Fonte: Ereticamente

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03/03/2017

 

Bancarotte nazionali. Tutto è numero

di Roberto Pecchioli

 

Pitagora di Samo sosteneva che tutto è numero. Forse non è proprio così, ma la forza e la chiarezza delle cifre spesso vale interi volumi. Il declino italiano è una bancarotta non solo economica, senz’altro fraudolenta, e può essere facilmente descritto con la spietata efficacia dei numeri. Preceduti tutti, ahinoi, dal segno meno.

Negli anni 80 si accese il dibattito sul debito pubblico che cominciava ad ingigantirsi. Anche allora si taceva l’indicibile, ovvero che il cosiddetto divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia del 1981 (Ciampi governatore ed Andreatta ministro del Tesoro) era stato una vergognosa operazione di svendita ai danni della nazione. Pochi ammettevano che le spese a pioggia di quegli anni altro non erano che sfacciato clientelismo e corruzione, mascherati dalla necessità, sorta negli anni 70, di contenere l’avanzata del PCI, partito peraltro perfettamente inserito nel sistema di potere e di spesa. Da un versante politico, i problemi erano attribuiti al costo del lavoro (contratti, scala mobile, scatti di anzianità), dall’altro si malediceva il costo del denaro, rincarato proprio a seguito delle improvvide decisioni di cui sopra, che consegnarono al mercato speculativo le emissioni dei buoni e dei certificati del Tesoro.

Una terza versione, quella vera, proveniva dal campo dei proscritti, dagli esclusi da tutto, gli estranei al chiamato “arco costituzionale”, eretto per giustificare l’associazione dei comunisti al potere. Il dramma nazionale era il costo del regime, il suo peso insopportabile, economico e civile. Tanta acqua è passata sotto i ponti, nel sistema Italia, ma siamo ancora lì. Tutto è cambiato affinché nulla cambiasse, come voleva Tancredi, il nipote del Gattopardo. Oggi facciamo i conti con i vincoli dell’appartenenza all’Unione Europea, con la globalizzazione, la perdita della sovranità economica e monetaria, la dittatura incapacitante del politicamente corretto.

Tralasciamo il mostruoso debito pubblico. Basti ricordare che era pari al Prodotto Interno Lordo dieci anni fa, è il 132, 7 per cento adesso. Tecnicamente è impagabile, per cui tanto varrebbe lavorare per uscire dalle sue spire con gli strumenti contabili dell’economia e della finanza, magari ad iniziare dalla parte più vecchia. Il dato che desta l’indignazione e la rivolta morale è che il debito di tutto il mondo è pari a 54 volte il PIL universale. Di che cosa stiamo parlando, dunque, se non di un gigantesco imbroglio?

 

 

Magari poi sarà il caso di esigere dal regime il saldo dei suoi debiti con i privati fornitori. Si parla di somme che vanno dai 60 ai 90 miliardi, per cui nella gloriosa repubblica italiana i farabutti pilotano i fallimenti con il metodo “prendi i soldi e scappa”, mentre chi lavora fallisce per i crediti insoluti della Pubblica Amministrazione e dei grandi clienti, che ritardano i pagamenti per metodo. Notazione a margine: il plafond all’esportazione – ovvero il diritto di acquistare beni o servizi in sospensione dell’IVA per chi ha un volume d’affari costituito da vendite all’estero per almeno il 10 per cento – sopravvive per l’incapacità dello Stato di rimborsare in tempi ragionevoli la maggiore imposta versata dalle aziende. Bancarotta funzionale ed insieme morale di un regime succhia sangue.

 

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La Pubblica Amministrazione appare sempre più come un problema, un ostacolo insormontabile a qualsiasi soluzione. Il costo dei prefetti e dei loro collaboratori è tanto elevato, specie se paragonato all’utilità reale delle funzioni, da essere l’unica giustificazione al titolo medievale di “eccellenza” che ostentano e pretendono tra stucchi e tappeti dei loro lussuosi palazzi. Il consenso più convinto al sistema di potere viene quindi dai numerosi gruppi e ceti che ricevono il sangue prelevato dai donatori involontari, noi. In questo senso, regime non è solo il governo ed il suo apparato coercitivo, ma anche le oligarchie europee, il sistema bancario e finanziario, le mafie e la criminalità. Regime e potere sono tutti coloro che vogliono ed ottengono qualcosa – per via di legge, abitudine, ricatto o violenza – senza dare nulla in cambio.

