Fonte: http://johnpilger.com

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25 maggio 2017

 

Colpire Julian Assange: la storia sottaciuta

di John Pilger

Tradotto da Giani Ellena

 

Julian Assange è stato scagionato perché il caso svedese contro di lui era corrotto. Il procuratore, Marianne Ny, ha ostacolato la giustizia e dovrebbe essere processata. La sua ossessione con Assange non solo ha imbarazzato i suoi colleghi e la magistratura, ma ha svelato la collusione dello stato svedese con gli Stati Uniti nei suoi crimini di guerra e di “rendition”.

 

Se Assange non avesse cercato rifugio nell’ambasciata ecuadoriana a Londra, sarebbe stato estradato verso quel campo di tortura americano che Chelsea Manning dovette sopportare.

Tale eventualità è stata eclissata dalla triste farsa che si svolgeva in Svezia. “È una cosa ridicola”, ebbe a dire James Catlin, uno degli avvocati australiani di Assange. “È come se improvvisassero lì per lì sul da farsi”.

Poteva sembrare così, ma c’era sempre uno scopo preciso. Nel 2008 un documento segreto del Pentagono, preparato dalla “Cyber Counterintelligence Assessments Branch”, preannunciava un piano dettagliato per screditare WikiLeaks e diffamare Assange.

La “missione” era quella di distruggere la “fiducia” che rappresentava il “centro di gravità” di WikiLeaks. Questo sarebbe stato fatto con minacce di “esposizione mediatica [e] di perseguimento penale”. L’obiettivo era di mettere a tacere e di criminalizzare quell’imprevedibile fonte di verità.

Forse questo era comprensibile. WikiLeaks ha esposto il modo in cui l’America domina su gran parte degli affari umani, ci ha incluso i suoi grandi crimini, in particolare in Afghanistan e in Iraq: l’abbattimento grossolano e spesso omicida di civili e il disprezzo per la sovranità e il diritto internazionale.

Queste sono informazioni protette dal primo emendamento della Costituzione statunitense. Come candidato presidenziale, nel 2008 Barack Obama, professore di diritto costituzionale, lodava gli informatori per essere “parte di una sana democrazia [che dovevano] essere protetti da ritorsioni”.

Nel 2012, la campagna di Obama vantava sul suo sito web che Obama aveva perseguito più informatori nel suo primo mandato di tutti gli altri presidenti statunitensi messi insieme. Prima ancora che Chelsea Manning fosse processata, Obama l’aveva già pubblicamente dichiarata colpevole.

Sono pochi gli osservatori seri che dubitano che se gli Stati Uniti dovessero mettere le mani su Assange, un simile destino lo attenderebbe. Secondo alcuni documenti svelati da Edward Snowden, Assange sarebbe su di un “elenco da caccia all’uomo”. Minacce di cattura e di assassinio ad Assange sono diventate il pane quotidiano degli estremismi politici statunitensi, in seguito all’assurda dichiarazione del vicepresidente Joe Biden che denunciava il fondatore di WikiLeaks come “cyber-terrorista”.

Hillary Clinton, la distruttrice della Libia e, come come svelato da WikiLeaks l’anno scorso, sostenitrice segreta e personale benefattrice delle forze dell’ISIS, ha proposto una sua conveniente soluzione: “Non possiamo semplicemente mandare un drone a questo tipo”.

In base a dispacci diplomatici australiani, il tentativo di Washington di mettere le mani su di Assange, è “senza precedenti sia nella portata che nella sostanza”. Ad Alessandria, in Virginia, un gran giurì segreto ha cercato per circa sette anni di escogitare un delitto per il quale Assange possa essere perseguito, ma non è facile.

Il Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti protegge editori, giornalisti e informatori, siano essi il direttore del New York Times o il direttore di WikiLeaks. Il concetto stesso di libertà di parola è descritto come “la virtù fondatrice” dell’America o, come la definì Thomas Jefferson, “la nostra moneta”.

Di fronte a questo ostacolo, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti si è inventato accuse di “spionaggio”, “cospirazione per commettere spionaggio”, “conversione” (furto di proprietà del governo), “frode informatica e abuso” (pirateria informatica) e “cospirazione” generica. Hanno favorito l’Atto di Spionaggio, che aveva lo scopo di dissuadere i pacifisti e gli obiettori di coscienza durante la prima guerra mondiale, e che ha disposizioni per ergastolo e pena di morte.

