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Feb 06, 2017

 

Il grande inganno neoliberista

di Ilaria Bifarini

analista, specializzata su temi economici e finanziari

 

Il neoliberismo si presenta come una scienza immanente, una teoria del tutto, con una forza carismatica propria di una religione, o meglio di una setta.

Partiamo da un acronimo, MPS, ma non per parlare dello sciagurato ed ennesimo fallimento bancario, ma piuttosto del fenomeno complesso che lo ha generato. Mps è l’abbreviazione di Mont Pelerin Society, che prende il suo nome da un’amena e tranquilla località montana della Svizzera, dove nel 1947 l’illustre economista Friedrich von Hayek ha dato vita a “uno dei più potenti corpi di conoscenza della nostra epoca”. Non un normale gruppo di interesse o di lobbisti, ma un vero progetto di dominio sociale e culturale che, partendo da un gruppo iniziale di 38 partecipanti, ha conquistato l’intero continente e la storia.

Il neoliberismo si presenta come una scienza immanente, una teoria del tutto, con una forza carismatica propria di una religione, o meglio di una setta. Il pilastro su cui si basa è quello, noto a tutti, dell’economia neoclassica: l’aumento costante e continuo del Pil degli Stati, alimentato da una crescita incessante dei consumi, a sua volta sostenuta da sempre nuovi bisogni. Perché questo meccanismo si tenga in vita, è necessaria una massiccia dose di propaganda di massa, affinché la gente sia sempre indotta a comprare.

Ma come ha preso piede questo meccanismo perverso, che una volta avviato ha assorbito l’intero modello sociale? Mentre in America il modello consumistico si è affermato già nel dopoguerra, per far fronte all’eccesso di produzione immesso dall’industria bellica, nel Vecchio Continente, e in particolare in Italia, gli anni Settanta sono stati lo sfondo di grandi battaglie sociali e di rivendicazione dei diritti umani, in primis quelle dei lavoratori per ottenere maggiori tutele e riconoscimenti. Movimenti di protesta sociale per gettare le basi di un’economia, una politica, una cultura migliori perché più umani. Poi, la grande inversione di marcia: l’americanismo prende piede, la cultura del self-made man americano si afferma e con essa la rincorsa al successo, al riscatto sociale, all’affermazione lavorativa ad ogni costo. Una perversione dell’affermazione dell’individuo e del suo bisogno di riconoscimento, ben sintetizzata nell’obamiano “Yes, we can”. L’uomo può tutto – basta darsi da fare e lavorare sodo, ce lo dicono i film americani – e il possesso di beni sempre nuovi, il loro consumo smodato, basta a renderci felici.

Le contingenze economiche favorevoli non fanno che alimentare questa fiducia sconfinata nella bontà del modello di consumo e l’Italia in quegli anni è una delle maggiori potenze produttive mondiali. È in questo contesto spensierato e di crescita che il virus letale del neoliberismo attecchisce. Nel clima di fiducia globale le forze neoliberiste seducono e ingannano le nostre classi politiche e industriali, per mezzo del potere che solo la scienza economica è in grado di esercitare. L’escamotage è diabolico e infallibile: la Destra si traveste da Sinistra, e sotto le vesti della modernizzazione, avviene rapidamente la liberalizzazione di flussi di merci e di persone, l’apertura incontrollata dei mercati globali e l’accelerazione di quel processo d’integrazione europea che depaupera gli Stati della propria sovranità. Il senso di coesione sociale e d’interesse comune vengono messi in secondo piano per lasciare la scena alla liberalizzazione economica incontrollata e al raggiungimento dell’unione monetaria europea. La lotta all’inflazione e al debito pubblico divengono presto i nuovi dogmi delle economie europee, a scapito del benessere reale dei Paesi. Improvvisamente, le popolazioni si ritrovano a fare i conti con bilanci pubblici che richiedono l’assoluto, quanto irrealistico, pareggio del bilancio.

Politiche di austerity e (s)vendite di asset pubblici strutturali diventano rapidamente le uniche leve economiche a disposizione dei Paesi per gestire le proprie economie, improvvisamente precipitate nel baratro. I cittadini, ormai risucchiati nel vortice “consumo-produco-necessito”, non hanno modo di rendersi conto di cosa stia avvenendo e accettano ignari, con senso di abnegazione e inevitabilità della pena.

