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giovedì 9 febbraio 2017

 

Due presidenti, un unico totalitarismo.

Putin e Trump

di Fabio Della Pergola

Il russo.

L’aspetto più evidente della situazione politica attuale è la particolare corrente di empatia che sembra scorrere fra i due leader “forti”, Trump e Putin (apprezzati da molti politici europei, compreso Beppe Grillo). Empatia sorprendente vista la storia di secolare ostilità fra i due paesi, interrotta solo nel breve periodo dell’impegno antinazista e radicatasi poi nei tanti decenni della “guerra fredda”.

Le due personalità sono simili, non uguali, ma l’empatia, che potrebbe apparire superficiale o opportunistica, nasconde affinità ideologiche decisamente più significative. 

Per cercare di approfondire il tema è necessario valutare alcuni fatti recenti. Il primo ci porta a Katheon, un think tank russo molto vicino alla cerchia di Putin, sul cui sito è stato recentemente pubblicato un breve articolo, cui ho già accennato, firmato da uno dei più noti storici francesi contemporanei, Emmanuel LeRoy Ladurie, che evidenzia un significativo cambiamento nella politica interna russa.

«Il 25 luglio dell’anno scorso - scrive - Putin ha dato finalmente il segnale verde al club Stolypin contro i liberali di Alexei Kudrin, quelli che avevano portato la Russia ad una recessione politica ed economicamente pericolosa con la loro ideologia del libero mercato conforme a quella occidentale».

Sottraendo l’economia russa agli stringenti limiti dell’impostazione “occidentalista” sostenuta da Kudrin e stabilita dal Fondo Monetario Internazionale, gli uomini del club Stolypin - che prende il nome da uno dei più importanti primi ministri di epoca zarista negli anni immediatamente precedenti la rivoluzione bolscevica - sembrano aver inaugurato un cambiamento radicale nell’attuale posizionamento internazionale del paese che - scrive Ladurie - «si deve molto all’influenza del filosofo russo, Alexander Dugin, il quale lavora da numerosi anni per rompere l’influenza occidentale sulla Russia».

Proprio l’influenza di Dugin, definito “rappresentante speciale e consulente di politica estera del Presidente russo” dall’emittente filogovernativa turca TRT World dopo che negli anni scorsi era stato pacatamente critico con Putin, fa intuire che il cambiamento di rotta del governo russo non riguarda solo la politica economica, ma anche il suo più profondo assetto ideologico, incarnato proprio dal filosofo russo.

Alexandr Dugin non è uno qualunque, è stato ispiratore e co-fondatore del Partito Nazional-Bolscevico (oggi fuorilegge), erede del rossobrunismo degli anni ’20 (ripreso in Italia dal nazimaoismo degli anni ’70 e da un nuovo rossobrunismo pseudo-postideologico) cioè di quella tendenza minoritaria che voleva fondere la strategia economica della sinistra comunista con i valori tradizionali della destra nazionalista.

In seguito è stato l’ideatore della “Quarta Teoria Politica” in cui sostiene la necessità di superare le tre ideologie dominanti dell’ultimo secolo; non solo il nazifascismo e il comunismo entrambi tramontati (con la caduta di Berlino nel ‘45 l’uno e con il collasso dell’Unione Sovietica nel ’91 l’altro), ma anche del liberalismo proprio del’Occidente a guida anglosassone, uscito vincitore dal conflitto con i due totalitarismi europei ed impostosi come “pensiero unico” globale negli ultimi venticinque anni.

Il “superamento” proposto dalla Quarta Teoria Politica si fonda sulle radici storiche dell’immenso continente euroasiatico, da cui la denominazione dell'ideologia del movimento e quella di Eurasia data ad una sua rivista di anni fa. Una Eurasia - “da Dublino a Vladivostock”, come sosteneva Jean Thiriart, l’ideologo euroasiatista belga (ed ex volontario nelle Waffen-SS) di Jeune Europe - il cui fulcro è la Russia pre e anti-illuminista (derivata dall’antica opposizione alla modernizzazione settecentesca di Pietro il Grande) ritenuta espressione politica della storica fusione tra le popolazioni slave cristiano-ortodosse, quelle turcofone di religione islamica e quelle più orientali di origine mongolo-tartara.

