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20 settembre 2017

 

Voto in Catalogna, quella rivalità storica tra Madrid e Barcellona 

di Aldo Cazzullo

 

Dal franchismo a oggi, l’infinito clássico è diventato uno scontro fra curve e caste

 

«Per favore non fischiate Piqué» chiese ai madridisti Sergio Ramos, El Capitan; pazienza fischiare Juan Carlos, come i tifosi del Barcellona hanno fatto a ogni finale di Copa del Rey; pazienza fischiare suo figlio Felipe persino al corteo sulle Ramblas contro il terrorismo; ma fischiare al Bernabeu un difensore della Roja, la Nazionale di calcio, era troppo. I tifosi del Real e in genere i castigliani odiano Piqué in quanto, con il suo ex allenatore Pep Guardiola, è diventato un simbolo del separatismo catalano.

 

Fin da quando, dopo la storica vittoria al Mondiale sudafricano del 2010, Piqué e Carles Pujol fecero il giro del campo con la Senyera, la bandiera catalana, mentre i compagni festeggiavano attorno a quella spagnola. Un altro Pujol, Jordi, in gioventù aveva passato tre anni nelle carceri franchiste proprio per aver intonato «El cant de la Senyera», l’inno vietato dal regime («quasi tutto il teatro si alzò in piedi e si unì a me...»); dopo la morte del dittatore fu il padre dell’autonomia catalana. «Ho fatto sette figli e vinto sei elezioni» amava dire Jordi Pujol nel suo italiano ricercato; omettendo che i suddetti figli avevano imboscato ad Andorra milioni di euro.

 

Il punto è che la diversità catalana a volte si è rivelata un falso mito. Ne è convinto il più importante scrittore civile di Spagna, Javier Cercas, nato in Estremadura e cresciuto a Barcellona: «Ero bambino, tornavamo al paese, e domandai a mio padre dove finisse la Catalogna e dove cominciasse la Spagna. Mi rispose che quando trovavo i bagni sporchi era il segno che avevamo passato il confine. Ma ora i bagni sono puliti dappertutto. E dappertutto la politica è spaventosamente corrotta».

 

Il mito vorrebbe Madrid imperiale e franchista, Barcellona borghese e libertaria. In Castiglia i cortigiani e la Guardia Civil, sul Mediterraneo gli industriali e gli anarchici. I quali, quando presero il potere, proposero la tassa sulla verginità «crimine sociale» e stabilirono di abolire le prostitute: Federica Montseny, ministra della Sanità, si impegnò a trasformarle in sarte, per concludere che solo una rivoluzione sessuale avrebbe risolto il problema. Arrivarono prima i fucilatori di Stalin — agli ordini di Togliatti — e poi le truppe di Franco; che era sì tifoso del Real Madrid, ma veniva dalla Galizia (come Rajoy). E comunque il suo delfino, Manuel Fraga Iribarne, fondatore del partito popolare oggi al potere, poco prima di morire ricordava: «Ogni volta che accompagnavo il Caudillo a Barcellona, sfilavamo tra due ali di folla plaudente». Ma non si poteva fare altrimenti. «Le ragazze lanciavano fiori». Era pur sempre una dittatura. «Le grandi famiglie gareggiavano nell’invitarci a casa...».

 

L’ultimo presidente della Catalogna a proclamare l’indipendenza fu Lluís Companys, esule dopo la guerra civile; Franco se lo fece consegnare dalla Gestapo per metterlo al muro; e le sue ossa sul Montjuic fremono amor di patria. Il suo partito si chiamava Esquerra Republicana de Catalunya, riportato al governo locale settant’anni dopo da Josep Lluís Carod-Rovira, grande amico di Cossiga, che rilasciava interviste in francese perché sosteneva di non aver mai parlato castigliano in pubblico in vita sua. Sul Montjuic è custodita «La esperanza del condenado a muerte», l’opera che Joan Miró dedicò al giovane anarchico Salvador Puig Antich, che neppure Paolo VI riuscì a sottrarre alla garrota: Franco non gli venne neanche al telefono. Puig Antich è sepolto sulla stessa collina che domina il mare, accanto allo stadio delle Olimpiadi 1992, quelle della rinascita della città.

 

Madrid le Olimpiadi non le ha mai avute, nonostante numerose candidature. Le restano le corride, vietate in Catalogna anche per far dispetto ai rivali e rinnegare la hispanidad; anche se l’arena più antica è a Olot, come ricorda Cercas, figlio di un veterinario. Il dolore talvolta ha riunito, talvolta ha diviso. Dopo la bomba islamista nella stazione madrilena di Atocha, il ministero dell’Interno accusò l’Eta; la Catalogna andò in massa a votare contro il governo, nelle province di Girona e Lleida il Pp non elesse neppure un deputato. Dopo la strage dell’estate scorsa a Barcellona, i vertici nazionali della sicurezza criticarono i Mossos d’Esquadra, la polizia catalana, per non aver fermato i terroristi.

 

Le Ramblas sono il cortile di casa dei giovani europei, e sono state colpite per questo: tapas, cerveza, e in fondo alla strada il mare. Qui il dinamismo economico offre casa e lavoro. Però Madrid con i suoi quartieri latinoamericani e meticci è oggi forse più aperta e più internazionale di Barcellona, mai stata così bella eppure ripiegata sul catalanismo: la città che fu crocevia del Novecento — Malraux, Hemingway, Bernanos, Koestler, Gibson e ovviamente l’Orwell di Omaggio alla Catalogna — oggi fa a tutti l’esame di catalano, e assume medici che dicono «adeu» invece di «adios». Ma la vera dicotomia non è tanto tra le due capitali, quanto tra la Catalogna ponte verso l’Europa e la Spagna profonda.

 

Pablo Iglesias, il capo di Podemos col codone da tanguero, è di Madrid eppure sostiene il referendum; Albert Rivera, il capo di Ciudadanos, è di Barcellona eppure combatte la secessione. E il nerbo della resistenza unionista, oltre alla destra, sono i socialisti andalusi. I separatisti del resto sono sempre i ricchi, catalani e baschi appunto; i poveri restano attaccati alle mammelle dello Stato. Quello spagnolo è vecchio di quasi sei secoli, da quando Isabella portò la Castiglia in dote a Ferdinando che governava Catalogna e Aragona, e insieme presero Granada. Nel 1714 le armi borboniche misero fine all’indipendenza, come amano ricordare i tifosi del Barça al 17° minuto e 14° secondo delle partite contro il Real. Oggi la schermaglia è appunto roba da curve e da caste politiche. Che si assomigliano più di quel che pensano.

 

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