La secessione “open society” della Catalogna

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Ott 30, 2017

 

La secessione “open society” della Catalogna

di Paolo Borgognone

 

Guardate questo video: Youtube.com/Watch

Si tratta di un filmato propagandistico realizzato e postato su YouTube da Omnium Cultural, un movimento secessionista radical-libertario catalano, dichiaratamente pro-Ue, il cui leader, Jordi Cuixart, è stato arrestato, con l’accusa di sedizione, il 16 ottobre 2017. Il video in questione si intitola Help Catalonia, Save Europe, dura 3 minuti e 28 secondi ed è palesemente ispirato a un’analoga operazione propagandistica posta in essere, nel 2014, in Ucraina, allo scopo di persuadere l’opinione pubblica occidentale della buona fede “liberal” ed “europeista” dei golpisti russofobi di Kiev.

 

Scrive infatti, a riguardo, un quotidiano italiano certamente non sospettabile di simpatie “complottiste”, come il Corriere della Sera:

«Help Catalonia, save Europe!», aiutate la Catalogna, salvate l’Europa è il titolo del filmato di 3 minuti e 28 in cui una ragazza si presenta come esponente di una popolazione europea, la catalana, sotto occupazione e brutalmente repressa dalla polizia mentre cerca di esercitare il diritto di voto in un referendum dichiarato illegale dal governo spagnolo (in realtà, da una sentenza della Corte Costituzionale), autoritario e sordo a ogni richiesta di dialogo. Il video […] ha già superato il milione di visitatori. Ma i conduttori delle tivù madrilene hanno ripescato un video girato in Ucraina, tre anni fa, durante le rivolte di piazza Maidan a Kiev, da cui Omnium Cultural sembra perlomeno aver tratto ispirazione: anche allora una ragazza, Yulia Marushevska, si rivolgeva alla comunità internazionale invocando aiuto e sostegno alle manifestazioni di piazza contro la dittatura e la dura repressione del presidente russo-ucraino Viktor Janukovy?, poi effettivamente destituito e costretto a rifugiarsi in Russia.

 

Il giorno 26 ottobre 2017, il video Help Catalonia, Save Europe aveva registrato, sulla celebre piattaforma online YouTube, ben 1.907.848 visualizzazioni. Come nel caso ucraino, il video aveva suscitato la «commozione» di parte dell’opinione pubblica europea, segnatamente di quella più interessata e attraversata da un modus pensandi facente riferimento al liberalismo societario, sensibile e facilmente impressionabile dinnanzi alle lacrime profuse copiosamente da una “giovane attivista” catalana che, in perfetto inglese, singhiozzava «implorando gli altri Paesi europei di non ignorare» le aspirazioni indipendentiste dei catalani.

 

Facciamo ora un piccolo, ma doveroso, passo indietro nella Storia. Nel febbraio 2014, al culmine degli eventi che sfociarono nel golpe antiucraino e antirusso noto come Euromaidan, fu diffuso da Kiev, allo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica “knowledge class” (ceto medio dei semicolti) europea e statunitense alla causa politica dei sediziosi, un video, intitolato, rigorosamente in inglese, I Am a Ukrainian, della durata di 2 minuti e 8 secondi, avente per protagonista una giovane donna, ventiquattrenne all’epoca, di aspetto grazioso, abbigliata e truccata in linea con gli stereotipi occidentali in fatto di mode e costumi, che esortava, in lacrime ed esprimendosi in perfetto inglese, gli ascoltatori a solidarizzare con “i pacifici dimostranti” e a fare pressione sui propri governanti affinché intervenissero a sostegno della “rivoluzione di Piazza Maidan”. Il video, postato su YouTube, ebbe, al 26 ottobre 2017, ben 8.880.943 visualizzazioni ed è reperibile al seguente url: Youtube.com/Watch

