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2 febbraio 2017

 

La Costituzione nella palude

 

Intervista di Antonio Martino al dissidente Luciano Barra Caracciolo, strenuo difensore della Costituzione e protagonista del dibattito economico-giuridico contemporaneo.

 

Luciano Barra Caracciolo, presidente di sezione del Consiglio di Stato, ha da tempo intrapreso sul suo blog una proficua opera di analisi economica del diritto pubblico capace di evidenziare- oltre alle manifeste storture della moneta unica- l’antinomia esiziale tra Unione Europea e Costituzione della Repubblica, trattati e democrazia. Partendo da questo tema chiave, oggetto di due libri fondamentali (Euro e (o?) democrazia costituzionale. La convivenza impossibile tra costituzione e trattati europei e La Costituzione nella palude) il percorso di divulgazione di orizzonte48 ha permesso e permette la riscoperta dei principi fondamentali scolpiti nella nostra Carta e la comprensione profonda dei meccanismi che hanno condotto all’attuale stato di crisi permanente.

Per comprendere compiutamente i meccanismi determinanti alla base dell’attuale scenario socio-economico occorre partire da lontano, precisamente da quel 1948 da Lei scelto quale orizzonte a cui tendere superando le storture presenti. Il primo gennaio di quell’anno entra in vigore la Costituzione della Repubblica Italiana: quale nuovo Stato hanno in mente i costituenti? In che senso esso risulta fondato sul Lavoro?

Quale nuovo Stato avessero in mente, auspicabilmente, avrebbe dovuto essere chiaro, da decenni e, meglio ancora, specialmente negli ultimi anni, a tutti i cittadini italiani. Uno Stato a sovranità appartenente al popolo, cioè a tutti i cittadini senza esclusioni e discriminazioni neppure di fatto, e fondato sul riconoscimento del lavoro come più importante espressione della personalità umana: la persona umana, realizzata nel valore sociale della sua attività lavorativa, deve essere posta in grado di contribuire ai processi decisionali collettivi secondo una parità effettiva costantemente perseguita dallo Stato. In ciò si riconosce agevolmente il principio-cardine della eguaglianza sostanziale.

Dunque una comunità sociale che si auto-organizza intorno alla più importante caratteristica che, antropologicamente, segna il successo evolutivo dell’umanità in senso culturale: la solidarietà orizzontale tra eguali, che si distinguono solo per differenti inclinazioni e attitudini, tutte da sviluppare come contributi positivi al benessere collettivo, e promosse mediante le regole e gli indirizzi emananti dagli organi rappresentativi democratici di questa comunità territoriale.

Si dice spesso, a mo’ di vulgata, che la Costituzione sia in realtà- e già a partire dall’articolo 1- un documento di compromesso, frutto di una mediazione tra le diverse anime politiche dell’Assemblea. In realtà Lei ha più volte dimostrato come il modello economico che anima la Carta sia informato indubbiamente alla costituzionalizzazione del paradigma keynesiano, presupposto fondamentale per una compiuta democrazia sociale. Qual è il nesso tra Keynes e la Repubblica? Come mai fu ritenuto necessario scolpire nettamente in Costituzione il ruolo dello Stato interventista?

Parlare di modello keynesiano incorporato nella Costituzione è un’espressione di sintesi. Federico Caffè, eminente consulente “economico” dell’Assemblea Costituente, lo precisa in vari scritti, allargando la prospettiva di “interpretazione autentica” alla platea dei pensatori e scienziati sociali che, nella prima metà del ‘900, ripensano la democrazia connotandola dell’aggettivo “sociale”, al fine di significare la fine della pretesa neutralità dello Stato di fronte al conflitto sociale.

