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martedì 3 ottobre 2017

 

La Catalogna paralizzata dallo sciopero generale

di Lucia Capuzzi

 

La protesta dopo le botte ai seggi e la vittoria del Sì al referendum: «Proclamiamo l'indipendenza». Puigdemont chiama l'Ue, Rajoy reagisce

 

Dopo il contestato voto di domenica, e gli scontri nei seggi e in strada, oggi la Catalogna è paralizzata dallo sciopero generale di protesta contro le azioni della Guardia civil. I trasporti pubblici sono praticamente fermi. Il traffico su strade e autostrade è stato interrotto in più punti. Centinaia di migliaia di persone hanno preso parte alle manifestazioni non solo a Barcellona ma anche in decine di città e comuni catalani. Ci sono stati momenti di tensione davanti alle sedi della Policia Nacional spagnola a Tarragona, a Girona e in Via Laietana a Barcellona.

 

L'alta adesione allo sciopero dovrebbe essere un’ulteriore spinta alla Generalitat per andare avanti. A meno che non sia lo stesso governo spagnolo ad accelerare la crisi, con una nuova mossa a sorpresa. Come l’arresto per sedizione di Puigdemont e di altri leader secessionisti.

 

Barcellona punta dritta allo strappo

Pedro Sánchez si è presentato ieri al Palazzo della Moncloa – l’edificio del governo spagnolo – consapevole di essere l’ago della bilancia. Il leader socialista è uscito un’ora e mezzo dopo, intimando al premier Mariano Rajoy di avviare un dialogo con la Catalogna. In realtà, il popolare l’aveva convocato in cerca di sostegno dopo i «fatti di domenica». Ovvero la repressione violenta, da parte di Guardia civil e polizia, della consultazione separatista, dichiarata illegale dalla Corte costituzionale, con un saldo di quasi 900 feriti, e 314mila euro di danni a scuole e centri pubblici, inchieste incrociate contro gli agenti nazionali, per le violenze, e contro quelli locali, i Mossos d’Esquadra, per aver rifiutato di parteciparvi. 

 

Il premier – dopo la “reprimenda” di Onu e Ue e le critiche della stampa internazionale – ha voluto verificare la disposizione di Ciudadanos e Partito socialista, i due partiti che, con la loro astensione, gli consentono di stare al potere. Non vuole “imboscate” quando si recherà in Parlamento, dopo il 10 ottobre, per discutere la questione. Ricompattare la “coalizione di fatto”, però, non è così semplice. Con Ciudadanos non ci sono stati problemi, dato il suo programma dichiaratamente ostile alle rivendicazioni nazionali catalane. I socialisti, però, si trovano in una posizione ambigua. La Catalogna è una delle loro roccheforti. Domenica, mentre si susseguivano le immagine delle cariche degli agenti, numerosi esponenti del Psoe hanno alzato la voce per condannarle. Lo stesso Sánchez lo ha fatto. Sarà, però, disposto ad un’alleanza con i radicali di Podemos per modificare l’equilibrio di forze alla Moncloa? Il partito di Pablo Iglesias non smette di chiamarlo in causa.

 

Finora Sánchez ha fatto orecchie da mercante. Ma la pressione della base catalana cresce, specie dopo gli incidenti di domenica. Del resto, solo un cambiamento di Madrid, o meglio a Madrid data l’intransigenza dell’attuale governo – potrebbe fermare, all’ultimo, lo strappo catalano. Proprio per saggiare tale prospettiva, il presidente regionale Carles Puigdemont ha preso qualche giorno di tempo prima della proclamazione ufficiale dei risultati.

 

In base alla legge regionale approvata il 6 settembre – e invalidata dai giudici –, da quel momento, l’Assemblea catalana ha 48 ore per avviare il processo indipendentista. I dati sono stati comunque forniti dalla Generalitat. Fra un blitz e l’altro della Guardia civil, sono andati alle urne 2,3 milioni di cittadini, il 42 per cento degli aventi diritto. Il 90 per cento si è espresso per il sì. Certo, il restante 58 per cento è rimasto a casa. Puigdemont, però, sostiene che la repressione ha scoraggiato la partecipazione. A questo punto, la dichiarazione di secessione sembra una questione di giorni. Ieri, i capigruppo del fronte separatista – riuniti nella coalizione Junts pel sì – hanno convocato per domani la riunione del Parlament (l’assemblea regionale) per fissare il prossimo plenum in cui si decideranno «le conseguenze » del referendum. La riunione potrebbe essere già giovedì o all’inizio della prossima settimana. 

 

Puigdemont non vuole accelerare troppo i tempi per non bruciare un’occasione favorevole. La Generalitat spera di cavalcare l’ondata di indignazione internazionale per mettere Madrid all’angolo. Non tanto per “costringerla” a negoziare, ipotesi per ora remota. Quanto per dimostrare all’Europa di aver provato a farlo per ottenerne la solidarietà in caso il governo centrale decida, come ribadito nelle ultime ore, di rispondere con l’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione. Ovvero il commissariamento della Catalogna. In quest’ottica rientra anche la richiesta di mediazione all’Ue, unita a quella del ritiro dei 10mila poliziotti spagnoli che, dal 20 settembre, presidiano la regione. Puigdemont, d’altra parte, sa di non poter aspettare troppo per non deludere il “popolo indipendentista”, profondamente scosso dalle violenze di domenica. Due hotel di Calella, vicino a Barcellona, hanno perfino cacciato i 500 agenti nazionali là ospitati.

 

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