Il video I Am a Ukrainian fu girato dal direttore cinematografico britannico Graham Mitchell e pubblicato dal regista statunitense Ben Moses. La protagonista del video I Am a Ukrainian fu una ragazza di nome Yulia Marushevska, nata in Urss nel 1989, cresciuta nel mito dell’Occidente e, nel 2014, candidata a un PhD in letteratura e storia ucraina presso l’Università Taras Shevchenko di Kiev. Il personaggio di Yulia Marushevska fu costruito, negli studios cinematografici americani per la promozione della open society all’estero, al fine di attribuire un “volto democratico” e mediaticamente spendibile (cioè, compatibile con i canoni occidentali in fatto di costumi, atteggiamenti, lessico e riferimenti pseudo-culturali individuali) a una sedizione, quella di Maidan, i cui animatori principali erano costituiti da gruppi armati di chiara impronta ultranazionalista (ma atlantisti e per questo accettati come forza d’urto golpista, russofobica, dai ceti politici, economici, mediatici e accademici liberal occidentali). Yulia Marushevska, giovane, graziosa, dai lineamenti delicati, i capelli biondi, un filo di trucco sul viso e i grandi occhi azzurri che imploravano l’Occidente di prestare aiuto al “popolo ucraino” che si pretendeva represso e brutalizzato da una “dittatura filo-russa” e cripto-sovietica, pareva essere fatta apposta per piacere a quel ceto medio occidentale, liberale e progressista, che aveva elevato il senso di colpa per i crimini del cosiddetto, dalla vulgata accademica liberal, “totalitarismo novecentesco” europeo (fascista e comunista) a propria ragion d’essere costituente. Yulia Marushevska incarnava perfettamente il ruolo, del tutto cinematografico, ovvero stabilito attorno ai presupposti della fiction, cioè della finzione scenica, della “vergine” democrazia minacciata dalla “belva” russa e sovietica. L’innocenza della gioventù cosmopolita e open mind che vuole soltanto essere libera di studiare, viaggiare, innamorarsi e divertirsi “senza frontiere” contrapposta alla brutalità del “mondo autoritario” rappresentato, nello stereotipo mainstream occidentale, da tutto ciò che concerne l’anima nazionale russa ed eurasiatica.

Il gioco, pertanto, era fatto. La frase «questa non è l’Unione Sovietica […], noi vogliamo vivere liberi» pronunciata, tra le lacrime, da Yulia Marushevska nel video I Am a Ukrainian, insieme ai ripetuti riferimenti dell’attrice al desiderio degli ucraini di vivere “liberi” secondo quelli che erano gli standard occidentali in fatto di mode, costumi e accesso ai consumi, sintetizzava appieno il modello dicotomico stabilito, con evidenti finalità propagandistiche, dal video I Am a Ukrainian: da un lato ciò che la upper class americanocentrica e cosmopolita considera “il Bene”, ossia la open society (giovanilismo a legittimazione di ogni impresa neocoloniale di Usa e vassalli, libero desiderio per tutti, libero consumo per chi può permetterselo, libero commercio per le grandi aziende multinazionali hi tech, gay-friendly, femminismo postmoderno, pseudo-cultura della mobilità surmoderna, ecc.); dall’altro, ciò che i ceti affluenti di cui sopra reputavano costituire l’incarnazione del “Male”, ovvero il patriottismo, il socialismo, la sovranità nazionale correlata all’idea di limite e di frontiera intangibili, la Tradizione (equiparata, nel lessico dei liberali postmoderni, a ciò che è ipso facto “vecchio” e, si presti particolare attenzione a questa locuzione, “fuori moda”). Yulia Marushevska disse di aver partecipato, insieme alla madre, alla sedizione sul Maidan perché «molto frustrata» dalla temporanea interruzione, decisa dalle autorità governative ucraine, delle trattative per la stipula di un accordo di libero scambio e libero commercio tra Ucraina e Unione europea.

 

Yulia Marushevska era dunque una delle tante teenager ex sovietiche che scorgevano nel neoliberismo economico un possibile grimaldello per accedere, con più facilità e più velocemente, ai “fasti” della società occidentale dei consumi e dello spettacolo. Yulia Marushevska definiva infatti il liberalismo politico-economico e societario occidentale «un normale livello di vita e una vera democrazia». Yulia Marushevska apparteneva dunque alla fitta schiera degli apologisti dello stato di cose neoliberali presenti che identificavano, come sostanziali sinonimi, capitalismo di consumo e democrazia, liberalismo e libertà, società aperta e normalità.