Una “neutralità” che dissimulava quella del ruolo dello Stato sotto il profilo economico-fiscale: lo Stato non doveva alterare il naturale prodursi di equilibri allocativi “efficienti” (cioè conservativi delle posizioni dominanti) e di regole “spontanee” da parte del “libero mercato”. L’ intangibilità di questo mito – che aveva portato a crisi economiche devastanti e apparentemente irrisolvibili (all’interno di questo dogma della “neutralità”)-  aveva in particolare determinato la trasformazione delle grandi potenze coloniali europee in Stati autoritari e al servizio di monopoli-oligopoli privati, che reprimevano le istanze sociali con la forza e, successivamente- di fronte all’acuirsi della crisi economica- in Stati che realizzarono diversi tipi di fascismi, utilizzati come ambigue concessioni a qualche rivendicazione di sicurezza sociale, ma sostanzialmente tesi a soffocare, militarmente e poliziescamente, il tentativo popolare di riequilibrio del costo delle crisi economiche, posto ad esclusivo carico della classi più deboli (sul piano del controllo del potere economico capitalista).

In Costituente v’erano- pochi ed insignificanti- pilastri del sistema liberale pre-fascista: Vittorio Emanuele Orlando, Francesco Saverio Nitti, Benedetto Croce. Tra questi, spiccava per verve e attribuita importanza Luigi Einaudi, allora Governatore della Banca d’Italia: europeista convinto, sostenitore  altrettanto audace del laissez-faire, quanto e come egli realmente influì nella politica e nella condotta economica nazionale di quegli anni? Si può affermare, con De Gasperi, che un quarto partito finanziario e produttivo abbia- sin dal 1948- tentato di bloccare, fuori dalla legalità istituzionale, le svolte politiche pro-labour?

L’affermazione è di De Gasperi; Carli nella sue memorie ricostruttive della storia politica-economica del dopoguerra ce ne dà piena conferma. Egli sottolinea come, già poco prima che fosse promulgata la Costituzione, Einaudi e De Gasperi avessero dato vita, di fatto, a una “costituzione economica” che prescindeva da quella poi costituzionalizzata e che avrebbe controllato e orientato le istituzioni di governo verso una direzione diversa, e più conveniente alle esigenze dei capitalisti del Paese, da quella della democrazia sociale attuativa della Costituzione.

In virtù di un salto in avanti- quantitativo e qualitativo- delle istanze lavoristiche e sociali sancite finalmente dalla Costituzione, la Repubblica conobbe nel corso dei famosi “Trent’anni gloriosi” un’innegabile miglioramento delle condizioni di vita, coronato dal miracolo economico d’inizio anni Sessanta: l’Italia era divenuta una potenza economica di prima grandezza. Si può affermare che il boom sia una diretta conseguenza del modello economico previsto in Costituzione e in fase di attuazione durante quell’arco di tempo?

Questa è una risposta che non si può dare in modo univoco e definitivo, perché troppi furono i sabotaggi all’attuazione della Costituzione per poter rinvenire un filo coerente che connetta, sul piano istituzionale, il “modo” i cui furono attuate, con lentezza e difficoltà, le politiche keynesiane: queste, più ampiamente, più fuori che dentro l’Italia, erano considerate, allora, la via al “capitalismo cooperativo” (per rifarsi alla terminologia di Eichengreen) ma “sovrano”. Questo tipo di capitalismo, tra Stati sovrani, geo-politicamente tutti “dalla stessa parte”, contraddistinse, in Europa occidentale, la risposta alla “minaccia dei carri armati di Stalin” in termini di allargamento del benessere economico e, in tal modo, della stessa rilevanza sociale delle classi medie e medio-basse (peraltro, in quel contesto del dopoguerra, si tratta di politiche già attuate nel New Deal e vicine, perciò, alla visione che, in quei decenni, avevano gli stessi USA).

Di certo, il boom finisce quando si pone in essere un’eclatante battuta d’arresto al primo governo di centrosinistra, nel 1963, stoppando l’attuazione costituzionale in materia di tutela del lavoro (in una situazione, al tempo, di pratica piena occupazione e, come tale, fortemente temuta sul piano della redistribuzione del potere politico prima che economico), con ciò tornandosi, al di fuori delle pur controvertibili esigenze transitorie del dopoguerra (in cui fu piuttosto decisivo il Piano Marshall), a politiche deflazioniste, sul piano monetario e del mercato del lavoro. Abbiamo documentazione storica di come tale “svolta” fu, anche al tempo, propiziata con una “lettera” della Commissione europea, da poco insediatasi, con le relative polemiche su chi, dall’interno della politica italiana, l’avesse “invocata”.

