Fonte: Il Corriere delle regioni

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01/02/2017

 

La libertà laicista è un mostro disumano che vuole azzerare radici, storia, identità

di Francesco Lamendola

 

Se la civiltà moderna trova la sua più coerente e compiuta espressione nel sistema economico e finanziario e nello stile di vita americani, dal punto di vista ideologico “puro”, cioè considerato in sé e per sé, in quanto struttura ideologica dello spazio culturale, sociale e anche individuale, essa trova la più perfetta espressione nell’attuale ordinamento dell’Unione europea.

Coloro i quali pensano che l’Unione europea sarebbe una buona cosa, se solamente fosse l’Europa dei popoli e non delle banche, se fosse una realtà viva come avrebbe dovuto essere, e non un freddo computo ragionieristico sulla partita doppia delle spese e delle entrate, s’immaginano tuttavia che essa sia riformabile, anzi, che sia nata da un giusto bisogno, o da una giusta serie di bisogni, e sia stata poi allontanata dai suoi obiettivi originari da fattori esterni, eliminati i quali, essa potrà rientrare nel suo alveo, come un fiume che rientra nel suo letto dopo essere stato artificialmente deviato. Purtroppo le cose non stanno così: l’Unione europea è nata, sin dall’inizio, anzi, sin dall’inizio è stata concepita, esattamente come ciò che essa è; semmai la realtà attuale è ancora troppo “indietro” rispetto ai piani segreti di coloro che l’hanno pensata e voluta (vedi, ad esempio, il Piano Kalergi, e le attuali strategie del Gruppo Bilderberg, della Commissione Trilaterale e di altri gruppi di potere ancora più occulti e ancora più “globali”, oltre che più inquietanti); la meta finale, per essi, è ancora relativamente lontana, nondimeno essi sono pazienti e tenaci, dispongono sia dei mezzi, sia del tempo necessari per spingere il nostro continente sempre più in là, dal punto di vista sociale, culturale, finanziario, monetario, sempre più vicino all’idea che essi hanno della società futura: un luogo neutro, asessuato, algido, in perenne progresso tecnologico, dove non c’è spazio, anzi, non deve esserci spazio alcuno, per la tradizione, e, soprattutto, per la tradizione e l’identità religiosa, ovviamente quella cristiana e specialmente cattolica.

È il vecchio sogno della massoneria che, dopo tre secoli, è giunto a un passo dalla piena realizzazione: estromettere totalmente il cristianesimo dalla civiltà dell’Europa e del mondo e fare delle persone una tabula rasa, nella quale,  dopo averle liberate da ogni “condizionamento” religioso, morale, culturale (beninteso, a parte quello da essa perseguito, ossia gnostico-massonico, edonista, utilitarista, cosmopolita e vagamente umanitario e filantropico, ma sempre con riferimento all’Uomo astratto e mai agli uomini concreti), si possa ridisegnare una mappa concettuale seguendo le coordinate della modernità: dove i meridiani sono gli innumerevoli “diritti civili” degli individui, e i paralleli sono i dogmi del laicismo e della secolarizzazione; e su questa nuova mappa essi sono convinti che sia possibile collocare, identificare, spiegare, interpretare qualsiasi fenomeno e qualunque situazione, individuando, nello stesso tempo, le soluzioni ottimali, e perciò obbligatorie. Infatti una cultura utilitarista non concepisce se non la giustezza di ciò che risulta più conveniente, e intende sbarazzarsi di tutto il resto; come aveva detto David Hume: i libri – specialmente quelli di teologia e di metafisica scolastica - che non contengono ragionamenti sperimentali su questioni di fatti e di esistenza, meritano soltanto di essere gettati nel fuoco, perché non contengono che sofisticherie e inganni. Allo stesso modo, la civiltà moderna vuole espellere da se stessa ogni sia pur debole traccia o residuo di ciò che è stata: e siccome essa è nata come civiltà cristiana, e lo è stata per parecchi secoli, allora bisogna far scomparire ogni ricordo del cristianesimo. Ad esempio, come è accaduto i recente, in Norvegia, allontanando una giornalista che ha osato presentarsi in televisione indossando una collana con un ciondolo, sia pure minuscolo, a forma di croce.