 

L’intento, nettamente propagandistico, del video I Am a Ukrainian consisteva, secondo quanto dichiarato da Yulia Marushevska, nel «dimostrare che i manifestanti sulla piazza non sono terroristi, banditi o nazisti, come è stato mostrato in alcuni media» bensì «persone normali di tutta l’Ucraina». In realtà, la maggior parte dei dimostranti sulla Maidan erano tutto fuorché i “pacifici” cittadini in lotta, armati esclusivamente di “buone intenzioni”, contro la “dittatura” di Janukovy?, descritti da Yulia Marushevska. Le frange armate nazionaliste radicali e neonaziste del movimento di Euromaidan esistevano, provenivano in larga parte dalle regioni occidentali dell’Ucraina e dall’Oblast di Dnepropetrovsk’ (mentre la parte orientale e meridionale del Paese, contrariamente a quanto sostenuto da Yulia Marushevska, non partecipò alla sedizione e anzi vi si oppose) e svolsero un ruolo egemone nelle fasi che condussero al golpe del febbraio 2014.

I gruppi nazionalisti radicali, russofobi, erano presenti, con i loro simboli e le loro bandiere, anche nel video I Am a Ukrainian e chi scrive smascherò, in un articolo ad hoc pubblicato nel maggio 2016, tutte le contraddizioni di Yilia Marushevska e del movimento di Euromaidan. Yulia Marushevska disse che il suo auspicio concerneva nell’introduzione, in Ucraina, di un surplus di economia di mercato occidentale (free trade, free market democracy) e nel varo, da parte del governo golpista di Kiev, di misure tese a implementare gli scambi internazionali tra studenti di Usa e Paesi della Ue e loro omologhi ucraini (Erasmus Generation). Yulia Marushevska si dichiarò un’ammiratrice della «democrazia americana», definì «troppo burocratica» la Ue ed espresse il proprio desiderio di veder trasformata l’Ucraina in una «democrazia americana senza la burocrazia europea», ossia libero mercato politico, economico e culturale allo stato puro, terminale e privo di mediazioni, limitazioni sindacali e contrappesi legislativi (la «burocrazia europea» denunciata da Yulia Marushevska) di sorta.

 

Yulia Marushevska è la dimostrazione pratica di come, oggi, dietro al mantra politico-mediatico concernente gli “attivisti per i diritti civili” si celino esponenti politici, spesso cooptati ad hoc presso le strutture di potere e i centri di comunicazione del capitalismo americano (Ong per la promozione della free market democracy all’estero), di ferrea fede liberal-liberista e devoti nei confronti dei moduli ideologici disciplinari di adeguamento e normalizzazione di massa propri della società aperta popperiana e arendtiana. I personaggi come Yulia Marushevska sono freddi e interessati calcolatori, freedom pushers, e non disinteressati “attivisti” in lotta contro chissà quali “dittature” di sorta. Yulia Marushevska era, da ultimo, una interprete magistrale dello show business politico-mediatico fondato sulla centralità della distorsione cognitiva e semantica, tant’è vero che costei, intervistata dalla CNN il 15 aprile 2014, arrivò addirittura ad affermare che appena il 6 per cento degli abitanti delle regioni del bacino del Donbass (Donetsk, Lugansk) desiderava ricongiungersi con la Russia a fronte degli esiti, palesemente russofobici, del golpe di piazza Maidan.

 

In Donbass, infatti, come scrive il filosofo Stefano G. Azzarà, «non c’è stata nessuna secessione fiscale ma la giusta e inevitabile reazione di difesa della minoranza russofona a un cambiamento di posizione geopolitica dell’Ucraina che coincideva con una de-emancipazione delle popolazioni di quei territori» mentre, in Catalogna, «siamo di fronte […] a una secessione fiscale in un contesto completamente diverso, segnato dalle contraddizioni del processo di convergenza europea e dalle conseguenti ricadute sulla borghesia di ciascuno Stato nazionale. Cominciano i catalani, continuano i baschi, seguono i padani poi i sardi e chissà chi, persino al di là dell’interesse particolare di ciascuna regione». Diversamente dalle popolazioni russofone del Donbass nel 2014, «sotto nessun punto di vista i catalani sono oppressi» dal governo spagnolo.