Alain De Benoist, esponente di primo piano della Nuova Destra francese, nella prefazione al libro-intervista di Dugin, Eurasia. Vladimir Putin e la grande politica, scrive che «i fautori dell’eurasiatismo respingono la visione (e l’eredità) “occidentalista” della Russia [e] rivalutano positivamente Gengis Khan e l’Orda d’Oro. Mettendo l’accento sull’elemento “turanico” della loro storia, come sull’importanza della tradizione ortodossa, denunciano il razionalismo, il materialismo e l’individualismo dell’Occidente (...) Di fronte alla nascente post-modernità, propongono una geopolitica anti-occidentalista, fondata su postulati culturalisti e principi identitari che valgono per tutti i popoli».

Dugin si rivolge quindi alle storiche tradizioni etnico-religiose rivisitandole in chiave dichiaratamente heideggeriana e schmittiana, privilegiando assi di alleanze ben delineate: Mosca-Ankara, Mosca-Teheran, Mosca-Delhi come basi della teoria eurasiatista, ma passando anche per le capitali della storica presenza russa come Belgrado o Damasco o delle nuove amicizie da consolidare come Atene. E richiamando l'Europa tutta a riscoprire le sue antiche radici cristiane in ottica anti-atlantista. Gli anti-occidentalisti hanno molte ragioni di accusare il razionalismo, il materialismo e l’individualismo nati con la Rivoluzione Francese e colonne portanti della “civiltà occidentale”: «tutto ciò è il volto della Bestia, l'Anticristo», scrive Dugin. Più laicamente, sono ben conosciute le disuguaglianze, le ingiustizie, le follie della finanza fuori controllo, la freddezza di libertà solo nominali e di una égalité che nasconde da sempre discriminazioni e sopraffazioni. Conosciamo la violenza, il colonialismo, l’imperialismo, lo sterminio di categorie umane qualificate e liquidate come “diverse”. Siamo ben consapevoli della necessità di criticare a fondo, e modificare radicalmente, l’essenza dell’Occidente.

Ma il superamento proposto dagli eurasiatisti - che suona come un fatale canto di sirena per i tanti nostalgici marxisti di ieri e di oggi - non evolve verso un processo storico che garantisca più diritti, più eguaglianza, più libertà, più giustizia; propone semplicemente il ritorno ad un passato imperiale prebolscevico la cui legittimità trovava espressione nel cesaropapismo della tradizione russo-ortodossa di origine bizantina: non più quindi una divisione del mondo nelle categorie politiche di destra e sinistra, nello scontro di classe o in quello storico fra capitalismo e socialismo, ma un superamento regressivo anche delle radici illuministiche della modernità, a cui quelle categorie rimandano, in senso decisamente reazionario, in nome di quella che Dugin definisce una “tradizione sacra”.

Fermamente contrario alla universalità dei valori occidentali come «l'ideologia dei diritti dell'uomo, l'economia di mercato, il sistema democratico liberale, il parlamentarismo, e la divisione dei poteri», il filosofo russo afferma che «altri popoli possono avere altri valori (...) possono preferire la gerarchia, la monarchia, la teocrazia», così come, concede, «il socialismo, il comunismo, l'anarchismo». Una concessione che suona come una beffa.

In realtà l’Impero è per lui «la “costruzione statale naturale” dello spazio eurasiatico». È l’antica ideologia tradizionalista che afferma Mosca come “Terza Roma”, eterna e universale; «Dio e la terra - scrive Dugin - è l’essenza stessa del pensiero eurasiatista».

Versione ortodossa della classica triade di ogni conservatorismo, “Dio, Patria e Famiglia” (rigorosamente tradizionale: Dugin è, coerentemente con la sua fede religiosa, un ferreo oppositore delle unioni omosessuali).

Quando l’antimodernismo si veste dei panni di Martin Heidegger o di Carl Schmitt, il filosofo e il giurista del nazismo, queste sono le pericolose derive a cui vengono sottoposte le democrazie occidentali.

Gengis Khan, il più grande conquistatore della storia (personaggio caro a Gianroberto Casaleggio), ma anche il più feroce sterminatore di massa prima dell’invenzione della polvere da sparo (e del Zyklon B), potrebbe essere l’icona della prospettiva antioccidentale dell’eurasiatismo di Alexandr Dugin che all’orizzonte vede «l’alba abbagliante della nuova Rivoluzione Russa, il fascismo immenso, come le nostre terre, e rosso, come il nostro sangue».

