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10 lug 2017

 

Mosul è libera

di Chiara Cruciati

 

Il premier al-Abadi ha annunciato la liberazione della città dopo nove mesi di combattimenti e tre anni di occupazione dell’Isis, che si sposta a Tal Afar. Onu: un miliardo di dollari per ricostruire. Ma la sfida vera è politica

 

Roma, 10 luglio 2017, Nena News –

 

Mosul è stata liberata. L’annuncio lo ha dato ieri il premier iracheno al-Abadi, arrivato per l’occasione nella seconda città irachena a congratularsi con l’esercito dopo quasi nove mesi di battaglia strada per strada e tre anni di occupazione islamista.

Una battaglia durissima in una città distrutta, spettro della sua storia e della sua ricchezza. L’immane distruzione l’hanno mostrata le immagini che in questi mesi hanno accompagnato la lenta avanzata delle truppe irachene e, da ultimo, le macerie della Grande Moschea al-Nuri e del suo minareto, il “gobbo”.

Ieri i soldati festeggiavano, ballavano e sventolavano le bandiere irachena. L’ultima è stata issata lungo il fiume Tigri. Ma mentre i civili intrappolati per mesi in città vecchia venivano portati via, affamati e assetati, con poche cose con sé, tutti controllati dalle forze governative che temono che tra loro si nascondano miliziani in fuga, il rumore dei combattimenti continuava a risuonare: ci sarebbero piccolissime sacche di miliziani ancora presenti.

Secondo fonti locali della provincia di Ninive, molti sono fuggiti a Tal Afar, cittadina a ovest di Mosul, a metà strada tra la città irachena e il confine con la Siria da mesi assediata dalle milizie sciite legate all’Iran e sottoposte – per questa operazione – al controllo di Baghdad. Un volantino distribuito nella cittadina spiegherebbe alla popolazione che tutte le strutture amministrative dell’Isis, che di Mosul aveva fatto la base del suo progetto statuale, sono state trasferite a Tal Afar.

L’Isis ammette la sconfitta a Mosul ma non si arrende. La strategia militare e politica del califfato si era già ampiamente modificata nel corso dell’ultimo anno quando la percezione della perdita territoriale era ormai radicata dopo Ramadi, Fallujah, Kobane. Kamikaze nei territori non occupati, azioni a sorpresa da Baghdad a Damasco hanno dimostrato la capacità di infiltrazione islamista e di attrazione di nuovi adepti e potranno continuare a destabilizzare paesi indeboliti da anni di guerra e frammentati sul piano politico e sociale.

È il caso di Mosul, specchio di questa distruzione politica. Nelle strade strette della città vecchia sono decine i corpi senza vita degli ultimi islamisti, impegnati in una resistenza brutale fatta di kamikaze e cecchini. Tanto brutale da uccidere il 40% dei soldati delle forze di élite irachene, perdite elevatissime che si sommano alla devastazione subita dai civili. Oltre due milioni gli sfollati da Mosul, un numero imprecisato di vittime – molti cadaveri sono sotto le macerie, rendendo impossibile definire un bilancio – e una distruzione immane.

Ora c’è da ricostruire la città sia fisicamente che sul piano sociale. Nei giorni scorsi il portavoce dell’ufficio del premier, Saad al-Hadithi, parlava di un piano di ricostruzione delle aree occupate dall’Isis e ora liberate: 100 miliardi di dollari da investire in 10 anniper scuole, ospedali, strade, infrastrutture elettriche e idriche. Altri numeri li danno il Dipartimento della Difesa statunitense (che ha chiesto al Congresso 1,269 miliardi di dollari per il 2018 a sostegno del governo iracheno) e l’Onu che parla di un miliardo di dollari per ricostruire le infrastrutture base di Mosul.

E mentre si fa avanti la Banca Mondiale, l’ente che finanzierà con i prestiti i 100 miliardi previsti da Baghdad, a preoccupare è il trattamento che sarà riservato alla comunità sunnita, marginalizzata dal 2003 dopo la caduta di Saddam Hussein e protagonista di sollevazioni e proteste culminate con una parziale accoglienza – o una scarsa resistenza – all’arrivo dello Stato Islamico in città nel giugno 2014.

Gli sfollati devono tornare al più presto, dicono da Baghdad, dunque la ricostruzione va lanciata subito. E vanno fatti tornare tutti, sciiti, sunniti, kurdi, cristiani, tutte le minoranze che hanno fatto di Mosul la città del melting pot e della convinvenza e ora teatro di una divisione interna pericolosa frutto della paura di rappresaglie e nuove discriminazioni.

Ma soprattutto è necessario un piano politico di inclusione che li faccia sentire parte di uno Stato al momento fallito. Intorno premono gli interessi di tanti attori esterni: gli Stati Uniti che non hanno mai nascosto l’interesse per una divisione federale dell’Iraq; la Turchia, presente con le truppe a nord di Mosul, che immagina la creazione di un corridoio settentrionale che impedisca al Pkk di radicarsi a Sinjar; l’Iran che punta al mantenimento dell’unità nazionale per fare di Baghdad il primo pezzo di un asse sciita che arrivi in Libano, via Damasco. Nena News

 

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