La facoltà di Assange di difendersi in questo mondo kafkiano è stata fortemente ostacolata dagli Stati Uniti che dichiararono il suo caso segreto di stato. Nel 2015, una corte federale di Washington bloccò il rilascio di tutte le informazioni sull’indagine di “sicurezza nazionale” contro WikiLeaks, perché “attiva e continua” e avrebbe potuto pregiudicare “l’attuale processo” di Assange. Il giudice, Barbara J. Rothstein, dichiarò che era necessario mostrare “un’adeguata deferenza all’esecutivo in materia di sicurezza nazionale”. Questa è la “giustizia” di un tribunale illegale.

Per Assange, il suo processo è stato un processo mediatico. Il 20 agosto 2010, quando la polizia svedese aprì una “inchiesta per stupro”, la coordinò illegalmente con i tabloid di Stoccolma. Le pagine frontali dicevano che Assange era stato accusato dello “stupro di due donne”. La parola “stupro” può avere un significato giuridico molto diverso in Svezia e in Inghilterra; una maligna falsa realtà divenne la notizia riportata nel mondo.

Meno di 24 ore dopo, il procuratore capo di Stoccolma, Eva Finne, si fece carico dell’inchiesta. Non perse tempo ad annullare il mandato d’arresto dicendo: “Non credo che ci sia motivo di sospettare Assange di aver commesso stupro”. Quattro giorni dopo, chiuse l’indagine dicendo: “Non si sospetta alcun tipo di reato nel modo più assoluto”.

Qui entra in gioco Claes Borgstrom, una figura altamente controversa nel Partito socialdemocratico, allora in corsa per una candidatura nelle imminenti elezioni della Svezia. Pochi giorni dopo che il procuratore capo respinse l’inchiesta sullo stupro, Borgstrom, un avvocato, proclamò ai media che egli rappresentava le due donne e cercò un nuovo procuratore nella città di Göteborg. Si trattava di Marianne Ny, che Borgstrom conosceva bene, personalmente e politicamente.

Il 30 agosto, Assange entrò volontariamente in una stazione di polizia di Stoccolma dove rispose a tutte le domande che gli fecero. Pensò che quella fosse la fine della questione, ma due giorni dopo, la Ny annunciò che stava riaprendo il caso. In una conferenza stampa, un giornalista svedese chiese a Borgstrom perché si riapriva un caso già chiuso, citando una delle donne che diceva di non essere stata violentata. Egli rispose: “Ah, ma lei non è un avvocato.”

Il giorno in cui Marianne Ny riapriva il caso, il capo dei servizi di intelligence militari svedese – che ha l’acronimo MUST – pubblicamente denunciava WikiLeaks in un articolo intitolato “WikiLeaks [è] una minaccia per i nostri soldati [sotto il comando USA in Afghanistan]”.

Sia il primo ministro che il ministro degli esteri svedesi attaccarono Assange, che non era stato accusato di alcun crimine. Assange fu avvertito che ai servizi segreti svedesi, SAPO, era stato detto dai loro omologhi americani che gli accordi tra Stati Uniti e Svezia per la condivisione dell’intelligence sarebbero “saltati”, se la Svezia lo avesse ospitato.

Per cinque settimane, Assange attese in Svezia che la rinnovata inchiesta di stupro facesse il suo corso. In quel mentre The Guardian era sul punto di pubblicare i “Diari di Guerra” dell’Iraq sulla base delle rivelazioni di WikiLeaks, che Assange avrebbe dovuto sovrintendere a Londra.

Alla fine, lo lasciarono partire. Appena lui lasciò la Svezia, però, Marianne Ny emise un mandato d’arresto europeo e un “allarme rosso” Interpol, normalmente usato per i terroristi e criminali pericolosi.

Assange si presentò in una stazione di polizia a Londra, fu debitamente arrestato e trascorse dieci giorni nella prigione di Wandsworth, in isolamento. Rilasciato su cauzione di 340.000 sterline, e con un bracciale elettronico, era tenuto a presentarsi alla polizia quotidianamente e posto sotto arresti domiciliari virtuali, mentre il suo caso iniziava il lungo iter alla Corte Suprema. Ancora non era stato accusato di alcun reato. I suoi avvocati ribadivano la sua disponibilità ad essere interrogato dalla Ny a Londra, sottolineando che era stata lei a dargli il permesso di lasciare la Svezia. Suggerirono una struttura speciale a Scotland Yard solitamente utilizzata per tale scopo. Lei si rifiutò di venire.

Per quasi sette anni, nei quali la Svezia ha intervistato quarantaquattro persone nel Regno Unito in relazione ad indagini di polizia, la Ny si è rifiutata di interrogare Assange e di andare avanti con il suo caso.

