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lunedì 27 febbraio 2017

 

L’emozione del passaggio generazionale

di Corrado Faletti

 

Le nuove generazioni oggi chi sono? Cosa intendiamo veramente quando parliamo di nuove generazioni?

 

Cerchiamo di capire i riferimenti per cui definiamo una generazione nuova: il primo riferimento è sicuramente quello anagrafico, una volta si andava per classi di leva, i coscritti di una classe di leva definivano la nuova generazione, sopra o sotto l’età del militare, perché questo periodo coincideva con l’uscita dalle famiglie; un’uscita non tanto fisica ma certo mentale, l’età adulta coincideva con l’autonomia decisionale, lavoro, militare o università che fosse.

Un riferimento importante e preciso, puntuale come la mezzanotte, di fronte al quale il soggetto giovane aveva poche possibilità di fuga: un appuntamento irrinunciabile per ogni generazione che si preparava a prendere il comando del paese e del mondo del lavoro.

Era come il ballo dei debuttanti, o ci arrivavi con vestito sistemato e sapendo ballare almeno un pochino o facevi la peggior figura della tua vita, rischiando di essere additato per sempre come lo sfigato di turno.

Oggi questo riferimento temporale è sparito!

Non esiste più fagocitato dalla incapacità di definire dei limiti e dei traguardi o quantomeno degli obiettivi generazionali.

È sparita anche la prova di mezza via, ovvero l’esame di maturità, al quale si arrivava con un lavoro duro e complesso che formava il carattere e dava i primi elementi di impostazione dell’età adulta.

Il secondo riferimento era, in forma aulica, l’uscita dalla famiglia, la presa di coscienza di responsabilità sociali che obbligavano ad una partecipazione alla vita attiva in qualità di individuo partecipante e non di famiglio.

Il cosiddetto passaggio da figlio a padre, o da figlio a lavoratore, insomma un passaggio che caricava di responsabilità sociali e professionali.

Questo passaggio oggi non identifica più una generazione perché avviene in periodi asincroni ed è trasversale su più generazioni, distruggendo quell’unità di classe che era invece il nerbo della società degli anni scorsi.

Il terzo riferimento è un riferimento prettamente storico, non temporale, ma legato ad un particolare momento storico del paese (gli anni di piombo, mani pulite, le varie crisi petrolifere e legate a guerre più o meno mondiali).

Oggi possiamo dire che rimane unicamente il terzo riferimento, ma che slegato dai due precedenti diviene pericolosa accozzaglia generazionale.

Non possiamo però dimenticare che oggi esiste un terribile spartiacque generazionale che si identifica nel progresso tecnologico, il cosiddetto momento della generazione digitale.

È un pericoloso momento di incomunicabilità che apre spazi a terribili scenari involutivi nel rapporto tra generazioni.

Ormai ci sono, nell’immaginario collettivo, i vecchi che non sanno usare i social ed i giovani che ne sono avidi consumatori.

Tragico! Soprattutto perché falso come i social di cui si parla.

Falso perché ormai diamo per scontato che se un individuo è sotto i trent’anni è un esperto digitale, cosa assolutamente non vera: noi ci dimentichiamo che la nostra crescita nei confronti di realtà virtuali si basa su una formazione particolare e soprattutto classica, legata alla lettura e non allo scorrere un PDF, legata alla discussione verbale tra pari e non alla chat senza riferimenti identitaricorretti.

Oggi la generazione adulta può affrontare i mondi social con il giusto distacco perché viene da un momento di socializzazione reale e fisico, in cui si sono creati gli anticorpi di un vivere sociale effettivo, legato anche ad un confronto “operativo”, in cui metterci la faccia non era un’espressione idiomatica, ma una realtà in cui la faccia riceveva anche le sue sonore sberle.

Allora quale può essere la “nuova generazione”, quella dei social?

Ammesso e non concesso dove abbiamo messo l’asticella della adultità in questa generazione, sai usare i social sei adulto?

No, certo che no, non è possibile che uno strumento definisca una maturità, non è possibile pensare che la capacità di utilizzo o la sua conoscenza identifichi una generazione.

In cosa la generazione dei nativi digitali dimostra la sua maturità?

Perché abdicare così velocemente la definizione di una nuova generazione lasciandola al semplice profilo tecnologico della stessa?

La maturità, che dovrebbe essere caratteristica dell’attuale generazione adulta, dovrebbe muoverci verso la definizione di obiettivi per la generazione che segue.

