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3 luglio 2017

 

Perché oggi non ci può essere un Fantozzi

di Alessandro Gilioli.

 

Il patto tra azienda e lavoratore era di tipo schiavistico - certo - ed era anche grottesco: eppure era un patto definito, un accordo triste ma rassicurante, ingiusto ma solido

 

Ho capito che Paolo Villaggio non aveva inventato niente il giorno in cui, in una grossa azienda editoriale del nord, ho visto che c'erano due ascensori uno accanto all'altro. Uno era normale, l'altro con la boiserie. Davanti al secondo c'era scritto: «Riservato Alta Dirigenza».

Il mondo del lavoro descritto nei libri e nei film di Fantozzi era così: pacchiano nel suo classismo, volgare nella sua esibizione della gerarchia, violento nello scontro quotidiano tra l'alto e il basso, tra il capo e il sottoposto.

Eppure era un mondo a suo modo limpido, "onesto", trasparente. Non c'erano gli infingimenti cosmetici con cui oggi vengono mascherati divari di potere e di reddito che peraltro nel frattempo sono aumentati, non diminuiti.

 

Il sottoposto era appunto un sottoposto, non si faceva finta che fosse un "collaboratore". La sua prestazione non era a cottimo, né forzatamente notturna e festiva - come oggi avviene nei magici mondi della gig economy e della logistica, ma non solo - bensì legata a precisi orari diurni, terminati i quali i dipendenti avevano diritto perfino a scappare dalla finestra, pur di non regalare un minuto di più all'azienda.

Lo stipendio era garantito (garantito, incredibile!) così come garantite erano le ferie, che Fantozzi poi trascorreva sotto la sua consueta nuvola.

Il patto tra azienda e lavoratore era di tipo schiavistico - certo - ed era anche grottesco: eppure era un patto definito, un accordo triste ma rassicurante, ingiusto ma solido, che non rischiava di dover essere riscritto ogni giorno e ogni giorno peggiorare, o semplicemente sparire - puf, oggi non ci servi.

E ancora, non c'era bisogno di dissimulare coinvolgimento motivazionale negli obiettivi dell'azienda, fosse essa pubblica o privata. Non c'era bisogno di mettere in scena la grande ipocrisia dell'identificazione, degli obiettivi, dell'"empowerment". Né si era costretti al sorriso perenne e alla disponibilità 7/24, che sono la galera dei free agentattuali, delle partite Iva attuali, dei "rider" attuali. Potevi limpidamente odiarla la tua azienda, potevi odiarlo il tuo ufficio, anzi era scontato che tu lo odiassi. I ruoli erano più onesti, in fondo.

Villaggio ha descritto lo schiavismo umiliante del mondo del lavoro com'era prima della globalizzazione e prima che l'epocale vittoria del liberismo estremo polverizzasse ogni argine, ogni regola, ogni patto. Ci faceva ridere, perché caricaturava e portava all'estremo quello che milioni di persone realmente vivevano nei loro polverosi e grigi luoghi di lavoro. Lo schiavismo di oggi non è nemmeno caricaturabile perché è già all'estremo in sé, non può essere portato oltre con la chiave del grottesco.

 

Non si riesce più nemmeno a ridere, parlando di lavoro, oggi.

 

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