Un ex procuratore svedese, Rolf Hillegren, scrivendo su di un quotidiano svedese, ha accusato la Ny di aver perso ogni imparzialità e descritto la sua condotta personale nel caso come “anormale” e ha chiesto che fosse sostituita.

Assange ha chiesto alle autorità svedesi una garanzia che non sarebbe stato “reso” agli Stati Uniti se fosse stato estradato in Svezia. Questo gli fu rifiutato. Nel dicembre 2010, l’Independent ha rivelato che i due governi avevano discusso la sua estradizione negli Stati Uniti.

Contrariamente alla sua reputazione di bastione d’illuminazione liberale, la Svezia si è avvicinata così tanto a Washington da permettere segrete “rendition” alla CIA – compresa la deportazione illegale di rifugiati. La consegna e la successiva tortura di due rifugiati politici egiziani nel 2001 sono stati condannati dal Comitato delle Nazioni Unite Contro la Tortura, da Amnesty International e da Human Rights Watch; la complicità e la duplicità dello stato svedese sono documentate in controversie civili e nei cablogrammi WikiLeaks.

“Documenti svelati da WikiLeaks da quando Assange si è trasferito in Inghilterra”, scrisse Al Burke, redattore della rete online Nordic News, un’autorità sulle molteplici vicissitudini e pericoli che Assange ha dovuto affrontare, “indicano chiaramente che la Svezia si è costantemente piegata alla pressione degli Stati Uniti in materia di diritti civili. Ci sono buoni motivi per pensare che se Assange venisse preso in custodia dalle autorità svedesi, potrebbe venire trasferito negli Stati Uniti senza che i suoi diritti legali siano presi adeguatamente in considerazione”.

Adesso la guerra ad Assange si è intensificata. Marianne Ny ha rifiutato ai suoi avvocati svedesi e ai tribunali svedesi di accedere a centinaia di messaggi SMS che la polizia aveva estratto dal telefono di una delle due donne coinvolte nell’accusa di “stupro”.

La Ny ha detto di non essere legalmente obbligata a rivelare questa prova critica fino a quando un’accusa formale non fosse stata inoltrata o fino a che lei non lo avesse interrogato. Allora, perché non lo interroga? Siamo in una situazione alla “Catch 22” [in un circolo vizioso].

Quando la scorsa settimana ha annunciato che stava per lasciare il caso Assange, non ha neanche parlato delle prove che lo avrebbero demolito. Infatti uno dei messaggi SMS chiarisce come una delle donne non voleva sporgere alcuna denuncia contro Assange, “ma la polizia non vedeva l’ora di agguantarlo”. Lei fu “scioccata” quando lo arrestarono perché voleva “soltanto che facesse un test per l’HIV”. Lei “non voleva accusare JA di nulla” e che “era stata la polizia a fabbricare le accuse”. Nella dichiarazione di un testimone, la donna dichiara di essere stata “pilotata dalla polizia e da altri intorno a lei”.

Nessuna delle due donne ha mai affermato di essere stata stuprata. Infatti, entrambi hanno negato di essere state violentate e una di loro da allora lo ha persino twittato, “io non sono stata stuprata”. Le due donne sono state manipolate dalla polizia – qualunque cosa ne dicano ora i loro avvocati. Certamente, anche loro sono vittime di questa sinistra saga.

Katrin Axelsson e Lisa Longstaff dell’organizzazione Donne Contro lo Stupro, scrissero: “Le accuse contro [Assange] sono una cortina fumogena dietro la quale un certo numero di governi stanno cercando di reprimere WikiLeaks per aver audacemente rivelato al pubblico la loro pianificazione segreta di guerre e di occupazioni con i loro stupri, omicidi e distruzione… alle autorità importa così poco della violenza contro le donne che manipolano le accuse di stupro come vogliono. [Assange] ha chiaramente asserito di essere disponibile ad essere interrogato dalle autorità svedesi, in Gran Bretagna o tramite Skype. Perché rifiutano questo passo essenziale alla loro indagine? Di che cosa hanno paura?”.

La scelta di Assange era estrema: o l’estradizione in un paese che aveva rifiutato di dire se lo avrebbe o no a sua volta estradato negli Stati Uniti o cercare quello che pareva la sua ultima possibilità di rifugio e di sicurezza.