Il potere reale è in capo a chi può esigere tasse, che non sono solo l’IRPEF, l’IVA o le accise, ma anche le commissioni bancarie ingiustificate, gli interessi a strozzo, le licenze dell’economia digitale, la spregevole protezione della malavita. Per una curiosa coincidenza, la somma di 64 miliardi in uscita nel corrente decennio per rimesse degli stranieri in patria è uguale alle perdite subite ed attese nel medesimo periodo dai pubblici bilanci di Stato ed enti territoriali a causa del sistema dei derivati. Warren Buffet, uno dei super ricchi, ha chiamato tali prodotti finanziari “armi di distruzione di massa”. Al tempo del governo Monti, quello dei salvatori della Patria, il contribuente dovette scucire 4,7 miliardi alla banca d’affari Morgan Stanley, i cui “generosi” prestiti erano collegati a derivati non profittevoli. Anzi, profittevolissimi per chi li aveva emessi ed imposti al richiedente credito come il cappio stretto al collo dell’impiccato. I dati ufficiali dimostrano che di questi titoli velenosi ce ne sono in Italia per almeno 250 miliardi, la maggior parte nei bilanci di enti pubblici. Questo è il risultato di una classe dirigente politica ed amministrativa serva, incapace ed irresponsabile. Per le banche, naturalmente, è tanta manna: i derivati tossici andranno all’incasso, poiché Pantalone verrà torchiato un po’ di più. Non si tratta di NPL, non performing loans, prestiti in sofferenza inesigibili. Nelle banche del bel Paese ce ne sono a montagne. Duecento, trecento, forse 350 miliardi di euro. Si fa fatica a scrivere gli zeri, ed è la bomba ad orologeria che può far esplodere tutti noi.

La possibile bancarotta è così grande da non poterla descrivere, ma è un altro esorbitante costo del regime, dei suoi NPL, non performing leaders, le classi dirigenti inette e corrotte che abbiamo allevato anziché cacciarle a pedate. Intanto, le banche cercano di uscire dal guano attraverso il denaro pubblico. I profitti restano privati, le perdite no, specie da quando è operativa la normativa detta “bail in”, che rapina direttamente il denaro degli obbligazionisti e dei correntisti. E’ un regime, una dittatura che si impadronisce anche dei risparmi. Prima lo capiremo, meglio sarà per organizzare una vera reazione di popolo.

Già che ci sono, ci stanno espropriando del denaro contante con la ridicola scusa della lotta alla criminalità. In realtà temono la corsa agli sportelli quando il bubbone scoppierà e si preparano a farci pagare interessi negativi per il grazioso servizio di trattenere forzosamente i nostri soldi. I grandi debitori insolventi, comunque, vivono tranquilli. Governo e PD li proteggono, poiché, come nel gioco del domino, la prima carta che cade fa precipitare l’intero castello.

Chi opprime, i NPL, non performing leaders, conosce assai bene l’arte di ingannare le masse. Ecco allora riapparire alcuni collaudati diversivi, come la lotta all’evasione fiscale e, ultimo arrivato, lo sdegno contro i cosiddetti “furbetti del cartellino”. Caso strano, da un paio d’anni Guardia di Finanza e Carabinieri piazzano cimici e telecamere accanto alle apparecchiature di rilevazione delle presenze dei pubblici dipendenti. Il successo è assicurato, le notitiae criminis erano lì da sempre, specie nel verminaio clientelare degli enti locali e di certe aziende sanitarie. La casta sacrifica volentieri un certo numero di propri clienti e fedeli elettori: è per un’ottima causa, la sopravvivenza e la ricostruzione della propria verginità. Meglio dei chirurghi di Casablanca resta l’antico metodo del capro espiatorio che ricompatta la comunità.