 

Nella stessa intervista, Yulia Marushevska tornò a fare la cosa che meglio le riusciva, cioè ringraziare gli Usa per essersi impegnati, direttamente, a sostegno politico, diplomatico, economico e logistico della causa di Euromaidan. Yulia Marushevska, dopo aver palesato senza mezzi termini la propria ostilità nei confronti del governo russo, di cui desiderava il rovesciamento per via di una “Maidan russa” avente l’obiettivo di rovesciare Vladimir Putin, ricevette premi e onorificenze, in Occidente, e ruoli politico-amministrativi di prim’ordine, in Ucraina, per il suo ruolo di freedom pusher e freedom actress in calce al video I Am a Ukrainian. Il 26 marzo 2014 Yulia Marushevska parlò davanti alla Porta di Brandeburgo, a Berlino. Nell’occasione, ringraziò gli Usa e la Ue per aver fattivamente sostenuto Euromaidan (con i 5 miliardi di $ che gli Stati Uniti, per dichiarazione stessa dell’allora sottosegretario di Stato per gli Affari eurasiatici, Victoria Nuland, avevano elargito per pianificare e realizzare il golpe) e sottolineò che la lotta portata avanti da lei e dai suoi sodali era rivolta «contro il governo di Putin». Il 2 aprile 2014 Yulia Marushevska parlò all’Auditorium ICC dell’Università di Georgetown e l’8 aprile tenne una conferenza all’Università di Stanford. Il 16 aprile 2014 la freedom actress Yulia Marushevska concluse il suo tour come conferenziera anti-Putin presso le più prestigiose università liberal americane partecipando alla tavola rotonda “Diritti, repressione e rivoluzione: un racconto di due Paesi – Ucraina e Venezuela”, organizzata dalla Harvard University.

 

Successivamente, Yulia Marushevska parlò a un raduno di fronte alla sede del Consiglio comunale di Toronto, in Canada, e nell’occasione ribadì il proprio desiderio di veder attuata una Euromaidan a Mosca, finalizzata al rovesciamento del governo di Putin e Medvedev. Yulia Marushevska, dal Canada, promise agli eventuali organizzatori russi di questa Euromaidan sulla Moscova, tutta la solidarietà e il supporto degli “attivisti” ucraini che avevano, nel febbraio 2014, rovesciato il governo, democraticamente eletto 4 anni prima e per nulla filo-russo (ma pragmatico, affarista e moderatamente pro-Ue), di Viktor Janukovy?. Infine, il 21 ottobre 2014 Yulia Marushevska parlò, insieme ad altri dissidenti filoccidentali residenti nei Paesi da ricolonizzare ai diktat dell’ordine del caos a stelle e strisce, quali Yoani Sánchez (blogger cubana di spiccata fede politica liberal-capitalista) e Nadezhda Tolokonnikova (Pussy Riot) al “Forum per la libertà di Oslo”.

 

Il “Forum per la libertà di Oslo” è una specie di festival internazionale del regime change nei Paesi non ancora interamente sottomessi all’ideologia e alla prassi della free market democracy. Il “Forum per la libertà di Oslo”, patrocinato dalla Ong per la promozione della democrazia americana all’estero Human Rights Foundation, si svolge dal 2009 attraverso una serie di conferenze organizzate nella capitale norvegese ma, soprattutto, a New York e San Francisco, ovvero le capitali incontrastate di quel “mondo liberal” che la nuova classe professional globalizzata, transnazionale e transgender, pretende di imporre come unico orizzonte destinalistico pensabile, per le moltitudini sradicate, confusionarie e incoerenti del XXI secolo, in ogni angolo del Pianeta. Tra il 2014 e il 2015 Yulia Marushevska trascorse un anno di “perfezionamento” ideologico presso le università di Harvard e Stanford. Yulia Marushevska fu gratificata anche in patria per i servigi resi alla causa di Euromaidan. Il 9 giugno 2015 Yulia Marushevska fu infatti nominata, dall’ex presidente georgiano Mikheil Saakashvili, cooptato alla corte della giunta ucraina insediata a guisa di proconsole americano a Kiev, capo di un’agenzia di investimenti del governo regionale di Odessa. Yulia Marushevska si dimise dal suo incarico manageriale a Odessa, criticando la «lentezza» con cui procedevano le riforme liberiste in Ucraina, il 14 novembre 2016. Poco importa. Recitando alla perfezione il ruolo di freedom actress dagli occhi blu inumiditi di lacrime promozionali versate ad hoc per sospingere il più possibile la causa di Euromaidan presso la knowledge class giovanilistica incline a cedere al moralismo, alle profferte del vittimismo sciorinato a piene mani dalle fiction televisive di ogni genere e priva di coscienza infelice di Usa e Ue, Yulia Marushevska era finalmente riuscita a coronare il suo sogno consistente nel fare il proprio ingresso nello star system politico-commerciale occidentale.