Attenzione obiettivi che devono essere di alto livello, per non incappare nel vincolo generazionale in cui si giunge poi alla rivoluzione generazionale e si ha una crisi sociale.

Come possiamo riprendere il controllo su una generazione multiage in cui non troviamo una definizione specifica ma un caleidoscopio di emozioni ancora non incanalate in obiettivi?

Ora viene spontaneo chiedersi quali obiettivi proporre; lavoro, multicultura, futuro familiare, stabilità economica…

Ormai non abbiamo credibilità per proporre obiettivi che la nostra società ha distrutto vivendo al di sopra delle proprie possibilità, dobbiamo proporre obiettivi etici alti, per poter fare un downsizing del nostro vivere comune; dobbiamo passare da una cultura del bene materiale ad una cultura del bene immateriale, identificando nel personale sviluppo di una identità etica il vero obiettivo per queste generazioni.

La prima fase è certamente ricostruire una scala di valori che esca dalla semplice emozione dell’accumulo per trasformarsi nell’emozione dell’accogliere.

L’emozione dell’accumulo guida al bene materiale fingendo un appagamento nel suo possesso, che può essere solo momentaneo e non completo anche perché il bene materiale è per sua definizione soggetto a decadimento ed obsolescenza.

L’emozione dell’accogliere è al contrario infinita perché autorigenerante, essa infatti si basa sulla soddisfazione reciproca di più soggetti e non può essere definita finita in quanto il soggetto dell’accoglienza può solo essere elemento mobile sia dal punto di vista emozionale (una persona) sia dal punto di vista possessivistico (un’azione a vantaggio di altri).

Il punto a favore di questo passaggio è legato alla generazione dei nativi digitali che mostrano sete di valori proprio perché vivono in un mezzo tecnologico da questo punto di vista particolarmente vuoto.

Per abilitare questo passaggio dobbiamo assolutamente passare dalla cultura del “fai quello che vuoi” alla cultura del “no, non è così”; passaggio difficile per le famiglie in cui la cultura dell’accumulo è ancora predominante.

La motivazione forte, che aiuta in questo passaggio, è particolarmente facile trovarla proprio nel complesso meccanismo tecnologico che oggi avvinghia le generazioni e le “scolla” dalla realtà; un’alienazione sociale che proietta l’identità nel mezzo, nello strumento, facendolo diventare contenitore egualitario e massificante.

Come avviene questa trasmigrazione mente – strumento che toglie molta identità culturale ai fruitori di questo mondo virtuale?

Avviene sotto il predominio della velocità della comunicazione e pertanto della mistificazione dei contenuti.

La rete oggi è un grande contenitore di qualunquismo ideologico, perché contiene in forma disaggregata miliardi di informazioni vere e miliardi di informazioni false, un pericoloso contenitore di materia e antimateria, il cui mix porta alla completa afonia mentale.

Ecco il vero motivo per cui l’emozione dell’accumulo è oggi predominante, perché tende a riempire quello che sembra giusto chiamare un vuoto pieno, ovvero un profondo pozzo vuoto colmo solo del nero del suo buio.

Di fronte questa aleatoria ed iconica sensazione di smarrimento culturale il possesso fisico diventa pieno concreto e quindi fortemente perseguibile e ricercabile, perché più facile da trovare nel frastuono ideologico della rete.

Siamo certamente in un passaggio generazionale che avviene con tempi lunghi e dilatati a causa, paradossalmente, di un momento tecnologico fatto di velocità e molteplicità dell’informazione.

In questo passaggio l’emozione dell’accumulo diventa anche transdialettica grazie alla possibilità di appropriarsi delle parole dell’altro facendole divenire proprie tramite un processo di assimilazione oggi definito copia e incolla.

Anche questo processo moltiplica il paradosso del vuoto pieno ideologico perché aggrega concetti ma non significati, espressioni ma non valori. Eppure la percezione della pochezza dell’accumulo è evidente nella noia generazionale, nella svogliatezza emotiva che sembra essere compagna di giochi di questa generazione digitale, sensazioni che, rendendo sempre più acuta la fame di pienezza dell’io, spingono sempre più verso un accumulo contenutistico ai limiti del paradosso, rendendo quasi un obbligo pubblicare la foto del piatto che stiamo mangiando…

Ora la domanda vera è: ma la nostra generazione è in grado di preparare il piatto giusto per questo mondo tecnologico, un piatto fatto dall’emozione dell’accoglienza cucinata nel modo giusto?

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