Quello dell’evasione fiscale contro cui si organizzano cicliche battute di caccia è un disco rotto, un’arma impugnata per diffondere odio ed invidia sociale senza risolvere il problema. Del resto, le imprese di derattizzazione non possono sterminare tutti i topi, ne andrebbe del fatturato. E’ chiaro che i lavoratori autonomi ed i professionisti si arrangiano, ma i grandi evasori non sono loro. Vogliamo parlare delle norme sulle fondazioni, gli infiniti cavilli a favore delle banche, le scatole cinesi utilizzate dalle società internazionali e multinazionali? Il capitalismo digitale la fa da padrone, in materia: un’impresa italiana dai ricavi uguali a Facebook pagherebbe 124 milioni di imposte. Mark Zuckerberg ne paga poco più di 300 mila, circa lo 0,2 per cento, in assenza di norme che tengano conto della nuova realtà del capitalismo digitale. Cliccate “non mi piace”! Ai moralisti progressisti non interessa: nemici del popolo sono idraulici, parrucchieri e piccoli imprenditori.

Poi si scopre che in Sicilia, paradiso dell’autonomia a statuto speciale, l’Equitalia locale, che si chiama Riscossione Sicilia – nome pirandelliano, così è se vi pare – ha incassato l’8 per cento dei suoi crediti, 480 milioni su 5,7 miliardi. Pare che il buco, da sommare alle voragini dei bilanci dell’intangibile regione autonoma, sia di 50 miliardi in dieci anni. Uno, nessuno e centomila gli evasori dell’isola, tra i quali spiccano i comuni delle grandi città, in testa la Catania di Enzo Bianco, e le raffinerie di petrolio. In molte zone, dicono sia impossibile financo la notifica degli atti. I personaggi sono sempre in cerca d’autore, il loro indirizzo, si perdoni la battuta, è Liolà. Eppure, esistono i messi comunali e la notifica per affissione all’albo comunale. Misteri al sole di Trinacria, forse bisognerà ricorrere ai Beati Paoli. Riscossione Sicilia, peraltro, può contare su oltre 700 dipendenti e, udite, udite, 875 consulenti. Le cronache riferiscono che tre quarti di loro sono stati assunti per chiamata diretta.

L’isola più bella del mondo può contare su migliaia di super pensionati, la metà dei circa 30.000 italiani che riscuotono almeno 15.000 euro mensili. Caste, sempre caste, inamovibili, arroganti, privilegiate. Per mantenerli a cinque stelle se ne va un altro miliardo abbondante dei nostri: si gratta in genere di superburocrati, ex dirigenti della regione e dei vari carrozzoni annessi. Una classe dirigente incapace che ritrova piglio decisionista e brillante ingegno allorché si tratta di sistemare i fatti propri. Scusi chi legge se dalla tastiera esce l’espressione più volgare: i cazzi loro.

Tutto è numero, ma non si sa se è più drammatica la bancarotta economica o lo sfascio civile ed etico che la produce ed alimenta. Ed è sin troppo facile, talvolta ingeneroso, attaccare la pubblica amministrazione. Ma è arduo restare indifferenti dinanzi ai dati statistici ufficiali da cui si evince che la maggiore percentuale di impiegati pubblici sono nelle regioni a statuto speciale. Trentino Alto Adige, Valle d’Aosta e Friuli Venezia Giulia staccano largamente Sicilia e Sardegna, né consola granché prendere atto che le tre piccole regioni di confine del Nord spendono meglio i denari rispetto alle due isole. Sempre di fiumi di denaro si tratta, utilizzati soprattutto per comprare il consenso.

Le spese per la ricerca e la cultura sono tagliate, i terremotati vivono assai peggio dei clandestini (no, dei richiedenti asilo, la psico polizia ha individuato un’altra parola vietata), mancano i soldi per la salute, le case popolari e la protezione civile, ma le caste privilegiate, a Bolzano come a Palermo, negli enti pubblici e nell’alta amministrazione (alta…) se la passano benissimo. Mantenere il Quirinale costa più di Buckingham Palace, un impiegato d’ordine di Camera o Senato (assunto con regolare, regolarissimo concorso!) porta a casa quanto un primario ospedaliero. Che importa, se l’Italia è senza soldi può sempre chiederli in ginocchio al MES, il Meccanismo Europeo di Stabilità. Approvato da una maggioranza parlamentare schiacciante, consiste nel versare oltre 100 miliardi ad un fondo che agisce come banca d’affari ma ha poteri insindacabili, sovranità ed immunità come le banche centrali. Il MES ci presterà volentieri i nostri soldi, pretendendo un interesse ed imponendo le politiche di suo gradimento.

