Fonte: Ereticamente

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17/12/2017

 

Una trappola postmoderna: il patriottismo costituzionale

di Roberto Pecchioli

 

La più grande astuzia del diavolo è farci credere che non esiste. Così si esprimeva un secolo e mezzo fa il grande Charles Baudelaire.  Un concetto devastante sul versante religioso, ma altrettanto pericoloso se riferito a concetti mondani come Stato e Nazione. Nonostante gli stati moderni nascano dall’ipostatizzazione giacobina della nazione nello Stato oltreché dalla distruzione dei corpi intermedi, la contemporaneità ha preparato una lucida menzogna in forma di trappola per i popoli: far credere che le nazioni non esistano e che al loro posto ci sia solo lo Stato. Noi stessi, le persone, non esistiamo se non come individui e la nazione è un’invenzione dello Stato. Qualcuno abbocca all’inganno, preparato con grande impegno ed ampio dispiegamento di mezzi, sino alla venerazione para religiosa della Costituzione.

 

Carl Schmitt fu il primo a comprendere che nel mondo contemporaneo la politica è la secolarizzazione delle categorie religiose. Lo Stato, e le sue leggi, assurgono quindi a divinità laica, totem intangibile, sino alla venerazione superstiziosa, tutta italiana, della “costituzione più bella del mondo”. La falsa credenza diffusa, che si pretende di porre alla base del sentimento di appartenenza del nostro popolo è definita patriottismo costituzionale. Un passaggio del discorso di Giorgio Napolitano, all’epoca presidente della Repubblica in occasione dei 60 anni della Carta fu, al riguardo, illuminante. “Non c’è terreno comune migliore di quello di un autentico, profondo, operante, patriottismo costituzionale. E’ questa la nuova, moderna forma di patriottismo nella quale far vivere il patto che ci lega: il patto di unità nazionale nella libertà e nella democrazia”. Un ben strano percorso, quello del comunista di tutta la vita, approdato al nuovo cosmopolitismo oligarchico di matrice liberal progressista.

 

Il concetto di patriottismo costituzionale risale agli anni 80 del secolo passato e fu elaborato per il popolo tedesco da un’intellettuale come Jurgen Habermas, l’ultimo dei francofortesi, uomo di sinistra in fuga dal marxismo. Il concetto base di Habermas era che i tedeschi non potessero più essere patrioti, dopo Auschwitz ed il nazismo, ma anche dopo il sogno imperiale successivo all’unificazione del 1871 per opera della Prussia e di Bismarck. La nazione tedesca fattasi Stato, secondo lui, aveva sistematicamente “escluso”. L’unica modalità ammessa per essere tedeschi rimaneva quella di aver allontanato per sempre, attraverso la costituzione della Repubblica Federale, ogni possibilità di rinascita del fascismo. Solo in quel senso veniva revocata la proibizione di essere patrioti.

In Italia, posizioni analoghe vennero assunte da Norberto Bobbio e dal gruppo di intellettuali torinesi (Galante Garrone, Firpo ed altri) eredi della breve storia del Partito d’Azione legati al lascito ideologico di Piero Gobetti. Il patriottismo costituzionale fu ripreso all’epoca della presidenza di Carlo Azeglio Ciampi, esponente di quel mondo, invero con una maggiore attenzione ai temi dell’unità nazionale e dello spirito risorgimentale. Fu una sorta di “patriottismo repubblicano”, forse più esteso del semplice richiamo alla Costituzione, ma altrettanto fuorviante, una scorciatoia per rimediare al tracollo delle appartenenze. L’assurdo è che il tentativo di edificare sotto mentite spoglie una forma spuria e surrettizia di identità comune viene dagli stessi che hanno negato, screditato, dissolto, proibito i legami nazionali, religiosi, patriottici, etici, decretando il primato dell’individuo o della massa. L’internazionale futura società dei comunisti sostituita dal soggettivismo strumentale dei liberali.

 

Margaret Thatcher poté dire di non riconoscere altro che individui; dal versante opposto si parlava di cittadini, il risultato è stato la creazione di un ircocervo da cui è nato il semplice consumatore. Nel corso della recente crisi spagnola legata al tentativo separatista catalano, un argomento utilizzato da alcuni “unionisti” è stata l’affermazione che non esistono nazioni, dunque neppure la spagnola o, eventualmente, la catalana, ma solo cittadini cui assegnare uguali diritti entro un sistema giuridico idealizzato. E si tratta di responsabili politici di una nazione pressoché millenaria, la cui unità statuale si è realizzata durante il XV secolo! Si verifica in Spagna lo stesso processo di mistificazione di cui è stata vittima l’Italia. Si pensa, si agisce, come se la Spagna fosse un’invenzione del franchismo, elevato dopo la morte del suo capo a sentina di ogni male.

