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15 febbraio 2017

 

Ai nostri giovani la realtà fa più paura della morte

di Lorenzo Maria Alvaro

 

Un sedicenne di Lavagna che si getta dalla finestra. Una 17enne di Milano che si lancia da un'auto in corsa e un 22enne di Rovigo che si butta sotto un treno. Tutto nella stessa giornata. Per il pedagogista Novara «stiamo trasformando temi educativi in questioni giudiziarie. E siamo di fronte ad una generazione affetta da “carenza conflittuale” e incapace di affrontare la realtà»

 

La guardia di finanza perquisisce la sua camera alla ricerca di droga dopo che gli erano stati trovati in tasca una decina di grammi di hashish durante i controlli all'uscita dell'istituto scolastico di Lavagna che frequentava.

 

Si è sentito perduto davanti alla mamma che piangeva. Il ragazzo non ha retto il peso della vergogna e di aver tradito la fiducia dei genitori. Si è tolto la vita a 16 anni, lanciandosi dalla finestra della sua abitazione. Questo è solo l’ultimo caso delle ultime 24 ore.

A Milano una ragazza di 17 anni si è uccisa lanciandosi dall’auto del padre in corsa. Mentre a Rovigo un altro giovane di 22 anni, ha deciso, per non dover rivelare ai genitori, che lo aspettavano a casa per festeggiarne la laurea, di aver mentito sul suo percorso di studi, si è buttato sotto un treno. Tre casi differenti che hanno solo due analogie: il drammatico epilogo e la giovane età. Per capire cosa stia succedendo abbiamo intervistato il pedagogista Daniele Novara.

 

Professore, in queste ore sui media si parla solo del ragazzo di Lavagna. C’è chi incolpa i genitori, chi incolpa la polizia e chi parla, come Saviano, di morte di Stato. Analizzando la cronaca però si scopre che è solo uno dei tre casi nello stesso giorno. Non è forse il caso di uscire dalle particolarità degli episodi e provare ad allargare l’analisi?

Certamente. Per allargarla le questioni da prendere in esame sono due. In primo luogo che una serie di problemi stanno passando dal campo dell’educazione al campo giudiziario. E questo non è solo sbagliato ma molto pericoloso. Pensiamo al bullismo e alla droga che sono problemi educativi, letteralmente educativi. Tematiche di una profonda immaturità all’interno di un’età particolare come quella dell’adolescenza, ma anche in alcuni casi della preadolescenza e dell’infanzia, trattati come questioni da aula di tribunale. Non è legittimo in nessun modo che la società consegni questi problemi agli psicofarmaci o ai distretti militari. Non è la magistratura a dover affrontare queste cose. È un errore che pagheremo molto caro. L’Italia è un’eccellenza nella gestione dei propri giovani. Ma rischia di diventare una Caporetto. Le spinte politiche rancorose, che parlano di combattere in campo aperto i comportamenti sbagliati dei giovani, spostando improvvisamente il baricentro di quella che è sempre stata una posizione educativa e di recupero ad una vocazione poliziesca.

I politici però affermano che si debbano condannare certi gesti…

Sfido chi oggi fa le leggi ad affermare di non essersi mai fatti gli spinelli da giovane. Ma lo devono anche dimostrare.

Quindi lei certi temi non li ritiene così gravi da meritare di entrare in Parlamento?

Dico che è molto interessante che i ragazzi, in una recente ricerca, abbiano risposto all’80% che quello che gli adulti ritengono essere cyber bullismo per loro non lo è. C’è una percezione completamente diversa dei problemi. Siamo adulti che liberano serpenti dove invece ci sono solo piccoli lombrichi.

L’altro elemento dell’analisi?

Il secondo elemento è che ovviamente ci troviamo di fronte ad un a generazione adolescenziale particolarmente fragile da un punto di vista emotivo. Questo è vero e lo dicono tutte le ricerche. C’è quella che in un recente lavoro chiamo “carenza conflittuale”. Significa che c’è una profonda difficoltà a gestire le situazioni critiche, di contrarietà e di conflittualità. Non solo con gli adulti ma anche in generale. Sia coi coetanei che in situazioni di pure e semplice frustrazione. Sono ragazzi cresciuti in contesti eccezionalmente virtuali. Molti di loro vivono nel mondo dei videogiochi, come i ragazzi di Ferrara che hanno ucciso i genitori. Hanno indici di socializzazione molto bassi e sono eccessivamente coinvolti nella vita degli adulti che li proteggono e li sottopongono alla loro iper apprensione. Sono ragazzi con difficoltà gravi ad affrontare le comuni fatiche della vita e le normali crisi o gli ostacoli che si incontrano quotidianamente. Per tanto agiscono poi in modo profondamente autolesionistico. Se andiamo a vedere la cronaca locale, come sottolineava giustamente, scopriamo tanti episodi di questo tipo.

Non è una contraddizione che una persona così fragile abbia il coraggio di fare un gesto così definitivo come togliersi la vita? Come si spiega?

Si spiega nella logica autolesionistica. Teniamo conto che l’autolesionismo anche estrema è più diffuso di quel che si dice. È 8 volte superiore ai dati di omicidio. Quindi addirittura dovrebbe essere 16 volte superiore, visto che molti suicidi non vengono riconosciuti tali. Se pensa ai disturbi alimentari, diffusissimi, sono casi di autolesionismo. Tanti incidenti sono in realtà suicidi dissimulati. Non ci vuole coraggio, ci vuole solo una profonda difficoltà, ontologica, ad affrontare la realtà. Si preferisce annullare i problemi piuttosto che affrontarli. La realtà fa più paura della morte. Basta poco per destabilizzare l’equilibrio del giovane e portarlo a scelte irreparabili. La scelta della polizia, francamente molto sbagliata, di perquisire la casa è bastato a questo giovane per non reggere più la situazione.

Come si può uscire da questo empasse?

Dobbiamo renderci conto che la cultura del videogioco sta rovinando i ragazzi. I neurologi ci dicono che quando un ragazzo si fa tante ore ogni giorno davanti ai videogiochi il suo cervello comincia a mortificarsi precludendosi importanti esperienze della vita e a ridurre la sua capacità di affrontare i passaggi evolutivi. Si aliena rispetto alla realtà concreta. A questo va aggiunto che gli ultimi prodotti di intrattenimento sono molto pericolosi perché richiedono una grande devozione e investimenti di tempo ingentissimi. Diventano una compulsione. Ovviamente dietro ai videogiochi ci sono genitori fragili che non sanno assumersi il proprio ruolo educativo. Questo è molto più pericoloso che farsi uno spinello ogni tanto. È su questo che bisogna lavorare.

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