo italiano prove incontrovertibili sulla responsabilità della sicurezza egiziana nell’uccisione di Regeni. E le ha fornite a quello stesso governo italiano che ora, senza che sia stata ancora fatta piena luce sull’omicidio, si prepara ad accreditare l’ambasciatore.

 

L’assist del New York Times è prontamente usato dalla solita stampa nostrana (“Caso Regeni, polemiche dopo le rivelazioni del NY Times: «Gentiloni riferisca in Parlamento»” scrive l’Espresso) per sferrare un ultimo, disperato, assalto: sia Gentiloni che Renzi, finiti nel mirino del NYT per aver “tradito” i loro padrini angloamericani, smentiscono le rivelazioni nel blasonato quotidiano newyorkese(4). Si tratta dell’ennesima “notizia-spazzatura”,simili a quelle del Russiagate, confezionate per fini politici, senza alcuna pretesa di veridicità.

 

Messa di fronte al rischio di una rappresaglia angloamericana ed a quello di una definitiva estromissione dalla Libia per mano francese, l’Italia ha preferito disobbedire a Londra piuttosto che lasciare mano libera a Parigi in buona parte del Nord Africa: se Trump non avesse vinto le elezioni, il Qatar non fosse stato isolato, Macron non avesse ricevuto il generale Haftar, oggi, con assoluta certezza, la nostra ambasciata al Cairo sarebbe ancora vuota e le cornacchie del caso Regeni spadroneggerebbero ancora.

C’è da chiedersi se la mossa del nostro governo sia sufficiente a salvaguardare gli interessi nazionali in Libia, o se giunga troppo tardi.

 

In ogni caso, sarà quasi impossibile ristabilire la supremazia economica goduta dall’Italia prima della defenestrazione di Muammur Gheddafi: qualche esponente politico ha avanzato provocatoriamente l’ipotesi di processare l’ex-presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, vero sponsor del nostro intervento a fianco della NATO. Dopo “verità per Giulio Regeni”, arriverà anche l’ora di “verità sulla Libia”?

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