Ora, è evidente che una civiltà, la quale ripudi integralmente la propria tradizione, è simile a un albero il quale pretenda di crescere senza bisogno di radici, o meglio, dopo che le sue radici siano state tagliate: una cosa del tutto velleitaria, assurda, delirante, degna della mente di un pazzo. D’altra parte, è proprio l’evidente follia di un simile progetto che suggerisce un’altra ipotesi, molto più plausibile: non di semplice follia si tratterebbe, o, almeno, non ai livelli strategici più elevati (lo sarà, senza dubbio, fra la bassa manovalanza, a cominciare dai sedicenti intellettuali e dai pretesi artisti che si spendono tanto volonterosamente nella diffusione del Verbo mondialista, peraltro ben pagati e riforniti di privilegi), ma di qualche cosa d’altro: di un piano, lucidamente concepito – se poi sia lucido anche negli scopi ultimi, questo è un altro discorso – per attuare la riduzione degli Europei a massa amorfa, invertebrata, decerebrata. Tale, infatti, è quel che si ottiene allorché si sottratte alle persone e alle comunità ogni senso di appartenenza alla loro tradizione.

Ha scritto Marcello Veneziani nel suo libro I vinti. I perdenti della globalizzazione e loro elogio finale (Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2004, pp. 21-23):

 

Oggi il cristianesimo sembra tornare alle sue origini di religione dei vinti. Pur non mancando di esercitare il potere e di godere di una visibilità e di un prestigio mondiali, il cristianesimo è il vinto principale dei nostri giorni. Non dall’Islam, ma all’interno della sua stessa civiltà. La croce non è più segno di vittoria sulla terra ma di un’incompatibilità con le cose del mondo e della vita. L’Europa, sorta come civiltà cristiana, oltreché romana e greca, si vergogna di citare nella Costituzione le sue origini cristiane che pure sono l’unico filo conduttore che unisce i Paesi nordici e mediterranei, orientali e occidentali del continente. Alcuni Paesi europei vietano nelle loro leggi di esporre crocifissi nei luoghi pubblici per non offendere  le sensibilità religiose e laiche altrui; come se Cristo in croce, un simbolo che ha permeato per millenni la nostra civiltà e la nostra educazione, sia un segno aggressivo da nascondere e da rendere privato, come faceva Nicodemo che andava a vistare Gesù di notte. La croce diventa atto osceno in luogo pubblico: sono queste le nuove oscenità da censurare.

Il Papa [Wojtyla] ha continuato a ricordare all’Europa che è figlia della civiltà cristiana. Negare quest’evidenza non vuol dire essere laici, ma bugiardi; significa negare la realtà, ciò che siamo e da dove proveniamo. Riconoscerlo non è una scelta confessionale: è storia, semplicemente storia. So vorrebbe neutralizzare la croce per generare, con l’Unione europea, uno spazio aperto pubblico a tutti, libero da ogni credenza religiosa, laico e universale. Ma il fondamento di quest’idea di umanità è disumano perché immagina di rivolgersi a individui senza volto, senza storia, senza tradizione, senza memoria e religione, Invece noi siamo uomini in quanto siamo pensanti, credenti, parlanti, viventi, morenti; la nostra vita, la nostra esperienza, il nostro essere si sostanziano delle nostre inclinazioni naturali e culturali, volontarie, storiche d ereditarie. Non esiste l’Uomo in astratto, esistei tu, io, lui, voi, noi, voi, loro. Esistono i romani, i francesi, i cattolici, gli islamici, ecc. Che civiltà del dialogo è quella che azzera le differenze, a cominciare dalle proprie, rimuove le diversità, e si vergogna di portare in pubblico le proprie provenienze, convinzioni, costumi? Un conto è impedire l’uso della religione come una clava per colpire il prossimo o come un’imposizione sugli altri; un altro è vietare la propria inerme e civilissima professione di fede o semplicemente di provenienza da una civiltà religiosa. E invece la legge francese esige di rendere clandestini i propri simboli religiosi più vistosi, brandendoli da ogni spazio pubblico. Possiamo ormai ostentare le inclinazioni sessuali ma dobbiamo nascondere la religione.

Questa libertà è un mostro freddo, inumano, insignificante; uno squallido spazio vuoto affacciato sul nulla. Si può deprecare l’uso pacchiano e blasfemo dei simboli religiosi, ma questa campagna di ateismo liberal mi pare un ritorno al più becero passato, un incrocio soft tra le catacombe e la Vandea. Merita di essere respinta, non dirò nel nome di Dio, ma dell’uomo. Quello con la u minuscola, imperfetto ma autentico. Chi dice ad un uomo di nascondere i simboli che hanno dato un senso alla vita sua o di chi l’ha preceduto, lo ferisce a morte nella sua dignità. Il crocifisso resta la testimonianza più alta della sconfitta.  Del figlio di Dio, il Re dei Vinti.