L’autunno caldo e le rivendicazioni studentesche preannunciano il plumbeo tormento degli anni Settanta, decennio chiave per la storia della Repubblica. Nonostante shock petroliferi, terrorismo e ingerenze esterne, l’Italia del 1977 ha una disoccupazione sotto al 7 per cento e indici macroeconomici confortanti: perché il PCI di Berlinguer introduce allora il termine di austerità? Come si accorda l’incauto tentativo di Botteghe Oscure con la montante marea monetarista che inizia a profilarsi nella scienza economica?

Definirlo “incauto” è già un giudizio storico a posteriori: se l’obiettivo era quello di essere assimilati all’area c.d. di governo, aspirazione che richiedeva il fornire ampie rassicurazioni agli Stati Uniti (impegnati nello scontro finale con il blocco sovietico e preoccupati delle conseguenze della fine di Bretton Woods), quella mossa si può piuttosto definire “utile”. E ciò, anche se fu stigmatizzata da Caffè con la chiara indicazione che si sarebbero sacrificate la crescita, l’occupazione e soprattutto la redistribuzione del prodotto, in nome di una non ben giustificabile lotta all’inflazione, di cui stranamente non si coglieva più la relazione inversa col livello di occupazione. Il potere d’acquisto delle famiglie va tutelato (e ci sono molti modi all’infuori delle strette monetarie e delle riforme che limitano la tutela del lavoro), ma non senza porsi prima la domanda: un disoccupato o un lavoratore sottopagato e precarizzato quanto può essere interessato alla stabilità dei prezzi, quando non avrebbe più comunque, per definizione, un reddito per nutrire se stesso o la propria famiglia?

Il 1978 è un anno fondamentale. A marzo viene rapito Aldo Moro; nel dicembre la Camera vota l’adesione dell’Italia allo SME, antenato dell’euro. L’adozione del cambio fisso si completa tre anni dopo con il divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro: come si riesce a giustificare il progressivo esautoramento della sovranità monetaria con i fini programmatici scolpiti in Costituzione? E’ legittimo poter intravedere già da allora un vincolo esterno nella vita politica e produttiva del Paese?

Il vincolo esterno è formula, principalmente ascrivibile a Guido Carli, che nasce proprio in quegli anni, unitamente al concetto di “statuto della moneta”, teorizzato da Ciampi (protagonista del “divorzio” insieme ad Andreatta). La ragione del vincolo esterno è senza equivoci quella di indurre, per via di trattati che ci vincolano ad inseguire (senza mai poterle “raggiungere”, come evidenziò Guarino con riguardo al Trattato di Maastricht) le politiche socio-economiche propugnate dall’ordoliberismo mercantilista tedesco, mediante il controllo “whatever it takes” dell’inflazione e la stabilità monetaria. Negli stessi anni, Carli, e gli stessi autori del divorzio, affermano che tale “vincolo esterno” fa aggio, come se fosse un “bene superiore” – non contemplato in alcuna parte della Costituzione- sullo stesso perseguimento della crescita economica, e quindi del livello di occupazione. Un grande battage mediatico-culturale fa accettare tutto questo ponendo in secondo piano gli effetti redistributivi…al contrario (rispetto alla volontà dei Costituenti), di queste politiche e “vendendo”, con un capillare e ossessivo marketing, la tendenza deflattiva come il bene supremo.