 

Il video Help Catalonia, Save Europe, clone del precedente I Am a Ukrainian, fu costruito per riproporre, agli stessi ceti cui era stato indirizzato il filmato di Yulia Marushevska, i presupposti liberal alla radice di un processo secessionista in grado, potenzialmente, di porre a repentaglio la continuità della Spagna come Stato nazionale certamente non sovrano ipso facto (la Spagna è infatti, ahinoi, parte integrante della Ue e dei dispositivi capitalistici di comando e controllo politici, economici e culturali di massa detti società aperta) ma delimitato da frontiere che si presumevano, prima del 1° ottobre 2017, intangibili. La giovane protagonista del video Help Catalonia, Save Europe, l’attrice Anna Maruny, una sorta di “Yulia Marushevska II”, afferma infatti, anch’ella tra lacrime trattenute a stento e singhiozzi, parole inequivocabili e dirette a suscitare la compassione e l’identificazione con la causa secessionista catalana di quei ceti knowledge class cui già si rivolgevano i contenuti di I Am a Ukrainian. La freedom acrtess protagonista di Help Catalonia, Save Europe ha infatti il volto di una studentessa Erasmus Generation (gli studenti rappresentano, oggi soprattutto, il gruppo sociale capace di suscitare il più immediato impatto cognitivo in conto terzi, e ciò a causa di tutta una serie di tratti culturali, marcatamente conformistici e persino antropologici che li riguardano) che, da Barcellona, capitale europea della “movida”, afferma, in inglese (la lingua dei mercati e della società di mercato): «In primo luogo i catalani protestano perché sono cittadini europei, e credono nei valori europei: libertà, democrazia e diritti umani […]. Noi siamo una società aperta, costituita da persone di tutto il mondo. Noi siamo pacifisti». Seguivano altre locuzioni genericamente femministe e improntate ai codici culturali simbolici di adeguamento propri del politically correct. Insomma, secondo Help Catalonia, Save Europe gli europei, o meglio, i sudditi di sua maestà il capitalismo globalizzato dei Paesi della Ue avrebbero dovuto sostenere le ragioni del separatismo catalano in quanto tale secessionismo si configurava come parte integrante di quel “mondo liberal”, cosmopolita e open mind che invece il governo di Madrid, opponendosi all’indipendenza della Catalogna, avrebbe tradito.

 

Insomma, in un mondo in cui tutto appare monetizzabile, anche il “prodotto secessione” si vende e, per trovare accesso al mercato, deve in qualche modo costituirsi in format commerciale, pubblicitario, in grado di andare incontro a quelli che sono i gusti e gli stereotipi consolidati del pubblico-consumatore e potenziale acquirente cui si rivolge. Per vendere il prodotto politico open society occorre innanzitutto stabilire un antefatto, una premessa di situazione riguardante una sorta di conflitto dicotomico tra il “mondo liberal” abitato dai soggetti per eccellenza del politically correct, cioè i ceti giovanilistici e sans frontières e il “mondo autoritario” facente capo alla struttura mentale potenzialmente “fascista” dei propri esponenti. Per vendere il prodotto, assai lucroso, della open society, occorreva pertanto giungere a un vero e proprio cambio di paradigma interno alla società di massa. Le modalità con cui si voleva, fin dalla seconda metà del secolo scorso, ottenere progressivamente il cambio di paradigma, in direzione marcatamente liberal, di cui sopra, sono illustrate, con le seguenti parole, dal giornalista Maurizio Blondet:

Il Tavistock Institute di Londra [è un centro] specializzato nel realizzare “cambiamenti di paradigma” nella mentalità di massa. “Interessante istituto, metà clinica psichiatrica e metà corpo delle forze armate britanniche, fu fondato e diretto a lungo dal dr. John Rawling Rees, psichiatra e insieme generale di brigata. Lì si sono sempre studiati gli aspetti della guerra psicologica. Nel 1945, il generale Rees, nel suo libro The shaping of psichiatry by war, propose che metodi analoghi a quelli sperimentati in guerra, potevano attuare anche il controllo sociale in intere società o gruppi, in tempo di pace”. Abbiamo già raccontato come a questo Istituto si sia appoggiata la Scuola di Francoforte, occupata negli anni ’40 a impedire la rinascita in Occidente della “personalità autoritaria” da cui, secondo quei filosofi, nasceva “Il  fascismo”. Nelle parole di Theodor Adorno nato Wiesengrund: “La modifica della struttura mentale potenzialmente fascista non può essere ottenuta con mezzi soltanto psicologici; è un compito paragonabile alla eliminazione della neurosi, o della delinquenza, o del nazionalismo: questi sono prodotti dell’organizzazione totale della società, e vengono cambiati soltanto se viene cambiata la società”. Erotizzare la società, liberarla dai “tabù” sessuali,  fu identificato come il metodo per sradicare dalle menti il “fascismo” e purificarle dalla delinquenza chiamata “nazionalismo”.