Appoggiato dalla maggior parte dell’America Latina, il coraggioso governo dell’Ecuador gli ha concesso lo status di rifugiato sulla base di prove documentate e della consulenza legale che faceva intendere la prospettiva che inedite e crudeli punizioni lo avrebbero atteso negli Stati Uniti; che tale minaccia violava i suoi diritti umani basilari; e che il suo stesso governo in Australia lo aveva abbandonato perché colluso con Washington.

Il governo laburista dell’allora primo ministro Julia Gillard aveva persino minacciato di confiscargli il passaporto australiano – finché non le fu detto che sarebbe stata un’azione illegale.

Gareth Peirce, la famosa avvocatessa per i diritti umani che rappresenta Assange a Londra, scrisse all’allora ministro degli esteri australiano, Kevin Rudd: “Data la portata della discussione pubblica, spesso fondata sulla base di falsi presupposti… è molto difficile tentare di garantirgli una qualsiasi presunzione di innocenza. Sul signor Assange ora incombono non una, ma due spade di Damocle di potenziale estradizione in due giurisdizioni differenti, a sua volta per due diversi presunti crimini, nessuno dei quali costituisce reato nel suo paese di origine, e la sua sicurezza personale è a rischio in circostanze così politicamente motivate.”

È stato solo dopo aver contattato l’Australian High Commission a Londra che Peirce ricevette un riscontro, che però non rispondeva a nessuno dei punti urgenti da lei sollevati. In un incontro a cui partecipai con lei, il console generale australiano, Ken Pascoe, incredibilmente affermò che del caso sapeva “solo quello che ho letto sui giornali”.

Nel 2011, a Sydney, trascorsi diverse ore in compagnia di Malcolm Turnbull, conservatore e Membro del Parlamento Federale Australiano. Parlammo delle minacce ad Assange e delle loro più ampie implicazioni circa la libertà di parola e la giustizia, e del perché l’Australia doveva stare dalla sua parte. A quei tempi Turnbull aveva una certa reputazione come sostenitore della libertà di parola. Adesso è il Primo Ministro dell’Australia.

Gli diedi la lettera di Gareth Peirce circa le minacce ai diritti e alla vita di Assange. Lui mi disse che la situazione era chiaramente terribile e promise di parlarne con il governo Gillard. Soltanto il suo silenzio ne conseguì.

Per quasi sette anni questo epocale errore di giustizia è stato soffocato in una campagna infame contro il fondatore di WikiLeaks. Ci sono pochi precedenti. Attacchi profondamente personali, meschini, violenti e disumani sono stati inferti ad un uomo non accusato di alcun crimine eppure sottoposto ad un trattamento che non si riserva neanche a qualcuno accusato di aver ucciso la propria moglie. Che la minaccia statunitense ad Assange fosse una minaccia per tutti i giornalisti, e per il principio della libertà di parola, si è perso nel sordido e nell’ambizioso. Io lo chiamerei anti-giornalismo.

Sono stati pubblicati libri, progettati film, carriere mediatiche sono state avviate o rilanciate sull’onda di WikiLeaks, con il presupposto che attaccare Assange fosse lecito, e sapendo che lui era troppo povero per avviare cause giudiziarie. Con questa storia molti ci hanno fatto i soldi, spesso un sacco di soldi, mentre WikiLeaks ha lottato per la sopravvivenza.

L’ex direttore del Guardian, Alan Rusbridger definì le informazioni divulgate da WikiLeaks – e pubblicate sul suo giornale – “uno dei più grandi scoop giornalistici degli ultimi 30 anni”. Eppure nulla fu fatto per proteggere chi gliele ha fornite e la fonte. Anzi, questo “scoop” divenne un marketing per aumentare il prezzo di copertina del suo giornale.

Senza neanche un soldo ad Assange o WikiLeaks, un libro promosso dal Guardian è diventato un redditizio film di Hollywood. Gli autori del libro, Luke Harding e David Leigh, hanno arbitrariamente descritto Assange come “persona insensibile e disturbata”. Hanno persino rivelato la password segreta che lui aveva confidenzialmente dato al giornale e che serviva a proteggere un file digitale contenente i documenti dell’ambasciata USA. Con Assange intrappolato nell’ambasciata ecuadorena, Harding, fuori tra i poliziotti, gongolava sul suo blog che “sarà Scotland Yard a ridere per ultima”.

Gli studenti di giornalismo farebbero bene ad analizzare questo periodo per comprendere la fonte più onnipresente di “notizie false” – come da dentro i media auto-referenziali con una falsa rispettabilità e come estensione dell’autorità e del potere che corteggiano e proteggono.