Da allora, l’opinione di massa rimane attestata su questa convinzione e non è più in grado di organizzare una resistenza politicamente rilevante, anche per il venire meno del riferimento di una sinistra “socialista” e costituzionalmente orientata: le parole d’ordine dominanti che accompagnano l’evocazione dell’inflazione come “male assoluto” sono l’armamentario anti-Stato che straripa ai nostri giorni. Cioè, l’inflazione sarebbe causata dall’eccessivo deficit statale e dalla spesa pubblica; quest’ultima, sul piano della nuova (ma in realtà molto vecchia) morale pubblica dominante, è a sua volta invariabilmente portatrice di sprechi e di corruzione. Questi parametri mediatico-politici– lotta all’inflazione, all’eccesso (?!) di spesa pubblica, agli sprechi e alla corruzione- al di là di qualsiasi efficienza causale sul ciclo economico effettivamente dimostrata e di una loro rilevazione e misurazione reale, (e non presuntiva e mediaticamente indotta) – divengono gli unici problemi alla cui soluzione si devono dedicare le forze politiche. Il tutto viene “aiutato” da un’opportuna progressione, da un “crescendo” di casi mediatici, (più o meno, tutt’ora “misteriosi”; es; lo scandalo Lockheed e l’episodio Baffi-Sarcinelli), che dipingevano una sfera del “pubblico” contrassegnata dal dilagare di episodi super-enfatizzati, che persuadono inconfutabilmente la massa dei cittadini che “privato è bello ed efficiente” e che occorra “privatizzare” (“fate presto!”), mentre pongono nel dimenticatoio le esigenze di attuazione della Costituzione. Al punto che questa viene vista, quasi simultaneamente (cioè fin dai primi anni ’80”), come ostacolo e residuo storico superato, da fare oggetto di un’inevitabile “Grande Riforma”.

Nel corso degli anni Ottanta le conseguenze della reazione liberista (aumento del debito pubblico, irrigidimento del cambio con l’ingresso nella banda stretta dello SME) concorrono a preparare il cocktail esplosivo del 1992: collasso della partitocrazia, crisi economica, incipit dello smembramento delle Partecipazioni Statali, privatizzazione del sistema bancario. Il 7 febbraio a Maastricht l’Italia lega il proprio destino alla neonata Unione Europea, fondata sin dapprincipio su teorie monetariste e anti-keynesiane lontane anni luce dal portato costituzionale. Tuttavia nessun attore politico, economico e sindacale s’oppone: com’è possibile? Il fate presto e lo stato di emergenza finanziaria permanente era già allora un utile strumento di ricatto?

In gran parte la risposta sta in quanto detto già in precedenza. Direi piuttosto, però, che la mancata opposizione, sostanziale, cioè consapevole della natura strumentale della “costruzione europea” alla restaurazione del liberismo (“neo-ordo”), in nome dell’ordine sovranazionale dei mercati, fu pure tentata: ma non ebbe alcuna possibilità di entrare in contatto con l’opinione pubblica e di massa. Il controllo mediatico totalitario, preconizzato da Hayek, cioè il pensiero unico economico, pervasivo di ogni aspetto culturale, si erano già consolidati tra la fine degli anni ’70 e gli interi anni ’80.

Con Maastricht il vincolo esterno tanto sognato da Carli e Ciampi diviene realtà, fonte di diritto che supera la Costituzione nella gerarchia delle fonti. Come ha potuto la Corte Costituzionale ignorare i contro-limiti posti a tutela delle fondamenta sociali della Repubblica, dapprima difesi (celebre il caso Costa-ENEL del 1964) e poi abbandonati sulla via di Bruxelles?

Il vincolo esterno si era in realtà già realizzato, lo abbiamo visto, con lo SME e il “divorzio”: la Corte costituzionale aveva già mutato orientamento ben prima di Maastriche. Nel mio blog orizzonte48, abbiamo ricostruito questa vicenda, che parte dall’assunto che dei trattati “economici” incidano sulle sole norme costituzionali relative ai “rapporti economici”, appunto, e non su quelle attinenti ai rapporti etico-sociali, politici o sulle stesse libertà civili: come se, disoccupazione e deflazione, privazione dell’accesso all’abitazione e un mercato del lavoro esclusivamente regolato sulla competitività nei mercati esteri (quindi compressiva di risparmio e investimenti nazionali), non influissero su quelle condizioni di fatto, preclusive del godimento dei diritti fondamentali, che la Repubblica di impegna a rimuovere, come suo primo e principale compito, in base all’art.3, comma 2, della Costituzione, (come ci confermano i più importanti Padri Costituenti: Calamandrei, Ruini, Basso e lo stesso Caffè).