 

Il tentativo occidentale di istituire, su scala planetaria, la società liberale di mercato implicava costi notevoli per i promotori di siffatto nuovo ordine del caos senza frontiere. Impartire una nuova morale universale come orizzonte destinalistico non negoziabile per le moltitudini sradicate e precarizzate del mondo intero costa infatti, ai promotori di una simile iniziativa, un’ingente quantità di denaro. Il 17 ottobre 2017 George Soros spostò 18 dei 23 miliardi di $ del suo patrimonio nelle casse della Open Society Foundation, l’ente internazionale, facente capo al finanziere statunitense di origini ebraico-magiare che, nel lessico dei liberal «aiuta ovunque senza fini di lucro le organizzazioni non governative, i gruppi umanitari, i militanti per i diritti umani» ovvero, tradotto dal politichese “dirittumanista”, finanzia a pioggia il golpe postmoderno, filoccidentale, iperliberale e “non-violento” in ogni Paese sospettato di opporsi ai precetti politically correct nella cultura e neoliberisti in economia veicolati dalla nuova morale commerciale propria del regime del capitalismo assolutista. Nell’agosto 2016, ad esempio, un articolo del Washington Times, riportò l’insieme degli emolumenti corrisposti dalla Open Society Foundation ai movimenti LGBT statunitensi. Secondo questo quotidiano, la Fondazione facente capo a George Soros avrebbe versato 2,7 milioni di $ l’anno a sostegno della causa LGBT. Nel 2013 la Open Society Foundation avrebbe donato 100 mila $ alla Gay Straight Alliance (GSA), 130 mila $ a The Los Angeles Gay and Lesbian Community Center, 244 mila $ a The Global Action for Trans Equality (GATE) e 525 mila $ a Justice at Stake, «un gruppo che sta cercando di promuovere l’accesso alle Corti di Giustizia per le persone facenti parte della comunità LGBT». In ogni angolo del globo, dalla Russia (Pussy Riot, Femen) agli Stati Uniti passando per i Paesi della Ue, i movimenti LGBT perseguono quell’ideale di liberalizzazione integrale dei costumi un tempo “borghesi” che funge da versante sistemico, culturale e persino antropologico se vogliamo, per legittimare il corrispettivo processo di liberalizzazione economica propugnato dai mercati privati di capitali transnazionali.

 

La centrifugazione delle identità collettive, anche di genere, all’insegna della promozione internazionale dell’ideologia transessuale del Medesimo (Tipo Androgino Sessuale Unificato), viaggia di pari passo con la crisi terminale dell’economia manifatturiera, spianando la strada alla retorica secondo cui “libertà” sarebbe sinonimo di dissoluzione di ogni vincolo comunitario e identitario di appartenenza precedente. A fine 2017 la Open Society Foundation di George Soros costituiva «la terza fondazione di beneficienza mondiale dopo quelle create da Bill e Melinda Gates e dopo lo Wellcome Trust. I 18 miliardi si calcola siano il grosso del patrimonio di Soros, stimato attorno a 23 miliardi di dollari abbondanti. Il suo obiettivo dichiarato è di contribuire a “creare democrazie vibranti, vivaci, tolleranti”», ovvero a disarcionare i governi, perlopiù esecutivi non-allineati e democraticamente eletti, ritenuti ostili ai presupposti culturali e antropologici della sopraccitata società liberale di mercato.

