http://www.notiziegeopolitiche.net/

23 settembre 2017

 

Kurdistan, referendum del 25 settembre, Surme: saremo nazione, l’iraq non è stato ai patti

a cura di Enrico Oliari

 

 

C’è fermento nel Kurdistan Iracheno per il referendum indipendentista che si svolgerà a breve, il 25 settembre: la posta in gioco è alta, realizzare il sogno di un popolo-una nazione, per quanto i curdi siano in realtà distribuiti su quattro paesi che in più occasioni hanno dimostrato di mal sopportarli, si veda la Turchia di Recep Tayyp Erdogan o l’Iran degli ayatollah.

 

Eppure i curdi dell’Iraq ritengono che sia arrivato il momento, che i tempi siano maturi per autodeterminarsi, per uscire dalla logica del trattato Sykes-Picot del 1916, dove Francia e Gran Bretagna tracciarono su una mappa confini anonimi, senza considerare il crogiuolo di etnie e di confessioni che da sempre vivono in quella parte di mondo.

 

Certo, ci vuole una buona dose di coraggio per reclamare, oggi nel marasma mediorientale, l’indipendenza, anche perché l’atteggiamento dei vari paesi va dall’immobilismo di alcuni alle minacce di un intervento armato espresse di recente da Baghdad. Ma i curdi hanno dimostrato proprio con la guerra all’Isis di avere coraggio da vendere e di essere determinati ad andare per la loro strada.

 

Così il 15 settembre, nonostante gli Usa, sollecitati dal governo centrale iracheno, avessero chiesto uno slittamento del referendum, i deputati di Erbil hanno deciso di continuare per il cammino intrapreso e quindi di convalidare la data del 25 settembre che, comunque vada, è entrata nella storia.

 

Ne parliamo con Shorsh Surme, giornalista e analista, curdo di Erbil.

 

– Dott. Surme, già oggi il Kurdistan Iracheno gode di una speciale autonomia nel contesto dell’Iraq, è una regione autonoma con un proprio statuto speciale che i curdi di Iran, Turchia e Siria non hanno: perché è necessario arrivare all’indipendenza?

”I curdi hanno partecipato alla stesura della Costituzione dell’Iraq, ed era stato stabilito che il paese avesse una forma federale. Nonostante la buona volontà i problemi da parte nostra nei confronti del governo centrale sono continuati i problemi e non tutto ciò che era stato stabilito ha poi trovato attuazione, come nel caso dell’articolo 140 che prevedeva il ritorno dei territori curdi arabizzati da Saddam Hussein al Kurdistan, si pensi alla città di Kirkuk. Cose da fare le tempo, ma che poi non hanno mai trovato attuazione. Fino ad arrivare al 2014, quando Baghdad ha smesso di dare al Kurdistan il 17% del bilancio, denaro necessario per pagare funzionari, ospedali e scuole”.

 

– Sì, però il governo centrale vi accusa di non aver inviato il quantitativo di petrolio stabilito, ed anzi, di averlo venduto per conto vostro alla Turchia…

”Non è proprio così: i curdi fino alla metà del 2013 non vendevano niente. L’accordo prevedeva che una parte del petrolio estratto venisse inviato in Iraq, ma quando si è visto che il denaro pattuito non era corrisposto è stato deciso di venderlo per proprio conto attraverso la Turchia affidandosi a due compagnie, una norvegese ed una turca”.

 

– Però stiamo parlando del 2014, l’Iraq era già in guerra…

”Anche il Kurdistan lo era. All’inizio, quando l’esercito iracheno scappava di fronte all’Isis, quando i jihadisti prendevano il controllo di ampie porzioni di territorio ogni giorno, quando Mosul cadeva senza che Baghdad movesse un dito, i curdi hanno imbracciato le armi ed hanno saputo essere il primo baluardo che ha arginato l’espansione del “Califfato”. Noi allora non prendevamo un centesimo da nessuno, solo dopo, quando si è visto che su di noi si poteva contare, gli Usa e le potenze della coalizione ci hanno aiutati. L’Iraq sta andando sempre peggio, e noi non possiamo restare con uno Stato non in grado di intervenire, come neppure di amministrare la popolazione… ci sono cittadini arabi dell’Iraq che stanno stracciando documenti di identità perché vogliono trasferirsi in Kurdistan, dove almeno esiste una forma di Stato”.