 

Il discorso sui vincenti e sui perdenti è d’importanza fondamentale per comprendere le dinamiche della civiltà moderna. Dal punto di vista moderno, la categoria del “vincente” è l’obiettivo irrinunciabile di qualunque progetto, di qualunque impresa, di qualsiasi iniziativa, fosse anche la più modesta e di breve durata: perché il puto di vista moderno non arriva nemmeno a concepire che si possano investire tempo ed energie – non parliamo poi di soldi – in qualcosa che non produca “successo”, qualsiasi cosa s’intenda con questo termine. In effetti, è proprio sull’ambiguità semantica e concettuale del “successo”, elevato al rango di proiezione ipostatica di tutto ciò che è bello, desiderabile, soddisfacente e gratificante, che si gioca la partita della modernità nei confronti di se stessa e delle sue possibili alternative. Basti accennare al fatto che in tutte le civiltà pre-moderne il successo non è mai il criterio ultimo e unico per giudicare la bontà, o la necessità, o la giustezza di una determinata azione: in altre parole, nelle civiltà tradizionali l’importante non è avere successo, tanto meno godere di un successo permanente (tale sarebbe, in sostanza, la categoria del “vincente”, che è diversa da quella del semplice “vincitore”: perché il vincitore può aver vinto oggi, ma potrebbe perdere domani, mentre il vincente è colui che sta sempre sulla cresta dell’onda e non conosce i rovesci della fortuna); l’importante è fare quel che va fatto, per il bene del singolo e, più ancora, e assai prima, per il bene della comunità.

Noi, oggi, ci troviamo nella situazione diametralmente opposta. A nessuno importa quel che è bene per la comunità; ciascuno esige e rivendicata con forza la sua quota, sempre più ampia, e in forma sempre più aggressiva, di diritti da estorcere alla società. E siccome tutti gli individui, ridotti a monadi atomizzate, esigono sempre nuovi diritti, e sia il legislatore, sia il codice morale moderno, confermano l’assoluta liceità di questa impostazione, il risultato è che la società sta letteralmente collassando sotto l’attacco concentrico d’innumerevoli individui, ciascuno dei quali pretende per sé il riconoscimento del massimo dei diritti, in cambio dei quali non è previsto che si assumano anche tutti i corrispondenti doveri. Ciò accade perché, nel principio democratico che è sotteso alla modernità, e della quale è uno degli aspetti fondanti, non è previsto che l’individuo si metta mai in discussione, né che possa rinunciare spontaneamente a una quota dei suoi diritti, in vista di un bene superiore, non solamente per se stesso, ma soprattutto per gli altri; al contrario, in base al principio democratico, si concepisce la società come una erogatrice inesauribile di sempre nuovi diritti per tutti e per ciascuno, senza tener conto del fatto che, prima o poi, qualsiasi sorgente finisce per esaurirsi, qualora non venga alimentata almeno nella stessa misura in cui distribuisce le sue acque. Un riflesso di questa mentalità aberrante è evidentissimo nelle dinamiche familiari tra genitori e figli, dove i secondi vedono i primi come erogatori di diritti, di servizi, di denaro, senza mai doversi assumere i corrispettivi doveri, fino all’ingresso nell’età adulta, e anche assai oltre: e non è raro che il giudice sancisca il principio che un genitore è comunque tenuto a mantenere il figlio maggiorenne all’infinito, anche se questi non mostra alcuna intenzione di lavorare, né di proseguire gli studi , e quindi, in sostanza, pretenda d’esser mantenuto gratis, senza fare assolutamente nulla.

Ha ragione Veneziani quando ricorda che Cristo è il Re dei Vinti, la cui missione non è di vincere, ma di redimere, e non si redime il mondo se non immolandosi, perché il mondo resiste al bene e conosce solo il linguaggio della forza; poi, però, davanti a chi si lascia vincere per amore, anche il mondo subisce una trasformazione, si mette in ascolto, diventa capace di vedere quel che, sul principio, non vuol mai vedere: che esistono diverse maniere di vincere, e quella materiale è la più grossolana e la più effimera. Per vincere veramente, bisogna sacrificarsi. Ora, la massima sconfitta possibile, per la mentalità moderna, è rappresentata dalla morte: è per questo che l’uomo moderno diventa letteralmente pazzo all’idea di dover morire. Impazzisce e non vuol saperne; in compenso, riversa nelle sue attività il furore disperato che il pensiero della morte, rimosso, gli provoca. Cristo ha vinto perché ha accettato di andare sulla croce; la Chiesa ha vinto finché ha accettato di seguirne l’esempio. Ma oggi la Chiesa, specie con papa Francesco, si è discostata da quel modello: vuol vincere e, per riuscirci, vuol piacere alle folle, accarezzando le loro debolezze, invece di richiamarle all’idea che il sacrificio è necessario per conseguire la vera vittoria. Ed è qui che si rivela l’errore clamoroso, oltre che l’infedeltà al Vangelo, della chiesa neomodernista: tentando di riuscire vincente, essa si adegua allo spirito del mondo moderno; e, così, facendo, prepara la sua rovina…

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