La presunzione di innocenza non è stata neppure considerata nel memorabile servizio in diretta di Kirsty Wark nel 2010. “Perché non ti scusi con le donne?” chiese ad Assange, e subito dopo: “Abbiamo la tua parola d’onore che non scapperai?”

Nel programma della BBC, Today, John Humphrys urlava: “Sei uno sfruttatore sessuale?” Assange replicò che il commento era ridicolo, al che Humphrys chiese di sapere con quante donne avesse dormito.

“Fox News sarebbe scesa a quel livello?” si chiede lo storico americano William Blum. “Vorrei che Assange fosse stato allevato per le strade di Brooklyn, come me; avrebbe saputo come rispondere ad una domanda del genere: vuoi dire inclusa madre?”.

La settimana scorsa, su World News della BBC, il giorno in cui la Svezia ha annunciato che stava abbandonando il caso, sono stato intervistato da Greta Guru-Murthy, che sembrava conoscere poco il caso Assange. Continuava a fare riferimento alle “accuse” contro di lui. Lo accusò di mettere Trump nella Casa Bianca; e mi fece presente il “fatto” che i “leader di tutto il mondo” lo avevano condannato. Tra questi “leader” includeva il direttore della CIA di Trump. Allora le chiesi: “Lei è una giornalista?”.

L’ingiustizia riservata ad Assange è una delle ragioni per cui il Parlamento ha riformato l’Atto di Estradizione nel 2014. “Il suo caso è stato vinto in tutto e per tutto”, ha detto Gareth Peirce, “con questi cambiamenti nella legge il Regno Unito ha ora riconosciuto che tutto ciò che è stato argomentato nel suo caso era corretto, eppure Assange non ne ha alcun beneficio.” In altre parole, avrebbe vinto il suo caso nei tribunali britannici e non sarebbe stato costretto a cercare rifugio.

La decisione presa dall’Ecuador di proteggere Assange nel 2012 era immensamente coraggiosa. Anche se la concessione di asilo è un atto umanitario e il potere di farlo è goduto da tutti gli Stati in base al diritto internazionale, sia la Svezia che il Regno Unito hanno rifiutato di riconoscere la legittimità della decisione dell’Ecuador.

L’ambasciata ecuadorena di Londra fu posta sotto assedio e il suo governo umiliato. Quando William Hague del Ministero degli Esteri minacciò di violare la Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche, avvertendo che avrebbe rimosso l’inviolabilità diplomatica dell’ambasciata e mandato la polizia a prendere Assange, l’indignazione di tutto il mondo costrinse il governo a fare marcia indietro. Una notte, la polizia apparve alle finestre dell’ambasciata in un evidente tentativo di intimidire Assange e i suoi protettori.

Da allora, Julian Assange è stato segregato in una piccola stanza senza finestre. Ogni tanto si è ammalato, ma gli fu sempre rifiutato un pass per recarsi all’ospedale. Eppure, la sua forza d’animo e il suo senso dell’umorismo restano notevoli, date le circostanze. Quando gli si chiede come gestisce il poco spazio, risponde: “sempre meglio di un supermax” [cella di massima sicurezza].

Non è ancora finita, ma si sta districando. Il gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla Detenzione Arbitraria – il tribunale che giudica e decide se i governi rispettano i loro obblighi in materia di diritti umani – ha stabilito lo scorso anno che Assange è stato detenuto illegalmente dalla Gran Bretagna e dalla Svezia. Questo è il diritto internazionale al suo apice.

Sia la Gran Bretagna che la Svezia hanno partecipato all’indagine ONU durata 16 mesi, presentando prove e difendendo la loro posizione davanti al tribunale. Nei precedenti casi decisi dal gruppo di lavoro – Aung Sang Suu Kyi in Birmania, il leader dell’opposizione imprigionato in Malesia, Anwar Ibrahim, il giornalista Jason Rezaian del Washington Post detenuto in Iran – sia la Gran Bretagna che la Svezia hanno dato pieno sostegno al tribunale. La differenza è che la persecuzione di Assange persiste nel cuore di Londra.

La polizia metropolitana dice che intende ancora arrestare Assange per violazione di cauzione se abbandonasse l’ambasciata. Poi cosa? Qualche mese di carcere mentre gli Stati Uniti trasmettono la richiesta di estradizione ai tribunali britannici?

Se il governo britannico permette che questo accada, sarebbe, agli occhi del mondo, svergognato in modo totale e storico come accessorio al crimine di una guerra condotta da un potere dilagante contro la giustizia e la libertà, e tutti noi.

 


Link: http://johnpilger.com/articles/getting-julian-assange-the-untold-story

 

20.05.2017

 

 

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