Nello stesso tempo, alimentato dal debito, si impone un sistema finanziario e creditizio ipertrofico e autoreferenziale, che nulla produce e tutto distrugge. L’enorme carico di titoli spazzatura, crediti deteriorati e sofferenze prodotti da questo sistema perverso – si stima che sia pari a circa 50 volte il Pil mondiale!- è mascherato in debito pubblico, a carico quindi dei cittadini. Le banche nazionali non hanno più la possibilità di emettere moneta, avendo rinunciato alla loro sovranità monetaria a favore della BCE, e l’onere di ripagarlo è completamente a carico dei lavoratori, sempre più deboli e privi di tutele.

Il grande inganno neoliberista non fa sconti, ma le élite finanziarie sempre più ricche e potenti generano un aumento dei flussi finanziari a livello globale, che si alimentano dei debiti e non producono benessere reale, ma tanto basta perché il sistema trovi la sua ragione d’essere.

 

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Zuppa di Porro in salsa liberista

Commento alle esternazioni di Nicola Porro in TV

di Ilaria Bifarini

Già il titolo del libro non lascia presagire bene: “La disuguaglianza fa bene”. Già, proprio così! E a togliere ogni ragionevole dubbio che si tratti di una provocazione ci pensa il sottotitolo: “Manuale di sopravvivenza di un liberista”. L’autore? Il giornalista Nicola Porro.

Più che un libro si tratta di un collage di testi di autori diversi che vanno da Ricossa a Einaudi passando per Friedman, tutti accomunati dall’appartenenza all’ideologia liberale. Già nell’uso che viene fatto del termine emergono forti perplessità sulla scientificità del testo: l’autore, ritenendo “liberale” una parola inflazionata, decide di utilizzare come suo sinonimo “liberista”.

La tesi sostenuta è che “non si può essere gli uni senza essere gli altri”. Non è esattamente così: mentre il liberalismo implica il liberismo, ossia la sua applicazione in campo economico, non è necessariamente vero il contrario. Si può essere a favore del libero mercato, della concorrenza e della competitività – con le degenerazioni contemporanee a cui assistiamo, dalla perdita dei diritti dei lavoratori e della loro mercificazione, all’austerity che impone l’annullamento dei servizi sociali- ma non abbracciare l’ideologia liberale, il cui sviluppo ha origini lontane e diverse articolazioni. Porro fa un minestrone e include tutti, resuscitando persino Alessandro Manzoni e scomodando l’autore francese Houellebec. Fin qui parliamo di metodo (peraltro non ho la minima intenzione di spendere l’equivalente di un aperitivo per leggere un’accozzaglia di autori e mi sono limitata a scaricare l’introduzione gratuita), ma passiamo ai contenuti!

Il libretto, chiarisce subito l’autore, è in difesa dei liberisti, la cui sopravvivenza sarebbe osteggiata duramente dal sistema e dalla sinistra.

Nulla di più falso: l’attuale sistema socio-economico internazionale è totalmente improntato sul neo-liberismo e, a ragione, si parla di una “destra travestita da sinistra” che, in nome del libero mercato e nel massimo delle sue forze grazie al sistema Euro, ha soppiantato ogni modello sociale e collettivo. Tuttavia, per l’autore “la collettività non esiste in sé, è la somma di una molteplicità di individui”, mentre la “Destra non è la destra sociale e non è nemmeno conservatrice”, bensì quella individualista, e il liberalismo che viene elogiato nel libro è proprio quello che fa leva sull’individualismo.

La tesi sostenuta da Porro è che la forte disuguaglianza -di cui i dati pubblicati recentemente dall’Oxfam hanno fornito un allarmante spaccato- sia un’invenzione mitologica e che negli ultimi 30 anni il benessere globale si sia accresciuto enormemente.

Nel suo appello spassionato a un revanche liberista – si, proprio così, invita i liberisti di tutto il mondo a darsi una mossa!- stigmatizza diversi comportamenti da parte della popolazione: dal dissenso verso forme di ostentazioni di ricchezza all’uso dei social e di internet, considerati una deriva antiliberale, alla diffusione della sharing economy e all’attenzione per l’ambiente.

Secondo Porro “il pensiero populista, sconfitto intellettualmente dai liberali, ieri si chiamava socialismo; oggi si è aggiornato sotto nuove forme, non meno intransigenti sulla sacralità delle proprie idee”.

Insomma, “La disuguaglianza fa bene” si presenta come una zuppa mista dal contenuto indefinibile ma dal sapore decisamente sgradevole; indigesta per una Destra che abbia a cuore il futuro del Paese e della collettività, non la protezione dei privilegi del singolo individuo, già garantiti dall’attuale sinistra.

 

Vedi anche: Globalizzazione neoliberista esiste una alternativa al saccheggio della terra?

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