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11 ottobre 2017

 

Puigdemont mette la retromarcia. La repressione spagnola no

di Marco Santopadre

 

E’ stata una improvvisa doccia scozzese, o dovremmo dire catalana. La “indipendenza simulata” infatti non rafforza il fronte indipendentista ma al contrario rischia di schiantarlo.

Dopo aver ripercorso la storia della spallata indipendentista degli ultimi anni ed aver solennemente dichiarato che i risultati del referendum dello scorso 1 ottobre consentono al popolo catalano di avere un “proprio stato indipendente in forma di Repubblica”, il capo del governo di Barcellona ha tirato il freno a mano generando sconcerto e frustrazione tra le migliaia di persone che affollavano le strade e il parco adiacenti il palazzo della Generalitat, chiamate in piazza dalla sinistra indipendentista e dalle associazioni trasversali protagoniste delle grandi mobilitazioni degli ultimi anni. Puigdemont ha gelato tutti immediatamente dopo aver generato entusiasmo e commozione: “chiedo al Parlament di sospendere la dichiarazione d’indipendenza per permettere l’apertura di una mediazione internazionale”. Il capo del governo catalano ha parlato di un “gesto di responsabilità per permettere di risolvere il conflitto in maniera serena”. 

Niente Repubblica Catalana, quindi. Solo una simulazione, con una dichiarazione firmata da tutti i deputati indipendentisti che però non verrà neanche pubblicata dal Bollettino Ufficiale della Generalitat e neanche nei resoconti ufficiali dell’assemblea parlamentare.
Paradossalmente il President ha violato quelle leggi catalane che la maggioranza indipendentista del Parlament aveva approvato un mese fa sconfessando a sua volta le leggi spagnole e scatenando la repressione di Madrid.

I dieci parlamentari della Cup non applaudono e non si alzano per omaggiare lo Tsipras catalano. “Noi non possiamo sospendere gli effetti di nulla. Negoziati e mediazione di chi? Con quello Stato che continua a perseguitarci e a minacciarci, che dispiega senza vergogna i suoi apparati militari e di polizia, che incita l’estrema destra e ci nega ogni diritto?” chiede polemicamente in un intervento infuocato Anna Gabriel, portavoce della formazione indipendentista e anticapitalista. Dopo qualche minuto, nel corso di una conferenza stampa, l’altro portavoce Quim Arrufat minaccia il ritiro di tutta la delegazione della Cup dal Parlament e quindi la sospensione del sostegno alla maggioranza formata da PDeCat ed Esquerra Republicana (Junts pel Si) se entro un mese il Govern non procederà a sancire la nascita del nuovo stato indipendente.

La seduta parlamentare è iniziata con più di un’ora di ritardo rispetto al previsto, a causa di una tesissima riunione della maggioranza indipendentista durante la quale la Cup ha tentato di impedire la retromarcia di Puigdemont, che alla fine ha però preferito seguire la strada indicata da Ada Colau e dai Comuns, i cui commenti non a caso sono stati più che favorevoli, al limite dell’entusiasmo. 

Negli ultimi giorni è stato un susseguirsi di pressioni, di avvertimenti e di ricatti: innanzitutto da parte delle imprese e dalla borghesia catalana che è scesa in campo con tutti i mezzi a sua disposizione per impedire la secessione. E ieri, stando ai numerosi rumors, si sono mossi i pezzi da novanta della Commissione Europea, premendo sul capo del Govern affinché non procedesse all’indipendenza unilaterale e promettendo forse un qualche intervento su Madrid per aprire una trattativa e disinnescare il muro contro muro delle ultime settimane.

La verità, però, è che l’Unione Europea non ha nessun interesse a favorire la nascita di un nuovo stato indipendente all’interno dei suoi confini blindati e persegue il mantenimento dello status quo, costi quel che costi. D’altro canto, se anche volesse dare una mano ai catalani – e non vuole – scontenterebbe uno Stato Spagnolo in cui il regime politico nato dall’autoriforma del franchismo (PP-PSOE, poi anche Ciudadanos) si fonda su un nazionalismo centralista, sciovinista e aggressivo.

