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Lunedì 18 settembre 2017

 

Catalogna, la febbre del referendum

di Mario Lombardo

 

La questione del referendum per l’indipendenza della Catalogna sta innescando una gravissima crisi politica in Spagna, con il governo centrale impegnato in una campagna repressiva con pochi precedenti nel dopo-Franco per impedire un voto che potrebbe avere riflessi catastrofici non solo per il paese iberico ma per tutta l’Unione Europea.

 

Da Madrid continuano ad arrivare minacce nei confronti dei separatisti. Negli ultimi giorni, la polizia ha sequestrato più di un milione di volantini e del materiale propagandistico in varie località, mentre la magistratura ha fatto sapere che gli esponenti del governo regionale, coinvolti nella promozione del referendum, potrebbero essere incriminati per abuso d’ufficio e uso improprio di fondi pubblici.

 

In precedenza, indagini ufficiali erano state aperte a carico di oltre 700 sindaci della Catalogna per avere collaborato nella preparazione del voto sull’indipendenza. La gran parte di questi ultimi ha tuttavia partecipato a una marcia a favore del referendum nel fine settimana a Madrid.

 

La gravità della situazione è confermata anche dalle dichiarazioni del procuratore generale, José Manuel Maza, il quale non ha escluso che, “in determinate circostanze”, potrebbe essere preso in considerazione addirittura l’arresto del presidente del governo regionale, Carles Puigdemont, del Partito Democratico Europeo Catalano (PDeCAT).

 

Il 6 settembre scorso, il parlamento della Catalogna aveva dato il via libera al referendum sull’indipendenza della regione, da tenersi il primo ottobre prossimo. Per tutta risposta, il giorno successivo la Corte Costituzionale spagnola aveva sospeso i preparativi per il voto, in attesa di una decisione definitiva dei suoi membri.

 

La presa di posizione della Corte non ha di fatto avuto alcun effetto sulla determinazione dei promotori, tanto che l’11 settembre scorso tra 500 mila e un milione di persone hanno manifestato a Barcellona a favore del referendum.

 

Secondo alcuni sondaggi, in Catalogna vi è una forte maggioranza che chiede l’organizzazione del referendum, anche se i favorevoli alla separazione da Madrid sembrano essere al momento poco meno della metà. Gli equilibri rischiano però di cambiare rapidamente proprio a causa del pugno di ferro minacciato e parzialmente già messo in atto dal governo centrale.

 

La misura più pesante che si teme è l’adozione della misura di emergenza contemplata dall’articolo 155 della Costituzione spagnola e che prevede il trasferimento del governo regionale direttamente a Madrid nel caso l’autorità locale agisca in un modo tale da “pregiudicare l’interesse generale della Spagna”.

 

Questa opzione, mai implementata dal ritorno alla democrazia, è stata invocata apertamente o velatamente da molti a Madrid, tra cui il premier Rajoy e il suo ministro della Giustizia, Rafael Catalá. Lo stesso governo centrale di centro-destra era sembrato molto cauto sulla questione fino a poco tempo fa, nel timore che un’azione così drastica avrebbe alimentato ulteriormente i sentimenti indipendentisti, saldandoli al malcontento diffuso per le pesantissime misure di austerity di questi anni e dei persistenti effetti della crisi economica.

 

La mobilitazione del governo del PP e delle forze di sicurezza nel tentativo di bloccare il referendum della Catalogna sta comunque assumendo contorni sempre più anti-democratici. La classe dirigente anti-indipendentista è profondamente divisa sui metodi di Rajoy nel far fronte alle iniziative dei leader catalani. Allo stesso modo, anche in Europa sono molto forti i timori che il precipitare dello scontro tra Madrid e Barcellona possa gettare la Spagna nel caos, con effetti inevitabili sull’Unione o la stessa NATO in un frangente caratterizzato da una serie di situazioni esplosive a livello internazionale.

 

I giornali ufficiali in Europa hanno generalmente invitato le due parti a trovare un compromesso, così da evitare una rottura che porti a un referendum in cui a prevalere sarebbero i favorevoli all’indipendenza della Catalogna. Con il procedere dell’escalation di minacce e della repressione del governo di Madrid, tuttavia, è palpabile il senso di frustrazione nei circoli ufficiali europei, dove si teme che le possibilità per una riconciliazione siano quasi del tutto svanite.

 

Evidentemente, il governo Rajoy e gli interessi a cui fa riferimento sembrano avere scelto la strada del muro contro muro, nel tentativo di intimidire almeno una parte della classe dirigente catalana, così da spaccare o indebolire il fronte indipendentista.

 

La strategia di Madrid potrebbe comunque fallire clamorosamente, scatenando forze difficili da contenere. Per i leader dei partiti catalani favorevoli alla separazione dalla Spagna diventa infatti sempre più agevole promuoversi come difensori dei diritti democratici di fronte a un governo centrale repressivo e già odiato a causa delle politiche economiche messe in atto e degli scandali giudiziari che hanno coinvolto il partito del primo ministro.

 

Anche a livello regionale, peraltro, i governi catalani hanno spesso adottato tagli alla spesa pubblica e misure dirette contro lavoratori e classe media, sia pure attribuendone per lo più la responsabilità a Madrid. La scelta dell’indipendenza, al di là della crisi costituzionale che potrebbe scatenare in Spagna e del pericolo di un possibile ricorso alla forza per impedire la separazione della Catalogna, di per sé non comporta dunque nulla di progressista né promette benefici per le classi che hanno pagato maggiormente le misure del governo centrale seguite al tracollo dell’economia.

 

Dietro la retorica nazionalista catalana, i partiti che sostengono l’indipendenza della regione promuovono piuttosto l’agenda e gli interessi della borghesia e del business locale, risentiti nei confronti di Madrid per il contributo percepito come eccessivo al paese e alle altre regioni economicamente meno avanzate.

 

Come quasi tutte le classi dirigenti indipendentiste di realtà con un’economia forte, inoltre, anche quella della Catalogna aspira soprattutto a fare del proprio potenziale nuovo stato uno strumento per attrarre in maniera autonoma il capitale internazionale, liberandosi dai vincoli con l’autorità centrale e raccogliendo direttamente i benefici che ne potrebbero derivare.

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