 

In Italia capita lo stesso dal 1945, identificando la patria, la nazione e l’italianità come frutto avvelenato, lascito da estirpare del fascismo. Non siamo tifosi sfegatati del Risorgimento, del quale riconosciamo il carattere spesso violento e predatorio, soprattutto nei confronti delle popolazioni del regno duosiciliano. Abbiamo sotto gli occhi la sua natura elitaria, massonica, il suo disinteresse per le masse cattoliche e l’ostilità nei confronti della Chiesa, respingendo come nemiche le radicate tradizioni religiose degli italiani. Tuttavia, l’Italia è una nazione culturale sin dal medioevo, dal tempo di Federico II e del sommo Dante, l’unico poeta a fondare una nazione e la sua lingua, passando per l’amore di patria del fondatore della scienza politica Niccolò Machiavelli, di Giacomo Leopardi e di tanti altri. L’Italia fu nazione ben prima di essere Stato unitario e non può essere ridotta ai codici delle sue leggi.

 

Nessuno è italiano, tedesco, spagnolo o francese per amore di una costituzione. La Patria – e la nazione – è un fatto, non un’organizzazione e neppure un’istituzione. Le costituzioni sono un elemento relativamente recente della storia umana, possiamo ritenerle il compimento della lunga stagione giuridica e filosofica della codificazione, ovvero della spinta a costruire dei corpi di legge scritti e omogenei, il primo decisivo mattone del moderno Stato di diritto. Ciascuna rappresenta inoltre lo specifico punto di vista, la finestra sul mondo e la rappresentazione interna di ciascuna delle nazioni che l’hanno scritta. In questo senso, Habermas conclude ed insieme liquida o oltrepassa la scuola storica del diritto tedesca.

 

Noi affermiamo che le due costituzioni più antiche e studiate, quella degli Stati Uniti e la prima della Francia post rivoluzionaria, siano la prova della radicale falsità del patriottismo costituzionale. Nel 1787, i costituenti americani fanno precedere l’articolato da un preambolo di grande importanza, con le prime, celebri parole: “Noi, il popolo degli Stati Uniti”. Dunque, la legge non nasce da sé, o dallo Stato costituito undici anni prima, ma promana da che si è già riconosciuto ad unità, il popolo delle tredici colonie inglesi resesi indipendenti. In Francia, la costituzione del 1791, immediatamente posteriore alla dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, si esprime a nome del “popolo francese costituito in assemblea nazionale”, chiarendo nei primi articoli chi ha o può ottenere la qualifica di francese.

 

Ovviamente, non si nega che la costituzione sia un elemento fondamentale. In essa, un popolo stabilisce le regole formali del suo funzionamento pubblico, si “costituisce” (di qui il termine) come soggetto politico sovrano. Ciononostante, essa non incarna la realtà permanente della nazione, soprattutto se intendiamo la nazione per ciò che è davvero, una istituzione fattuale, un sentimento di appartenenza, la volontà di procedere insieme nel mondo sulla base di una visione comune che si fa Stato.  In quanto tali, le nazioni non sono organizzazioni, dunque non sono sottomesse alla discrezionalità di un corpo dirigente o alle preferenze della generazione del momento. La loro realtà è il prodotto del divenire storico, di una serie di avvenimenti e di mutamenti in cui sono e saranno presenti un’infinità di agenti, vicende, situazioni.

 

Ciò vale anche per le regole formali con le quali si intende organizzare lo Stato. Il sistema politico non è che la concrezione di quell’istituzione immateriale che è la nazione. Non si possono invertire i termini, tantomeno sostituire l’amore per la patria con quello per le leggi che si è data. Oggi si va oltre, vietando il sentimento identitario se non circoscritto all’ambito del diritto vigente, presentato come perfetto, insuperabile, tendenzialmente immutabile. Sappiamo quanto sia difficile, specie in Italia, avviare un dibattito su possibili riforme costituzionali. In un mondo dove tutto corre vorticosamente, solo la nostra Costituzione deve restare inalterata. Una sorta di laico motore immobile, o, per dirla con l’ultimo verso della Commedia “l’amor che move il sole e l’altre stelle”. Il poeta ovviamente si riferiva a Dio, ma la sacralizzazione della Costituzione, a partire dal dogma ridicolo della sua intangibilità e della superiore sapienza dei suoi autori, i “padri costituenti” circonfusi di un’aura di saggezza assoluta, è del tutto falsa nella pretesa di incarnare l’essenza e lo spirito di un popolo che solo nella Carta riconosce le sue ragioni di esistenza.