 

Il target principale delle strategie sorosiane di regime change in chiave iperliberale era costituito, nell’autunno 2017, dall’Ungheria renitente a piegarsi ai diktat di Bruxelles e del capitalismo globalizzato in fatto di politiche recettive dei flussi migratori di massa provenienti, in particolare, da alcuni Paesi africani. Nell’ottobre 2017 imperversava infatti, sui media globalisti italioti, il piagnisteo dei liberali, cosmopoliti, danarosi e pro-Ue di Budapest contro il governo, democratico e sovranista moderato di Viktor Orbán. Il piagnisteo di codesti soggetti politico-antropologici, di ceto medio-alto urbano, era in tutto e per tutto simile al canto lamentoso («Più Europa!… Più diritti umani!… Più mercato!») belato ostensivamente dai loro omologhi a Kiev e Barcellona. Il rotocalco liberal-progressista L’Espresso, ad esempio, dava voce a chi, in Ungheria, tra le classi urbane privilegiate, affermava che «i sostenitori dello stato di diritto e della democrazia non devono accettare il governo di uno Stato membro che schiaccia valori universali», cioè gli anti-valori, fondati sul culto dell’interesse individuale, alla radice del sistema di governance multilivello altresì chiamato Ue. Il governo ungherese era pertanto avvisato, la “rivoluzione colorata” anti-Orbán bussava prepotentemente alle sue porte. George Soros aveva infatti, come più sopra accennato, stanziato 18 miliardi di $ per impinguare le casse della sua Open Society Foundation e garantire, ai fautori (giovanilistici, cosmopoliti, urbani e upper class) del regime change a Budapest, i fondi necessari per preparare il “colpo”. Il sinistrismo italiota al gran completo, in primis L’Espresso (Gruppo Debenedetti/PD), ovviamente, nel conflitto Soros-Ungheria sovrana in corso, aveva già deciso con chi schierarsi: con i promotori, in ogni angolo del globo, del capitalismo finanziario e della società nichilistica di mercato. I piani di Soros per rafforzare la teoria liberal concernente l’esportazione della free market democracy all’estero furono ignorati e dunque tacitamente, quando non esplicitamente, approvati dalla upper class politico-mediatica e padronale occidentale che perseverava nel definire George Soros un «filantropo» impegnato a difendere i giovani desideranti ma «oppressi» dalle «dittature» postsovietiche e «stataliste» in ogni angolo del globo.

 

Le lacrime televisive di Yulia Marushevska e della sua sodale spagnola sono il piagnisteo dei giovani desideranti (teenager neoliberali ebbri di conformismo e totalmente incapaci di elaborare pensieri critici e autonomi di sorta) di cui sopra, il loro lamentoso belare ostensivo rivolto ai sostenitori e ai promotori della open society transnazionale e transgender per accorrere in loro aiuto, ovvero in soccorso alle rispettive velleità di piena, indiscutibile e inemendabile integrazione nei dispositivi capitalistici di controllo e disciplinamento propri del modo di produzione flessibile contemporaneo. I messaggi veicolati dai video I Am a Ukrainian e Help Catalonia, Save Europe “vendono bene” e “fanno opinione” poiché quei format cinematografici si inseriscono perfettamente nel perimetro di una società di mercato che, per essere tale, deve medicalizzare e psicologizzare ogni spazio pubblico, facendo dell’intimismo e del sentimentalismo a buon prezzo la chiave di volta per stuzzicare la “sensibilità” (ossia, il senso di colpa e l’autocommiserazione permanente) dei ceti cui il messaggio sopraccitato viene rivolto. I video I Am a Ukrainian e Help Catalonia, Save Europe si incardinano alla perfezione nell’immaginario collettivo europeo di ceto medio, studentesco e professional, poiché rappresentano un inno al vittimismo.

 

Nell’era del capitalismo assoluto infatti, l’unica figura di eroe concepibile è quella centrata attorno allo stereotipo della vittima lacrimante (meglio ancora se donna e studentessa open mind addicted) del regime “autoritario” di turno. È in un contesto ideologico di questo tipo che trova ascolto e persino credibilità, presso la knowledge class occidentale, l’equazione “salvare la Catalogna in quanto open society = salvare l’Europa”, ossia “Europa = open society” e “non è possibile alcuna idea di Europa in contrasto con i presupposti della società aperta popperiana, arenditana e, da ultimo, sorosiana”.

