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24 settembre 2017 

 

Il tranello dell’indipendenza curda

di Daniele Perra

 

A prescindere dall'esito scontato del referendum per l'indipendenza del Kurdistan iracheno o dalla sua probabile sospensione, la creazione di uno Stato curdo nell'attuale panorama mediorientale cela non poche ambiguità. Soprattutto se si considera che i principali sostenitori di questa ipotesi (Israele e USA) non hanno alcuna intenzione di stabilizzare la regione.

 

I fiumi di inchiostro attraverso i quali pennivendoli di vario genere e presunti intellettuali occidentali si sono spesi in favore del meritevole popolo curdo, paladino della lotta contro l’ISIS, dovrebbero già lasciar intuire il carattere non propriamente genuino di un simile processo di autodeterminazione. È noto che la creazione di uno Stato curdo e il suo sfruttamento come testa di ponte dell’imperialismo occidentale nel Levante fosse già prevista nel Progetto Grande Medio Oriente elaborato nei primi anni duemila dall’amministrazione Bush e nel suo antecedente sionista: il Piano Yinondei primi anni Ottanta del XX secolo, in cui la disgregazione su linee etnico-settarie dell’Iraq era considerata la soluzione migliore per neutralizzare un governo baathista dotato di un potente esercito e dunque percepito come concreta minaccia esistenziale da Israele.

 

È un dato di fatto che Israele sia presente con i suoi servizi segreti nell’Iraq settentrionale (area geopolitica di valore cruciale nel panorama mediorientale) sin dagli anni Cinquanta col preciso scopo di indebolire dall’interno lo Stato iracheno. Non sorprende dunque il pieno sostegno del governo israelianoall’indipendenza della regione e più in generale alla causa curda; tanto che l’alto ufficiale dell’IDF Yair Golan, salvo poi una parziale ritrattazione, è arrivato a dichiarare che il PKK non costituisce un’organizzazione terroristica.

 

Israele ha sempre cercato l’appoggio nell’area di ogni gruppo etnico non arabo e di fronte alla potente presenza iraniana ai suoi confini e ad una Turchia orientata verso una seppur combattuta svolta eurasiatica, la carta curda rimane la più valida per garantire la destabilizzazione interna dei paesi vicini. A ciò si aggiunge una non disinteressata solidarietà derivante da una presunta comunanza di destino. I curdi, al pari degli ebrei, sarebbero stati vittime di secolari persecuzioni. Persecuzioni che ora, di fronte ad un’accresciuta potenza militare grazie agli aiuti occidentali, fornirebbero loro la giustificazione per azioni unilaterali volte non solo all’autodeterminazione nazionale ma anche all’espansione territoriale e ad operazioni di pulizia etnica alle quali, tra l’altro, i curdi non sono nuovi: basti pensare al ruolo attivo svolto dai loro gruppi paramilitari nel genocidio armeno.

 

Di fatto, col pretesto della lotta all’ISIS, ben più tiepida di quanto descritto sui media occidentali (il Kataib Hezbollah – Hezbollah iracheno – ha recentemente affermato che curdi e statunitensi avrebbero aiutato i terroristi ad evacuare Tal Afar e giungere ai campi di Ninive, mentre gli yazidi hanno spesso dichiarato che i curdi non avrebbero mosso un dito per proteggerli dall’ISIS nel 2014), il Governo Regionale Curdo dell’Iraq (KRG) ha accresciuto il suo territorio di oltre il 40%.

Ora, il referendum, stabilito salvo rinvio o sospensione per il 25 di settembre, si dovrebbe tenere nei tre governatorati che costituiscono questa regione autonoma ed in alcune aree contese con il governo centrale, etnicamente diversificate come nel caso dell’area di Kirkuk dove sono presenti sia nuclei arabi che turcomanni, ma sotto il diretto controllo militare curdo. Ed è proprio lo status di queste aree e l’imposizione forzata del referendum da parte dei peshmerga a costituire la ragione dell’illegittimità dell’azione unilaterale curda. Lo status di questi territori venne stabilito nella costituzione irachena del 2005: una costituzione che è comunque prodotto della pesante ingerenza statunitense a seguito dell’invasione del 2003. Gli articoli 119 e 140 prevedono i meccanismi di risoluzione delle controversie riguardanti i suddetti territori. Meccanismi che in ogni caso prevedono la negoziazione e consultazione tra le parti coinvolte nel rispetto della legittimità costituzionale. La soluzione a queste controversie territoriali sarebbe dovuta arrivare già dal 2007, ma la guerra civile e la seguente espansione del gruppo Stato Islamicohanno bloccato la corretta prosecuzione del supposto iter parlamentare.