Il lato grottesco della questione è che la Costituzione italiana è ormai superata gerarchicamente dal diritto comunitario dell’Unione Europea, il quale contraddice platealmente in diversi punti norme e principi della carta, a partire dall’articolo 1, che assegna la sovranità al popolo (italiano?). Più in generale, il mondo economico, le sue organizzazioni, il denaro costituito in autonomo potere, la politica, le burocrazie, gli “esperti”, i gruppi di interesse, non solo si sostituiscono alle patrie ed alle nazioni, ma aspirano a dominarle, trasformarle, e, nel caso degli Stati nazionali, lavorano alla loro eliminazione. Conviene ricordare che la nazione ha tradizionalmente incarnato il principio di autorità. Pertanto, liquidare le nazioni, con il patriottismo che le sostiene, implica screditare tale principio, su cui si fonda qualsiasi ordine, legittimo in quanto costituisce un terreno di intesa comunemente accettato.

 

Negli anni 70 alcuni ritenevano che la decomposizione dell’autorità avrebbe aperto un’era di maggiore libertà individuale. Altri erano invece convinti che avrebbe condotto all’anarchia e al caos. Un pensatore comunitarista come Robert Nisbet osservò che il vuoto lasciato dall’autorità sarebbe stato riempito dall’ascesa irresistibile del potere.  Ebbe ragione, giacché la politica- ridotta a braccio secolare del Potere tecnofinanziario -interferisce sempre più con la società civile. Proprio tale inversione di ruoli è all’origine di diversi conflitti.

 

La crisi europea ha infatti il suo epicentro nell’errore di anteporre l’autorità di una organizzazione burocratica, autoreferenziale come l’Unione Europea a quella degli Stati nazionali che la compongono. L’evoluzione delle nazioni diventate Stati ha fatto sì che, come è logico, esse siano percepite come vicine e comprensibili per i loro membri/cittadini, al contrario dell’Unione europea, ente artificiale e lontano, la cui discutibile legalità appare estranea se non nemica. Sotto questo profilo, le costituzioni rappresentano un elemento positivo di identificazione e di difesa collettiva da difendere e rilanciare, ma sempre come strumenti di un popolo nel flusso della sua storia, non certo fattori fondanti di una comunità, meno ancora il principio o la ragione dell’amore per la patria.

In definitiva, il patriottismo costituzionale è un espediente atto a facilitare le operazioni di ingegneria sociale tese a dissolvere tutte le dimensioni etiche, naturali, sentimentali, comunitarie dei popoli, condotti a tappe forzate verso l’omologazione e la cupa uniformità distopica di un potere onnipotente sino al dominio delle mere pulsioni biologiche dell’essere umano. Michel Foucault non si equivocò su questo punto, scoprendo la categoria di “biopotere”.

 

Risulta evidente che i continui appelli all’Europa, alla democrazia o alla Costituzione non sono altro che trappole per imprigionare i popoli nella ragnatela di un astratto consenso “istituzionale” ed evitare di fare riferimento alla nazione, già ristretta a paese. Il mito del costituzionalismo è, appunto, un mito e non può sostituire il patriottismo, che è un sentimento d’amore e riconoscimento di sé. Nel caso italiano, poi, cristallizzare la Carta in un empireo intangibile, pressoché teologico, lega mani e piedi alla naturale evoluzione della società, senza contare il rischio di cui siamo testimoni, ovvero che il discredito delle istituzioni e di chi le rappresenta travolga la stessa convivenza nazionale, la cui fragilità è testimoniata dalla suggestiva definizione di Ernest Renan: “plebiscito di tutti i giorni”.