Ancor più dopo la crisi speculativa di settembre 1992, che dimostra l’inconsistenza della solidarietà europea, appare oggi folle che nel breve volgere di pochi anni si sia giunti alla moneta unica nella sostanziale unanimità di consensi. Eppure il Regno Unito aveva mostrato la via, resistendo alle sirene provenienti dalla futura Eurozona: la sbornia di Tangentopoli aveva fatto strame di buonsenso, oppure la liretta doveva per forza tornare sotto il tallone del cambio fisso?

In realtà, la progressione di “tappe” fondative che va dal consiglio europeo del “Castello sforzesco”, nel 1985, alla moneta unica, fu in pratica rispettata senza particolari scostamenti dal suo “cronoprogramma”, passando per l’Atto Unico del 1987: come dovrebbe ormai essere evidente, la sbornia di Tangentopoli fu più una conseguenza, tutto sommato scontata, piuttosto che la causa di tale processo di riassetto politico e sociale.

La classe politica della prima Repubblica fece semmai un grave errore di valutazione nello stimare gli effetti, ordinamentali e di ri-dislocazione della sovranità cioè del potere decisionale effettivo, che essa stessa aveva innescato. Insomma, l’Italia, all’uscita dallo SME, non aveva già più le “risorse culturali” per resistere alla restaurazione neo-liberista delle economie “aperte” e del libero movimento dei capitali. Il dominio della finanza e dei grandi oligopoli industriali sovranazionali era stato già evocato e non poteva essere fermato. “Quella” classe politica, che pure aveva “aperto le porte” al nuovo assetto di potere, era divenuta superflua agli occhi dell’ordine sovranazionale dei mercati, che Maastricht ufficializzò e riassunse in un modo che, però, era già implicito nei fatti politici “compiuti”.

Da quasi dieci anni la crisi economica attanaglia l’Eurozona, impoverita e resa pericolosamente instabile dalla disoccupazione strutturale e dalla svalutazione continua del salario. Il mainstream reputa semplicistico affermare che “uscendo dall’euro” si potrà ri-ottenere quel grado di civiltà sociale conquistata durante il Trentennio Glorioso; c’è la Cina, la globalizzazione, la finanza… A questo oramai bolso frasario parareligioso come risponde? L’euro- come amano dire i poltronati televisivi- è solo una moneta o rispecchia ben altri fini, di cui è sicuro e comodo strumento?

Ho scritto due libri su queste questioni. E non solo io, peraltro…La domanda, aggettivata e connotata com’è, direi, si risponde da sola. L’euro è indubbiamente un forte acceleratore di tutte le politiche necessarie per la restaurazione dell’ordine sovranazionale dei mercati: tutta la disciplina europea che lo accompagna – fiscale, sociale, monetaria e bancaria- al fine apparente di una conservazione all’infinito dell’euro stesso (o almeno finché lo si potrà, a qualsiasi costo), serve a distruggere irreversibilmente la sovranità democratica, mediante incessanti e prolungati “stati di eccezione” in nome dei “mercati” (la cui proclamazione, come evidenzia Carl Schmitt, indica il vero titolare della sovranità).

E la sovranità democratica va intesa come attitudine dello Stato di decidere e di realizzare gli interessi generali della comunità nazionale – che dovrebbe incarnare- secondo le norme fondamentali della Costituzione. Gli stati di eccezione dei mercati, costantemente proclamati in nome dell’€uropa, perseguono interessi e applicano norme che rispondono a obiettivi totalmente scissi dall’effettivo interesse della comunità nazionale.