 

– Già, ma vendere il petrolio attraverso la Turchia che voi stessi accusate di reprimere le popolazioni curde non vi sembra un controsenso?

”Personalmente ne parlo spesso in occasione di interviste ai media, come questa, ed ho un atteggiamento critico nei confronti di chi ha governato il Kurdistan negli ultimi 27 anni: è difficile sopravvivere in una regione circondata da quattro governi ostili e per di più con i nostri partiti divisi. Tutti hanno cercato di usare i curdi mettendo gli uni contro gli altri. Cosa farebbe Erdogan dopo il 25 settembre? Rinuncerebbe agli 11 miliardi di dollari, alle 2.700 aziende turche in Kurdistan? E l’Iran, con le sue aziende e gli 8 miliardi che guadagna con il Kurdistan? Io non penso che l’indipendenza del Kurdistan rappresenti realmente un problema per questi due pesi, stessa cosa per la Siria, che comunque con la guerra all’Isis ha mutato atteggiamento verso i curdi”.

 

– Tuttavia i governi vicini potrebbero pensare ad un allargamento del desiderio di indipendenza ai curdi presenti sul proprio territorio…

”E’ evidente che tutti i curdi vorrebbero l’indipendenza, ma altrove i segnali sono diversi: pochi giorni fa in Iran sono stati arrestati alcuni curdi perché avevano sventolato la bandiera del Kurdistan Iracheno. Tuttavia bisogna tenere presente che il popolo curdo è unico, noi abbiamo 182mila morti sepolti nel deserto fino ai confini sauditi, 5mila uccisi con i gas da Saddam Hussein e tante sofferenze a cui dare una risposta. Anche mio padre, che era un dirigente politico, è stato ucciso. E non vi è curdo che non abbia perso un parente. Penso che ai paesi vicini dia fastidio un Kurdistan che diventi culla di convivenza, e vi sono turcomanni che voteranno “sì” al referendum”.

 

– Mi permetta un’osservazione: l’anno scorso per i nostro giornale ci trovavamo ad ovest di Kirkuk, sugli avamposti peshmerga, in prima linea: rispondendo ad una nostra domanda sul fatto che ci si trovava ben oltre il confine curdo, il generale peshmerga Kemal al-Kirkuki, capo delle relazioni del Partito Democratico, aveva risposto che “Kirkuk è sempre stata abitata dai curdi, deportati come i turcomanni da Saddam Hussein per sostituire la popolazione con gli arabi. E siamo noi peshmerga ad aver lottato e sparso sangue per liberarla dal Daesh. E ce la terremo per il nostro Kurdistan indipendente, a costo di fare un’altra guerra“. Un’altra guerra contro chi, gli avevamo chiesto noi. E lui, “Agli iracheni non cediamo questa terra. Se non funzionerà la diplomazia, combatteremo come abbiamo combattuto fino ad oggi“. Siete davvero pronti ad imbracciare le armi contro l’Iraq?

”L’intento non è quello. I peshmerga erano là, oltre il confine del Kurdistan, per mettere le mani avanti e prevenire un attacco diretto alla nostra terra. Ma è certo che se l’Iraq userà la forza contro di noi, come ha minacciato il premier al-Abadi, noi siamo pronti a rispondere, abbiamo buone posizioni. Ora c’è voglia di referendum, perché per la prima volta nella storia si presenta l’occasione, e spero che gli iracheni ci pensino due volte ad intervenire: un Kurdistan indipendente può essere per l’Iraq un amico, idem per la Turchia”.

 

– Ritiene che gli Usa possano appoggiare l’iniziativa, magari perché il governo iracheno è ormai praticamente in mano all’Iran?

”Gli Usa hanno sempre il piede in due staffe e fino ad oggi non si sono espressi ne’ a favore del referendum, ne’ contro. Certamente potrebbero vedere la nostra indipendenza in funzione anti-iraniana. Semmai siamo rimasti stupiti del presidente francese Emmanuel Macron, che ha raccomandato il dialogo: pensavamo che la Francia fosse un paese amico… che dialogo vuole che ci sia, Macron?”.

 

top