 

Sulla base di ciò, l’11 di settembre, il parlamento iracheno ha espresso parere contrario al riconoscimento di validità del referendum ed il vice-presidente Nouri al-Maliki ha dichiarato: non tollereremo la creazione di una nuova Israele nel nord dell’Iraq.

 

Allo stesso tempo, lascia abbastanza perplessi la fretta con la quale il Governo Regionale Curdo stia cercando di imporre la sua decisione. Di fatto, il Kurdistan iracheno è già largamente autonomo sotto ogni aspetto e può raggiungere facilmente l’indipendenza attraverso soluzioni negoziali col governo centrale nel giro di pochi anni. Sorge dunque il dubbio che il suo leader Mas’ud Barzani, la cui presidenza soffre di mancanza di legittimità costituzionale, stia accelerando il processo solo per motivi personali.

 

Nata nel 1945 nella Repubblica del Kurdistan, unica entità politica curda indipendente nella storia creata nel nord-ovest dell’Iran, con capitale Mahabad, e durata solo undici mesi, Barzani, a capo del Partito Democratico del Kurdistan (PDK) dal 1979, ha capito che adottare politiche marcatamente anti-iraniane e anti-siriane è la via maestra per incrementare le sue credenziali in Occidente in un momento in cui la sua stessa leadership è messa in discussione dall’interno. Infatti, sia il Partito cristiano Beit al-Nahrain che il Partito di opposizione Goran ed alcuni raggruppamenti vicini all’Islam politico si oppongono alla consultazione referendaria. Il leader curdo, tuttavia, ben conscio dell’attuale debolezza militare dell’Iraq, che solo i gruppi di mobilitazione popolare (Hashad al-Shaabi) costituirebbero una reale minaccia al suo progetto, e del fatto che ora un’eventuale rinuncia ne minerebbe definitivamente la popolarità e l’autorità, ha altresì affermato che ogni tentativo di modificare l’attuale situazione dei confini del KRG costituirà causa di guerra.

 

Appare evidente che uno Stato curdo indipendente costituirebbe una spina nel fianco per la Siria, in cui nelle fette di territorio conquistate dall’YPG operano già diverse unità statunitensi la cui presenza è stata a più riprese dichiarata illegale dal Ministro degli Esteri russo Lavrov; per la Turchia (in cui vivono 14 milioni di curdi) e per l’Iran (6,7 milioni di curdi), però, nonostante l’evidente danno economico derivato dall’incessante lavoro dei contrabbandieri al confine con l’Iraq e nonostante la creazione nel 1945 della già citata Repubblica del Kurdistan, a causa di una relativamente buona integrazione nel tessuto sociale iraniano (viene spesso enfatizzata la comune discendenza indoeuropea e arya dei due gruppi etnici) e all’assenza di una leadership politica, non costituisce ad oggi una reale minaccia all’unità della Repubblica islamica.

 

Il generale dei pasdaran Mohammad Reza Naqdi ad ogni modo ha dichiarato che il piano unilaterale del Governo Regionale Curdo in Iraq altro non è che un complotto nordamericano per acuire le divisioni tra i musulmani dell’area. Di fatto, gli USA, pur presentandosi come paladini dell’indipendenza curda, hanno il timore che il referendum possa costituire un fattore di coesione tra Iran e Turchia (importanti incontri al vertice sia militari che istituzionali tra i due paesi sono ormai frequenti) e per questo, seppur timidamente, ne hanno chiesto il rinvio. Anche la Lega Araba ha espresso il suo parere sfavorevole. Tuttavia, l’eventuale reazione della Lega Araba ad un’indipendenza curda, visto il patrocinio riposto su di essa dall’Arabia Saudita, ormai apertamente alleata di Israele (l’erede al trono Bin Salman ha parlato di istituire legami fraterni con lo Stato ebraico), non è così scontata e qualora vi fosse, in modo anche tiepido, spingerebbe ulteriormente i curdi nell’abbraccio sionista.

 

Le possibilità che una nuova entità territoriale e politica al posto di condurre alla pacificazione dell’area porti a nuove violenze e ad una sua balcanizzazione non è dunque assolutamente remota ed anzi era già prevista come esito auspicabile dai piani dell’imperialismo nordamericano e sionista. Inoltre, le stesse contrapposizioni interne alle diverse forze politiche curde non lasciano presagire un futuro roseoall’eventuale nuova entità politica che potrebbe rischiare un destino di guerra e di abbandono simile a quello del Sud Sudan; altro fallimentare prodotto dell’ingerenza occidentale negli affari interni di uno Stato sovrano.

 

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