Sembrerà paradossale, ma in questo scenario potrebbe essere la reazione di Madrid a ricompattare un fronte indipendentista catalano che la mossa di Puigdemont ha gravemente diviso e rischia ora di mandare in frantumi. 
Nonostante Puigdemont non abbia dato seguito alla proclamazione di indipendenza, infatti, il governo spagnolo ha reagito dando per avvenuta la secessione e avvertendo che nel giro di poche ore lo Stato risponderà con tutti i mezzi a disposizione, forse anche con quella sospensione dell’autonomia catalana che potrebbe generare una nuova mobilitazione popolare in Catalogna. A Madrid si pensa non solo all’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione ma addirittura allo scioglimento d’autorità del Parlament e all’indizione di nuove elezioni ‘regionali’. Gli stessi socialisti hanno già affermato che non ci sono le condizioni per avviare il dialogo confermando il pieno sostegno a Rajoy.
Le dichiarazioni infuocate dei responsabili del governo di Madrid di fatto fanno della Spagna il primo paese al mondo a riconoscere, ovviamente per condannarla, l’indipendenza di Barcellona che pure non è scattata.

Di fronte ad una nuova aggressione del nazionalismo spagnolo l’unità popolare creatasi in questi mesi tra diversi segmenti sociali e di classe – la piccola borghesia proletarizzata da anni di crisi ed austerity e la classe lavoratrice radicalizzatasi in anni di lotte contro le conseguenze dei provvedimenti imposti dalla Troika via Madrid – potrebbe trovare nuova coesione e nuovo slancio. La disobbedienza di massa alla legalità spagnola, la resistenza nei seggi per difendere il referendum, la creazione dei Comitati per la Difesa dei Referendum nei quartieri e lo sciopero generale hanno dotato il movimento popolare di una infrastruttura che potenzialmente potrebbe essere in grado di produrre un contropotere capace di condizionare e scavalcare le forze politiche e le istituzioni catalane.

I difensori della ‘strategia gradualista’ del President affermano che si tratta di una mossa astuta e lungimirante: adottando la ‘via slovena’ i catalani dimostreranno al mondo di essere responsabili e di essere disposti a rimandare la separazione in nome della trattativa e del negoziato. Siccome il negoziato le istituzioni spagnole sono indisponibili ad aprirlo il fronte indipendentista potrà nel frattempo accumulare forze all’interno e sostegni all’estero, proclamando alla fine l’indipendenza forte di una maggiore legittimazione internazionale. 

I suoi detrattori, al contrario, affermano che Puigdemont ha imboccato la via della rinuncia in nome degli interessi della borghesia locale, in barba a quei milioni di catalani che nei giorni scorsi hanno partecipato ad un referendum fuorilegge e poi ad un imponente sciopero generale con l’intenzione di rompere con la reazionaria monarchia spagnola e fondare una Repubblica basata sulla giustizia sociale.
In cambio della sua rinuncia lo Tsipras catalano otterrebbe potrebbe ottenere un aumento dell’autonomia e dei privilegi fiscali per quella borghesia che si sente molto a suo agio nell’attuale assetto istituzionale, magari accompagnata da qualche riconoscimento formale e simbolico sul carattere di nazione della Catalogna. Le classi popolari non avrebbero nulla da guadagnarci, né in Catalogna né nel resto dello Stato Spagnolo. 

Se all’affermazione delle aspirazioni del movimento popolare e alla rottura con lo status quo si sostituisse una contrattazione al ribasso tra elites, il passo indietro imporrebbe il ‘tutti a casa’ e genererebbe un riflusso difficile da contrastare per la sinistra indipendentista e per i settori più avanzati del movimento indipendentista.

Uno scenario che abbiamo già visto, in Grecia, nel 2015. Quella che doveva essere una tattica si è rivelata una strategia, e sappiamo tutti com’è andata a finire. La speranza è che, apprendendo da quel tragico fallimento, il movimento popolare catalano sappia riprendersi e preparare la spallata, per fortuna la forza e l’esperienza accumulate in questi anni sono consistenti.

 

 

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