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01/11/2017

 

La quiete prima della tempesta. L'Ue sta perdendo il suo valore più grande: la stabilità politica.

di Federico Nero

 

Ultimamente si è consolidata la narrazione di una fiducia nell’economia dell’eurozona ai massimi storici.

Il clima di fiducia nell'economia nell'area euro è infatti salito ai massimi da 17 anni a questa parte, secondo l'indagine condotta dalla Commissione europea, che, con una nota, riporta come l'Economic Sentiment Indicator (Esi) a quota 114 punti abbia registrato il valore più elevato dal gennaio del 2001. Questo scenario economico va a rafforzare lo scenario politico uscito vincente dalle elezioni che hanno avuto luogo nei Paesi Bassi, in Francia e in Germania, considerate come la grande sfida dell’europeismo contro il populismo. 

 

Tuttavia, un racconto più vicino alla realtà ci consegna un governo olandese fragile, insediatosi dopo oltre di 6 mesi di complicate trattative tra quattro partiti; un Presidente francese che ha visto scendere la sua popolarità nei mesi successivi alle elezioni e che suscita forti dubbi sulla reale possibilità di mettere in pratica tutti i cambiamenti promessi alla UE e alla Francia; una Cancelliera alle prese con la formazione di una coalizione che cinque settimane dopo le elezioni vede i quattro partiti coinvolti nei colloqui per la Jamaika-Koalition che devono ancora trovare una sintesi su politiche decisive come il futuro dell'area dell'euro (i liberali sono nervosi e intransigenti), la protezione del clima (i verdi devono sventolare qualcosa di verde) e la riforma dell'immigrazione (perché anche all’elettorato sconfitto di AfD bisogna dare delle risposte).

 

Se queste sono le minacce superate, all’orizzonte si prospettano invece altre sfide che minano quella che viene spacciata come la ritrovata stabilità del continente.

 

In questi giorni la nostra attenzione è stata concentrata sull’ambizione indipendentista (ma è più corretto dire secessionista) della Catalogna. Dopo aver sbagliato nell’eccessivo uso della forza durante la repressione del referendum illegale, il governo spagnolo ha affrontato la situazione in maniera più intelligente, commissariando la regione ribelle con lo scopo di portarla a nuove elezioni regionali il 21 dicembre. La spinta di Rajoy per mantenere l'unità spagnola ha prevalso e la partecipazione alle elezioni dei partiti che hanno dichiarato la (non)indipendenza può addirittura essere considerata come una sua vittoria personale; eppure, nonostante questo, l’incertezza sul futuro di una regione che rappresenta circa il 20% della produzione economica della quarta economia dell’eurozona non va sottovalutata: vista dall'esterno la situazione in Catalogna può sembrare in fase di superamento e dopo la conferenza stampa di Puigdemont in esilio a Bruxelles risultare farsesca al punto di definirla “grave ma non seria” (cit.), ma resta il fatto che nella regione ci sono due milioni di elettori separatisti che dopo essere stati mobilizzati per cinque anni sono rimasti abbandonati dai loro leader in una situazione di confusione, con movimenti che parteciperanno alle elezioni regionali del paese da cui si sono dichiarati indipendenti. Inoltre, la discussione della situazione catalana, che si protrarrà nel tempo, stimolerà gli appetiti autonomisti e indipendentisti presenti nell’Unione europea.

 

Dopo le elezioni in Catalogna, si spera che entro la prima metà del 2018 si potrà finalmente votare anche in Italia, ma anche se è un appuntamento che tutti stanno aspettando non c’è molto da sperare.

 

Le elezioni nella terza economia dell’Eurozona sono molto attese in tutto il continente, ansioso per le implicazioni che avranno per l'economia e il sistema finanziario dell’Italia e quindi di tutta l’unione. Queste elezioni in teoria dovrebbero produrre un governo in grado di risolvere i tanti punti in sospeso del paese (posizione su euro e unione, assetti istituzionali, la messa in sicurezza del sistema bancario...) ma la nuova legge elettorale e lo scenario politico diviso in tre grandi fronti avrà come più probabile conseguenza quello di produrre una grande coalizione tra centro-destra e centro-sinistra che offrirà il solito squallido spettacolo di una spartizione di potere senza orizzonti, che scatenerà la radicalizzazione del M5S e di tutti gli altri partiti che ne resteranno fuori. Il prossimo governo sarà insopportabile e non durerà molto, più o meno fino al momento di salvare l’Italia – ancora una volta – con un governo tecnico d’emergenza.

 

Oltre a questo, c’è sempre l’irrisolto negoziato per la Brexit, che rimane in una situazione di stallo a causa delle persistenti divergenze su questioni chiave, nonostante entrambe le parti abbiano affermato che di lavorare con tutte le buone intenzioni di questo mondo per un accordo equo e amichevole. Il riuscito o mancato accordo per la Brexit entro marzo 2019 determinerà non solo l'accesso del Regno Unito al suo mercato più grande (la UE) ma – viceversa – anche la capacità delle imprese europee di continuare a vendere beni e servizi in Gran Bretagna senza interruzioni. Le quattro maggiori economie dell'area dell'euro (Germania, Francia, Italia e Spagna) dipendono fortemente dall’esportazioni nel Regno Unito e un interruzione, anche solo temporanea, di questo matrimonio commerciale avrebbe pesanti ripercussioni sul queste economie.

 

Alla luce di tutto questo e non solo (abbiamo, ad esempio, tralasciato tutte le minacce in politica estera), è facile accomodarsi di fronte ai dati positivi di un piccolo impulso all’economia e alla politica monetaria accomodante della BCE che ha messo in pausa la brutalità dei mercati. Quando la politica monetaria di Francoforte cambierà la crisi economica tornerà a farsi sentire più forte che mai e tutti i rischi politici si scateneranno. Un pezzo alla volta, l’Unione europea sta perdendo il suo valore più grande: la stabilità politica.

 

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