 Il 2016 ha visto il trionfo dei populismi: Brexit, bocciatura del Referendum renziano, vittoria di Donald Trump. L’ordine unipolare americano-centrico, scolpito dai dettami economici del Washington Consensus mostra più di una falla, battuto in breccia dal formidabile immiserimento delle classi medie occidentali. Nel suo discorso di insediamento Trump ha fatto intendere una moderata svolta protezionistica che cozza con i mantra del liberoscambismo: in tutto questo l’UE annaspa, carrozzone legato al ronzino mercantilista tedesco. Le insofferenze statunitensi verso l’enorme surplus commerciale della Germania possono, a Suo giudizio, pregiudicare il futuro dell’euro?

Vedremo se l’Amministrazione Trump sarà ferma in questa denuncia che, per la verità, è stata già ribadita in recentissime ed esplicite dichiarazioni del designato ambasciatore USA presso l’UE. Questo mi pare altamente significativo: ma non possiamo pensare che questioni di tale portata trovino soluzioni lineari e, tantomeno, che tengano automaticamente conto dell’interesse della Nazione italiana, considerandolo prioritario. E’ ipotizzabile, dunque, che si entri in una fase politico-internazionale del tutto nuova e ad esiti imprevedibili. Capire, nelle concrete condizioni odierne, quale sia l’interesse di tutti i cittadini italiani, dovrebbe essere oggetto di un’attenta riflessione: sia per riconoscere e individuare, con una certa attendibilità scientifico-economica, le politiche economico-industriali, e fiscali, che possano riportarci in carreggiata, sia, soprattutto, per preservare la legalità costituzionale e, possibilmente, ripristinarla nel suo fine essenziale di promozione dello sviluppo materiale e spirituale di “tutti” gli italiani. Detto così, può apparire un auspicio generico e benevolente;

In realtà, è proprio la “dimenticanza” di una cultura costituzionale e politico-economica (conforme alla Costituzione) la base dei nostri problemi.

Si vuole superare qualcosa che, ormai, potrebbe comunque essere superato da eventi epocali esogeni rispetto alla politica italiana e che trovano nella figura di Trump la sua più eclatante (ed “iniziale”) manifestazione? Con quali “risorse culturali”, cioè con quale chiara visione dei meccanismi causali effettivi della crisi si intende farlo, sul versante italiano? E’ difficile dare una risposta di qualunque tipo: la democrazia costituzionale è stata in gran parte smontata. Ma si ha idea di come rimontarla, se non ci si rende conto che è proprio nella Costituzione la soluzione immediata, e ancora supremamente legale, della crisi italiana?

La sovranità monetaria, aggiungo come problematica su cui riflettere, è un pezzo fondamentale della sovranità dello Stato, e si definisce insieme con esso: che forma di Stato vogliamo, o siamo ancora in grado di condividere come italiani? In altri termini

La sovranità è un potere “originario” di cura di fini generali, accuratamente prescelti: ma tali “fini” sono prescelti o in modo esplicito, nelle Costituzioni rigide, ovvero in modo implicito – se non addirittura occulto -, nei “circoli che contano”

Quest’ultimo punto impone una comprensione fondamentale, oggi oscurata. La sovranità costituzionale del popolo intero, appunto “sovrano”, trova i suoi fini irrinunciabili nell’articolato della Carta; almeno in linea di legittimità ancora vigente e attuale (nonché, non va dimenticato, anche INDEROGABILE…a meno di un “colpo di Stato”). Ma questi fini, per essere stabili e sottratti all’arbitrio mutevole degli interessi economicamente più forti (quelli dei “circoli…”), nazionali e internazionali, esige delle regole sottratte al gioco politico-elettorale. Senza l’attento rispetto di queste regole (che stanno appunto “al di sopra” della politica), quello che potrà accadere è imprevedibile: Calamandrei parlava di “politica allo stato libero”, dominata da rapporti di forza sociali che, però, tendono a prendere forma sempre nello stesso modo. Chi domina il processo finanziario e di creazione monetaria, chi domina l’allocazione del capitale, automaticamente controlla i media e la cultura. La Costituzione è nata per correggere questa deriva e per dare un concetto di democrazia che lo potesse impedire…

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