L'ideologo di Putin - così lo ha definito il New York Times poche settimane fa - propone l'affermazione su scala euroasiatica di un antimodernismo che si realizza in un "fascismo immenso" in cui Potere Terreno e Potere Celeste convivano in piena armonia.

E da lì sedersi al posto che gli compete in quella che ha definito la "Grande Scacchiera" mondiale.

L'americano.

Per confermare le convergenze ideologiche tra la Russia e gli Stati Uniti di epoca trumpiana non può sorprenderci che Richard Spencer, fondatore e leader indiscusso del gruppo neonazista The Right Stuff, dopo aver coniato il termine Alt-Right per definire l’articolato mondo di supporto alla campagna di Donald Trump costituito dalla destra “alternativa” americana, abbia pensato che essa costituisca «una sorta di “quarta teoria politica”», facendo esplicito riferimento ad Alexandr Dugin.

Conosce il filosofo russo, è evidente. Se non altro perché la sua ex moglie, Nina Kouprianova, è stata la traduttrice in inglese del libro più filosofico di Dugin, Martin Heidegger: the Philosophy of Another Beginning.

In questa ottica, non in quella poco interessante e indimostrata dell'intervento di hacker russi nella campagna presidenziale americana, si può affermare che la vittoria di Trump sia stata davvero una vittoria di Putin. Perché l'ideologia che sembra essere vincente al Cremlino tende ad essere duplicata, ovviamente nelle forme originali imposte dalla storia americana, da quella che occupa oggi la Casa Bianca.

Siamo in presenza di qualcosa che si pone al di là del tradizionale conservatorismo repubblicano, verso - e forse anche oltre - la destra rabbiosa dei Tea Party a cui appartengono sia il vicepresidente Mike Pence, “cristiano rinato” e antiabortista militante, sia Steve Bannon che dei Tea Party della costa orientale è stato a lungo il promotore.

Orgogliosamente suprematista, anticapitalista, antifemminista, omofoba, xenofoba, cristiano-tradizionalista, islamofobica e antisemita, la Alt-Right ha trovato il suo megafono nel sito Breitbart News che è stato definito la “piattaforma” della destra radicale dal suo stesso chiacchieratissimo direttore esecutivo, il già citato Steve Bannon, oggi consigliere strategico di Donald Trump e da lui aggregato come membro permanente al National Security Council: una novità assoluta in violazione di una prassi consolidata che limita l’accesso dei politici nella stanza dei bottoni "tecnica" più importante della superpotenza americana.

Bannon partecipò in video, tre anni fa, ad una conferenza organizzata in Vaticano dal Dignitatis Humanae Institute, il think tank ultraconservatore guidato dal cardinale americano Raymond Burke, capo della fronda cattolica di stampo pre e anti-conciliare e oggi patrono del Sovrano Militare Ordine di Malta. Nel suo intervento Bannon denunciò la crisi dell’Occidente “giudaico-cristiano”, usando esplicitamente questa definizione originata - non a caso - in epoca puritana, ma ben poco gradita a molti filosofi e pensatori di parte ebraica che ricordano bene i due millenni di antigiudaismo cristiano («Non esiste ora né è mai esistita una tradizione ebraico-cristiana» scriveva anni fa il rabbino Jacob Neusner).

In questa occasione Bannon ha sostenuto i valori più tradizionalisti della religiosità occidentale proiettati in un immaginifico “Tea Party globale” contrario al capitalismo “de-spiritualizzato” e ancor più al tendenziale ateismo culturale della modernità.

Anche lo stratega della Casa Bianca, come l'ideologo del Cremlino, Alexandr Dugin, sembra delineare l’alleanza - molto bizantina - tra trono e altare, tra potere civile e potere religioso, propria della “Chiesa militante”, passando attraverso la programmatica distruzione dello stato di cose presenti.

Applicando un metodo da “leninista”, come si è autodefinito in un'intervista, ma con obiettivi politici di estrema destra, porta avanti il suo obiettivo dichiarato di radere al suolo tutto l’establishment contemporaneo, senza fare distinzioni tra conservatori e progressisti, tra Democratici e Repubblicani, tra gli oppositori e gli attuali alleati. Questo è, in estrema sintesi, il programma politico di Steve Bannon.