Il totalitarismo liberale contemporaneo fonda la propria ragion d’essere e i propri tabù ideologici irrevocabili sulla sacralità attribuita all’estetica patinata del giovanilismo come categoria pseudo-culturale ancor prima che anagrafica degli studenti internazionali e sradicati che saltano da un volo low cost all’altro e alle lacrime copiosamente versate (di fronte alle situazioni potenzialmente conflittuali con i tabù stabiliti a prescindere per mezzo dei dispositivi di comando e controllo sociale caratteristici del regime della open society) dagli studenti di cui sopra. La società di mercato è dominata da un ceto di sradicati e inoccupati che piange nel momento in cui la propria condizione di precarietà esistenziale vede incorrere il “rischio” di essere posta in discussione da effettivi mutamenti dei rapporti di potere e di classe interni al suddetto regime della open society. I giovani postmoderni, infatti, con il loro delirio di Emoticon e “faccine” ebeti, rientrano perfettamente nei significati propri del vecchio detto napoletano “chiagne e fotte” (si lamenta e usufruisce dei vantaggi del self-service generalizzato).

Il sociologo Roberto Pecchioli (*), alle cui parole è affidato il compito di concludere questo articolo, ha sintetizzato al meglio, e con innegabile sapienza, la dimensione effettivamente sentimentalistica, e pertanto centrata sul culto idolatrico della merce e dell’impotenza come grimaldello lamentoso utilizzato dai nuovi sudditi quale strumento per poter impietosire le élite e tentare, così, di accedere ai “fasti” del self-service generalizzato dei divertimenti, delle opportunità postmoderne e della merce di cui sopra, della open society contemporanea:

Un altro fenomeno, che in Italia assume caratteri di massa, è la medicalizzazione e psichiatrizzazione di ampi settori della popolazione […]. Le responsabilità sono state esternalizzate, delocalizzate: scuola, medici, esperti. La nostra intera vita è stata medicalizzata, come capì per primo Ivan Illich, il quale considerava urgente anche quella che chiamava “descolarizzazione”, ossia un recupero dell’educazione alla vita attraverso altri canali, la famiglia innanzitutto, e poi la strada, gli amici, la Chiesa, l’esperienza personale […]. Stiamo invece scivolando in società fanatiche e repressive, sia pure di segno opposto a quelle del passato. Poiché non si può vietare alcunché, il rigore, il disprezzo e la mannaia delle leggi cadono su coloro che chiedono limiti, esprimono giudizi o si sottraggono al dilagante conformismo. Nei loro confronti viene azionata la trappola sentimentale: sono contrari al “dialogo”, non condividono le verità ufficiali introiettate attraverso i mezzi del potere mediatico, culturale, educativo, dunque vanno sanzionati, colpiti, rieducati. Tutti gli altri vivono nel loro sentimentalismo muniti di fazzolettini di carta per asciugare le copiose, pubbliche, emotive e francamente insopportabili lacrime del loro io, minimo ma terribilmente esigente con chi dissente dalla narrazione corrente […]. Christopher Lasch segnala l’insorgenza di una società inseguita da ansietà, depressione, intangibile malcontento e segnata da un insopportabile vuoto interiore. Forse, l’uomo psicologico, emotivo e sentimentale di questo scorcio del terzo Millennio non cerca davvero l’autorealizzazione individuale, tanto meno la trascendenza spirituale, ma la semplice tranquillità mentale. La terapia sociale fatta di dialogo a ogni costo, giustificazione psicologica a ricetta, accettazione di tutto purché non turbi l’encefalogramma piatto e non costringa a scelte forti si è ormai costituita come erede dell’individualismo liberale e delle vecchie religioni.

 

Probabilmente il mondo nuovo terapeutico e sentimentale è antireligioso non perché i moderni sciamani siano razionali o utilizzino metodi scientifici, ma per il fatto che la società moderna invertebrata si è persuasa che “non c’è futuro”, quindi non resta altro che preoccuparsi delle necessità immediate, che mutano in fretta in base ai cangianti criteri degli esperti, nom de plume del mercato misura di tutte le cose.

 

Nota

* R. Pecchioli, EMOTICON – L’insorgenza dell’Io sentimentale, in «Blondet & Friends», 26 ottobre 2017

 

Nota Bibliografica:

Paolo Borgognon, storico e saggista, autore dei volumi Capire la Russia. Correnti politiche e dinamiche sociali nella Russia e nell’Ucraina postsovietiche (Zambon, 2015);

L’immagine sinistra della globalizzazione. Critica del radicalismo liberale (Zambon, 2016); Deplorevoli? L’America di Trump e i movimenti sovranisti in Europa (Zambon, 2017).

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