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18 novembre 2017

 

La forza e la debolezza delle donne

di Lea Melandri

 

Sempre più spesso le donne denunciano l’insopportabilità della loro condizione, ma poi sembrano riluttanti a modificarla. È per sottomissione al potere maschile o c’è qualcosa che non vogliono abbandonare?

 

In modo sempre più pressante negli ultimi anni le donne denunciano con rabbia, oppure lamentano, l’insopportabilità della loro condizione, ma poi inspiegabilmente sembrano piuttosto riluttanti a modificarla. Anche tra le donne più impegnate la sensazione è spesso di immobilità. Nelle grandi istituzioni (partiti, sindacati, ecc.) la loro presenza è tutt’altro che trascurabile, ma non si può dire lo stesso della loro visibilità. È solo per resa, costrizione, sottomissione al potere maschile, o c’è altro a cui dobbiamo guardare, qualcosa che le donne sono poco disposte ad ammettere e soprattutto ad abbandonare?

 

Tempo fa una lettrice, Francesca Bonini (scrivendo alla casella di 27esima ora), faceva notare che, se è necessario perseguire mete di innegabile giustezza – diritti, pari opportunità, ecc.-, non meno importante è “parlare del rimosso delle donne, di ciò che non dicono, di quello che ancora si vergognano a denunciare”. E faceva l’esempio di quel “senso di colpa gigante” che ci si porta ancora dietro, tanto da “colludere così disastrosamente con la violenza, a tutti i livelli e in tutte le sue sfumature”. Ma è solo l’umiliazione che resta sepolta tra le mura domestiche, o anche il suo opposto, il sentimento inconfessabile della propria indispensabilità all’altro, l’idea di essere portatrici di “valori” che potrebbero rigenerare il mondo, se solo fossero ascoltati?

 

Due coscienze femminili anticipatrici, Sibilla Aleramo e Virginia Woolf, già all’inizio del secolo scorso, sembrano aver colto la discrepanza, non sempre evidente, tra la pretesa “logica e giusta” di uguali diritti civili e politici e il desiderio intimo della donna.

“Forse è atavismo muliebre. La donna – scrive Aleramo – assai meno dell’uomo si adatterà a romperla con certe tradizioni, perché la protezione gliele ha rese più dolci, più seducenti. Per lei, centro della casa, le grandi solennità rifulgevano quasi esclusivamente: per lei e per i bimbi… ch’ella debba rinunciare a tutte le prerogative antiche, sia pur conquistandone di superiori, è cosa che le mette nell’animo una invincibile mestizia, come il rimpianto vago di ciò che non è più”.

 

Guardata con gli occhi della figlia che ne ha avvertito ossessivamente la “presenza invisibile” per anni – “ne udivo la voce, la vedevo, mi immagino ancora cosa avrebbe detto…”-, la figura che in passato ha riempito di sé l’interno di una stanza famigliare, così è descritta da Virginia Woolf in una rara pagina autobiografica:

“Eccola, mia madre, al centro della vasta cattedrale che era l’infanzia; era là dall’inizio. E, s’intende, era il centro di tutto. Il centro: forse questa è la parola che esprime meglio la diffusa sensazione che avevo di vivere immersa così totalmente nell’atmosfera di lei, da non distaccarmi mai abbastanza da vederla come una persona (…). Quante cose sconnesse ricordo di mia madre, se lascio scorrere il pensiero; ma tutte di lei in compagnia; di lei in mezzo ad altri; di lei generalizzata; dispersa, onnipresente, di lei come creatrice di quell’affollato, allegro mondo ruotante al centro della mia infanzia”.

 

Ma è sempre Woolf a smascherare con lucidità impietosa la cattedrale dell’infanzia. Nel saggio Una stanza tutta per sé, dopo aver passato in rassegna l’immensa letteratura maschile che ha esaltato le doti della donna, conclude:

“Immaginativamente, la sua importanza è estrema; praticamente, la sua insignificanza è totale (…) uno strano mostro quello che scopriamo, leggendo prima gli storici e poi i poeti: un verme con le ali di un’aquila; lo spirito della vita e della bellezza, rinchiuso in cucina a tagliare il lardo”.

 

Dove sta allora l’ambiguità di quel groviglio di forza e di debolezza, di potenza e insignificanza, che l’uomo ha visto nell’altro sesso e che ogni più anonima “signorina Smith” sembra incarnare ogni qualvolta che diventa per il suo uomo lo specchio indispensabile perché possa riprendere sicurezza, fiducia in se stesso e affrontare con più vitalità la vita pubblica? È uno strano potere quello che spinge la donna a prodigare le proprie energie per il benessere altrui.

 

“Ero schiava della mia forza – dice Aleramo -, della mia creatrice immaginazione… Il mio potere era questo: far trovare buona la vita. La mia forza era di conservare tal potere, anche se dal mio canto perdessi ogni miraggio. Amore senza perché. Senza soggetto quasi”.

Ancora più rimosso del potere che in qualche modo sempre si esercita su chi è oggetto delle proprie cure, è il sogno d’amore, l’illusione di poter ricreare attraverso la riunificazione di qualità che l’uomo ha voluto opposte e complementari – il corpo e il pensiero, i sensi e la ragione, la tenerezza e la forza, ecc.- l’appartenenza intima a un altro essere, l’unità a due che è stata degli inizi della vita e che come un “lungo sonno” continua ad avvolgere la coppia adulta.

 

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