«“Lenin,” he said, “wanted to destroy the state, and that’s my goal too. I want to bring everything crashing down, and destroy all of today’s establishment.” Bannon was employing Lenin’s strategy for Tea Party populist goals. He included in that group the Republican and Democratic Parties, as well as the traditional conservative press».

 

Torna, in altre forme, l'idea dughiniana di andare "oltre" le categorie di destra e sinistra per smantellare il sistema a cui quelle categorie rimandano. Resta da vedere se glielo faranno fare.

In ogni caso questo è il mantra sentito tante volte in questi anni a cavallo del millennio, il mantra di chi - come l'attualità ormai dimostra - non propone altro che la resa dei conti finale con qualsiasi ipotesi progressista e trasformativa per portare a compimento l'affermazione definitiva della destra più tradizionalista e reazionaria.

Non conservatrice, che è parte integrante del sistema, ma reazionaria, cioè impegnata a produrre una crisi sistemica.

«Dugin scrisse in termini positivi di Trump l’inverno scorso e Bannon si è riferito a Dugin nel suo intervento in Vaticano - scriveva il commentatore politico (conservatore) David Brooks sul New York Times il 10 gennaio - È interessante leggere l’ideologo di Donald Trump, Bannon, accanto all’ideologo di Putin, Alexandr Dugin; uno è un Cristiano americano e l'altro un Ortodosso russo, ma entrambi hanno grandiose, radicali teorie sulla storia del mondo, entrambi credono che siamo in un apocalittico scontro di civiltà, entrambi coniugano perfettamente l'analisi economica, morale e politica. Entrambi consapevolmente si vedono come parte di un movimento populista internazionale vagamente affiliato, tra cui il Fronte Nazionale in Francia, Nigel Farage in Gran Bretagna e molti altri».

A quelli menzionati possiamo aggiungere senza tema di smentita altri gruppi della destra xenofoba europea come gli ungheresi di Jobbik, i bulgari di Ataka, gli austriaci del FPO, i tedeschi di AFD, la Lega di Salvini, tutti entusiasti estimatori di Trump e di Putin (come di Dugin e di Bannon) e presenti agli incontri organizzati dagli strateghi russi di Katheon

Inutile (o necessario?) aggiungere che l'apprezzamento del capo politico del Movimento 5 Stelle per i due leader "forti" - così come il suo dichiarato, per quanto timido, appoggio a Trump in campagna elettorale - conferma che lo stesso si collochi in una strategia internazionale decisamente pericolosa, con titubanze derivanti da qualche ripensamento e soprattutto dalla composizione eterogenea del suo elettorato.

La lista dei sostenitori di questa strategia, tutti antieuropeisti, fa chiaramente capire che la dissoluzione dell'unione europea sia al primo posto dell'agenda politica sia di Trump che di Putin. Uno tende all'isolazionismo della tradizione americana conservatrice e teme fortemente, come qualsiasi presidente USA, lo sviluppo economico e politico di una vera potenza europea, l'altro veicola l'avversione eurasiatista all'atlantismo di origine postbellica.

Apparentemente l'empatia fra i due può dare nell'immediato risultati positivi in termini di coesistenza pacifica, smorzando alcuni punti di attrito pericoloso; ad esempio in Ucraina dove le frizioni, sfociate in una sostanziale guerra civile, sono state alimentate in gran parte dai neocon americani alla McCain, pur in un quadro di pretese egemoniche del Cremlino su questa terra di confine. Ma Dugin riconosce che l'Ucraina è attraversata da una linea di faglia tra popolazioni storicamente "occidentaliste" ed altre russofone ed eurasiatiste. Il che prelude a una accettata e concordata scissione del paese per aree di appartenenza etnico-linguistica.