L’aspetto più sconcertante dell’epoca in cui ci tocca vivere non è che ci rapinano ed ingannano, ma che lo fanno con il nostro consenso e facendoci credere che è per il nostro bene. Meritiamo tutto, anche il jobs act, la legge sul lavoro dal nome oxoniano che ha favorito le assunzioni in quanto tasse e contributi sono stati fiscalizzati, ed ha prodotto i successivi licenziamenti non appena terminati gli effetti della norma. Poi c’è il debito implicito, come se non bastasse quello immenso su cui paghiamo interessi per almeno 100 miliardi annui. Si tratta delle somme relative alle future prestazioni assistenziali, sanitarie e previdenziali. Al tempo del primo governo Berlusconi, il ministro leghista Pagliarini venne travolto da polemiche e coperto di ridicolo per averne parlato. Forse l’esponente del Carroccio dall’aspetto e l’eloquio dei ragionieri milanesi di una volta fu impolitico o inopportuno, ma i fatti hanno la pessima abitudine di tornare a galla.

La pessima gestione dell’INPS – appaltato da anni ai sindacati ed unico partecipante pubblico di Banca d’Italia – ha generato buchi di bilancio enormi, ripianati dal contribuente ad ogni esercizio. Nel 2016 si è trattato di oltre undici miliardi, nonostante l’istituto abbia fagocitato diverse casse private in attivo. Il fatto è che ha ereditato alcune gestioni speciali assai allegre, come quella degli enti locali nonché i passivi dei fondi dei dipendenti elettrici e telefonici. Ha inoltre in carico la voragine dell’INPDAP, l’istituto dei dipendenti pubblici. I versamenti relativi, infatti, sono figurativi, vere solo le ritenute a carico dei lavoratori.

All’ingresso dell’inferno dantesco era scritto “Lasciate ogni speranza, o voi che entrate”, ma in Italia abbiamo lo stellone su cui contare, sempre che non sia stato privatizzato a nostra insaputa. Come farà lo Stato italiano a corrispondere le pensioni tra dieci o vent’anni, se i lavoratori che versano contributi sono sempre meno e guadagnano cifre irrisorie, caste a parte? E’ in pieno sviluppo la gig economy, il sistema di lavoretti precari, sottopagati, manipolati dai nuovi caporali del lavoro interinale. Negli Usa, dove tutto accade con anticipo, il 16 per cento degli impieghi, un terzo di quelli recenti, è definito lavoro atipico. Ci stiamo arrivando, in fretta, ed i governi di sinistra riescono ad essere più antipopolari di quelli liberali. Lo dimostrano la vicenda dei tassisti e la direttiva europea Bolkenstein. Offrono spazio, in nome di una finta liberalizzazione funzionale agli interessi dei grandi gruppi, alle multinazionali del nuovo caporalato, come Uber. Trattasi di una piattaforma informatica USA che offre in tempo reale (che meraviglia!) un’automobile con autista. Il consumatore risparmia qualche spicciolo, l’autista guadagna pochissimo, l’evasione fiscale aumenta insieme con i rischi per chi richiede il servizio. In compenso Uber incassa, sempre in tempo reale, la sua percentuale. Il commercio ambulante sarà spazzato via dalla liberalizzazione delle imprese di servizi intitolata al gerarca europoide Bolkenstein. Questa è la società che vogliono e ci impongono.

Le caste dominanti, alla fine, non sono altro che i ben pagati maggiordomi dei veri padroni. Diffondono, alimentano, producono corruzione sempre nuova e capillare. Un altro numero: 2,7 miliardi è il valore delle commesse in capo alla nuova centrale pubblica Consip. Sono in corso indagini a carico di personaggi come il babbo di Matteo Renzi, il ministro del giglio magico Luca Lotti ed il comandante generale dell’Arma dei Carabinieri. Pessimi esempi che incoraggiano comportamenti di massa ogni giorno peggiori. Il costo del regime aumenta costantemente, poiché più si decade e meno ci si rende conto del declino; la possibilità di invertire la rotta si affievolisce sino a svanire.

Resto l’italico stellone, forse cartolarizzato come collaterale a garanzia di un derivato targato Goldman & Sachs.

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