L’Italia del 1948 preferì non celebrare come festa nazionale il giorno della promulgazione della Costituzione, anteponendole una data certamente più controversa come il 25 aprile, ma che almeno aveva il pregio di rappresentare un mito fondante, vero o presunto, quello della resistenza e della liberazione contemporanea da un’occupante esterno e da un oppressore interno. L’ attuale debolezza dell’identità nazionale italiana – che Galli Della Loggia chiamò morte della Patria – sta proprio nella pretesa di azzerare l’intero passato come un unicum oscuro riscattato esclusivamente dagli eventi che hanno condotto alla proclamazione della repubblica ed alla scrittura della Costituzione. Un elemento che condividiamo con la Spagna, dove ad iniziativa dei governi socialisti si è voluto imporre come festa nazionale dell’antica nazione il 6 dicembre, giorno della Costituzione iberica del 1978, mettendo in secondo piano lo stesso Dia de la Hispanidad, il 12 ottobre, anniversario della scoperta dell’America, la grande impresa della giovane nazione spagnola unificata con la fusione dei regni di Castiglia e Aragona nelle persone di Isabella e Ferdinando, i Re cattolici.

 

Una costituzione è per definizione transitoria, pur nella sua aspirazione di stabilità e non si può ossificare. Ogni legge è un delicato costrutto destinato ad essere alterato nel tempo, riformato o sostituito. L’idealizzazione della carta costituzionale costituisce quindi un grave rischio, poiché il suo crollo, o la semplice messa in discussione, trascina con sé l’intera vita nazionale. Ugualmente, nessuna costituzione può alimentare la legittimità di uno Stato Minotauro, il mostro feroce dal corpo di uomo e la testa di Toro, che, brandendo la Legge, espropria dei diritti naturali e consegna senza rimedio i popoli al Potere diventato Biopotere.

 

Profetica fu l’intuizione di Hannah Arendt, la prima ad aver indagato il totalitarismo moderno, quando previde che nel futuro – il nostro presente –la persona si sarebbe potuta manifestare compiutamente in libertà solo nella segreta intimità. Credere dunque al valore fondante delle leggi degli uomini diventa il metodo più sicuro per smarrire le nostre origini ed insieme il senso dello stare insieme. Siamo esseri concreti, radicati in un luogo e in un tempo, frutto di specifiche circostanze, tra le quali non possiamo rifiutare la terra dei padri e lo stesso sangue. L’identità, individuale e collettiva, assomiglia a quei cerchi concentrici che si formano nell’acqua quando vi gettiamo una pietra. Dobbiamo riconoscere tutte le facce della nostra realtà, e non lasciare che l’acqua, terminando il suo moto, le azzeri tutte.

Le moderne costituzioni si nutrono di principi universalistici, negando nella sostanza quel patriottismo che Habermas cerca di risuscitare sotto le mentite spoglie di una equivoca lealtà alla libertà e alla democrazia rappresentativa incorporate nei codici come sinonimi. Ci si trasforma in società di cittadini e non di popolo, una formula significativamente avversata dal filosofo morale Alasdair Mc Intyre, secondo cui il patriottismo è una forma di amore e si rivolge ad individui particolari. Si ama una certa patria e solo quella: è una passione, non una forma della ragione calcolante. Il senso della storia della nostra vita personale va dunque sperimentato all’interno di una specifica comunità.  La nazione – e l’amore di patria – vanno “intesi come un progetto nato in qualche modo nel passato e continuato nel tempo in modo da realizzare una particolare comunità morale che reclama autonomia politica nelle sue diverse forme istituzionali “.

 

Ragionando per assurdo, io potrei reclamare indifferentemente la cittadinanza americana o polacca se ritenessi che le leggi di quegli Stati siano le migliori, meritevoli perciò di un attaccamento tanto forte da convertirsi in patriottismo, nulla rilevando la mia conoscenza degli Usa o della Polonia, in termini di storia, civiltà, lingua, cultura. Basterebbe l’adesione convinta ai precetti indicati nella legislazione codificata per fare di me un patriota costituzionale turco o finlandese. Per converso, dovrei respingere con sdegno la qualità di italiano se mi considerassi fermo oppositore delle norme di quella che in questo tempo storico si chiama Repubblica Italiana.

 

Spesso si ama la Patria nonostante le sue leggi, le istituzioni che la reggono e gli uomini che la incarnano. E’ giusto e normale, ed è la condizione comune di milioni di uomini e donne. Attraverso il falso patriottismo costituzionale “liquido”, il Verfassungspatriotismus di Jurgen Habermas, la postmodernità ci toglie uno dei più antichi, nobili e connaturati sentimenti dell’anima: l’amore di noi stessi, della nostra gente, della terra che calpestiamo.

Siamo autorizzati solo ad amare un codice, un testo, un articolato di parole astruse e spesso vuote: una trappola del potere per dividerci, dominarci, renderci automi: plebi disciplinate desideranti, idolatre della forma-merce.

 

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