Un punto di possibile contrasto più immediato potrebbe essere il Medio Oriente dove Trump ha detto di volersi impegnare a fianco della nuova coalizione russo-turca contro l'ISIS, ma conservando una prospettiva anti-iraniana molto decisa e già delineata in campagna elettorale. Teheran rientra invece nel progetto di alleanze eurasiatiche strategiche del Cremlino, insieme alla Turchia e alle ex-repubbliche sovietiche dell'area centroasiatica musulmana. È probabile che anche in questo caso l'empatia strategica prevalga e che l'esibizione muscolare di Trump in campagna elettorale si sgonfi rapidamente per volgersi verso un più pragmatico nulla di fatto che salverebbe l'accordo sul nucleare firmato da Obama. Facendo infuriare, di nuovo, sauditi ed emiri del golfo.

Fra i due nuovi amici si barcamena intanto il governo israeliano - entusiasta di Trump, ma ormai decisamente vicino anche a Putin - che approfittando della situazione si è affrettato a presentare e a far approvare in Parlamento la più inaccettabile legge di furto "legalizzato" di proprietà private palestinesi mai viste prima, voluta dal leader dei coloni Naftali Bennet. Ma Trump ha smorzato gli iniziali entusiasmi della destra israeliana affermando che gli insediamenti non favoriscono la pacificazione dell'area. Come è ovvio che sia.

L'accordo fra i due leader corre invece il rischio di collassare - in un futuro non definibile - nel confronto sulla Cina che uno vede come alleato strategico del progetto eurasiatico e l'altro come avversario assoluto, anche se Trump ha fatto un bel passo indietro - un altro - rispetto alla provocatoria prima telefonata da presidente al premier di Taiwan, chiarendo con Pechino che per lui esiste "una sola Cina" (ed è evidente che intende quella più grossa).

In ogni caso è qui che si giocherà davvero, dissoluzione europea a parte, the Big Game, il grande gioco geopolitico.

La prospettiva che si apre oggi nel panorama politico internazionale sembra essere dunque un inquietante Nuovo Ordine Mondiale di cui si intuiscono i problemi geopolitici futuri, ma dove si annodano anche i fili neri che legano i progetti coltivati in parallelo dai due colti, esperti, sottili (e pericolosi) ideologi antisistema.

Dove “sistema” indica solo apparentemente ciò contro cui si muove il rumoroso tsunami delle maggioranze silenziose, delle classi medie impoverite dalla crisi ed emarginate dal potere (già tradite in realtà, alla faccia dell'America rurale e proletaria che lo ha votato, dalla nuova liberalizzazione concessa alla speculazione finanziaria da Trump - autonominatosi a suo tempo "nemico di Wall Street" - con il depennamento del Dodd-Frank Act, voluto da Obama per arginare i danni della crisi del 2008).

Ciò che invece si intende realmente con "sistema" da abbattere, e che sembra essere in serio pericolo, sono quelli che noi ci ostiniamo a chiamare “valori fondamentali della democrazia”. Valori che progressisti e conservatori, ognuno a proprio modo, hanno difeso anche contro il nazismo. Cioè contro l'unico processo realmente antisistemico sviluppatosi dai tempi della Rivoluzione Francese a oggi.

I progetti antisistema possono assumere caratteristiche dai tratti perfino psicopatologici: come scriveva lo psichiatra Massimo Fagioli nel 1980 a proposito della rivoluzione iraniana, «dall’annullamento della realtà attuale e della storia si va nell’astratto e nella dissociazione più eclatante... dallo Scià a Khomeini? Un salto indietro di mille anni».

Si pensa di contrastare le storture della modernità - inaccettabili, criticabili, modificabili opponendosi con una prassi trasformativa alle velleità più conservatrici - per evolvere verso una società più giusta e umana. E si finisce invece con lo sprofondare all’indietro in una involuzione regressiva di secoli. Mai come oggi il ricordo di Weimar è suonato così sinistro. Mai come oggi l'idea di una incipiente Vandea appare brutalmente nitida.

Avremo bisogno di tutti gli anticorpi che le nostre democrazie possono produrre per affrontare una deriva reazionaria di questo tipo. E per non dover sentire risuonare le agghiaccianti ammonizioni di Ivan IV, il primo a definirsi “zar” (caesar) nel 1561: «chi si oppone a un potere come il nostro a maggior ragione si oppone a Dio». Sembra di sentire Erdogan.

A noi resta il compito di resistere, qualunque cosa accada, per poter continuare a proporre un cammino sensato di trasformazione - non psicotica - dell'esistente.

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