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16 Nov 2017

 

Arabia Saudita: nella prigione dorata degli epurati di Bin Salman

di Viola Siepelunga

 

Tutto esaurito fino a Natale e forse oltre. Questo si scopre cercando di prenotare una stanza al Ritz Hotel di Riad, teatro dell’ultima ondata di purghe di lusso orchestrate dal giovane erede al trono saudita Mohammed Bin Salman, ormai conosciuto nelle cancellerie internazionali con il suo acronimo Mbs.

 

Mbs si spiana la strada per il trono
Presentandolo come un blitz anticorruzione, organizzato da un’apposita commissione la cui formazione è stata annunciata poco prima delll’operazione, l’erede al trono ha confinato in questo albergo di lusso decine di principi, ministri e funzionari ai quali sono stati anche confiscati i beni. Personaggi che più che essere corrotti – o essendolo come molti altri – sono in primis di intralcio alla sua imminente ascesa al trono, che dovrebbe avvenire già la prossima settimana. In aggiunta, tra gli arrestati ci sono persone che potrebbero essere possibili ostacoli alla realizzazione dei suoi progetti politici, in primis la Saudi Vision 2030, un piano visionario e ambizioso che, tra le altre cose, prevede di sganciare la petromonarchia dalla dipendenza del greggio. L’obiettivo di fondo di questa Vision è quello di rendere l’Arabia Saudita una potenza più al passo con i tempi, dove i divertimenti non sono più banditi e le donne iniziano ad acquisire quei diritti che fino ad ora sono stati loro negati (dal guidare la macchina ad andare allo stadio).

Non sorprende quindi trovare nella lista degli arrestati personaggi come Ibrahim al-Assaf e Adel Fakieh, uno membro del board di Aramco – società petrolifera nazionale che Mbs ha annunciato di voler fare debuttare in borsa – l’altro parte del suo Consiglio superiore. Entrambi non vedono di buon occhio la messa in quotazione della società, cosa invece benedetta anche dal presidente statunitense Donald Trump, che su Twitter ha applaudito più volte questa storica iniziativa.

 

Sbarazzarsi dei rivali interni
Visto l’intesa tra Mbs e Trump, non stupisce neanche trovare il nome di Al Waleed Bin Talal nella lista degli arrestati. Oltre a gestire una rete di affari da quasi 20 miliardi di dollari, Bin Talal è uno dei più istrionici membri della famiglia reale. Troppo liberale per il clero wahhabita che storicamente sostiene e legittima la monarchia, ma al contempo troppo schietto in politica estera. Soprattutto nel mostrare, senza peli sulla lingua, la sua opposizione al magnate statunitense, schernito e sfidato via Twitter sin da quando era in corsa per la Casa Bianca.

Altra purga che spiana la strada all’ascesa di Mbs è quella di Mutaib bin Abdallah, uomo vicino all’ex principe ereditario Bin Nayef, potente personaggio a capo del ministero degli Interni. Fino allo scorso luglio, Bin Nayef era l’erede al trono del re Salman. Quattro mesi fa, in quella che appare oggi la prova generale delle ultime purghe collettive a cinque stelle, Bin Nayef è stato costretto agli arresti domiciliari in un lussuoso palazzo di La Mecca, da dove ha annunciato di rinunciare al ruolo a lui destinato in favore di suo cugino Mbs. Eliminato Bin Nayef e assunta la carica di ministro della Difesa, Mohammed Bin Salman ha voluto mettersi al riparo anche delle smanie dell’unico altro familiare che poteva rubargli la scena, Mutaib. Secondo fonti confidenziali, anche a lui sarebbe stata offerta un’uscita simile a quella di Bin Nayef, ma quando questi si è rifiutato, Mbs avrebbe deciso di farlo rientrare nel gruppo dei corrotti purgati.

 

La sfida lanciata al clero wahhabita
Per gli Al-Saud, quelli di oggi sono semplici intrighi di potere che espongono diversi rami della famiglia a forti scontri, simili a quelli, ancora più violenti, che hanno condotto alla creazione della moderna monarchia nata nel 1932. Non è quindi la lotta di potere scatenata all’interno della famiglia l’aspetto più originale dell’ascesa del 32enne Mbs. Dell’erede al trono sorprende soprattutto la sfida lanciata al clero wahhabita, da sempre la prima fonte di legittimazione del potere degli Al-Saud, non solo internamente, ma anche esternamente, visto che anche grazie al clero i reali sauditi sono divenuti i guardiani dei due luoghi più sacri all’Islam, La Mecca e Medina.

Nel tentativo – per nulla originale nella storia del Paese – di imporre una modernizzazione autoritaria dall’alto, Mbs sta utilizzando un registro nuovo, dirompente rispetto alla tradizionale prassi wahhabita che fa perno sul consenso tra dinastia regnante e clero. In questa ottica di rottura si spiegano gli arresti di dozzine di religiosi, famosi soprattutto per le loro idee ortodosse e la loro condanna delle riforme ideate da Mbs. Arresti avvenuti proprio alla vigilia degli annunci di quelle altisonanti riforme sociali attese anche in Occidente, ovvero quelle riguardanti i nuovi diritti acquisiti dalle donne.

 

La nevralgica via della modernizzazione saudita
L’annuncio, fatto da Mbs, dell’apertura all’Islam moderato e l’auspicio a tonare a quella religione pre-1979 sono certamente segnali interpretati positivamente dagli osservatori internazionali e da quanti attendono di cogliere da Riad un segnale di apertura da sostenere. I risultati di tutti questi proclami sono però tutt’altro che scontati. E non solo perché le parole devono essere in primis tradotte in fatti, ma anche perché la via della modernizzazione è un passaggio nevralgico all’interno del regno che non raccoglie un sostegno univoco.

Oltre a essere l’anno della Rivoluzione iraniana, il ’79 è stato l’anno in cui il movimento saudita della Sahwa – su posizioni ancora più estreme a quelle dell’Islam wahhabita – ha organizzato una rivolta contro gli Al-Saud, occupando la moschea di Al-Ahram per criticare il lassismo con cui la monarchia stava trattando con le potenze straniere, permettendo a degli infedeli di calpestare il dar al-Islam (la casa dell’Islam).

Quasi 40 anni dopo, acuti analisti mediorientali temono che questo scenario possa ripetersi qualora il processo di modernizzazione dall’alto non fosse condiviso – nei contenuti e nelle modalità – dalla base e dalle diverse anime del Paese, che hanno garantito, fino ad ora, la stabilità del regime.

 

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