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14 giugno 2017

 

Ogni trentacinque secondi 

di Alessandro Ghebreigziabiher

 

Secondo Save the Children, lo Yemen è ormai in prossimità di un crollo totale e la simultanea presenza di una quasi carestia e le infrastrutture paralizzate stanno alimentando la diffusione del colera. In particolare, i dati dicono che un bambino viene infettato ogni trentacinque secondi…

 

C’era una volta una storia.

Breve, non preoccuparti.

Perché, diciamola tutta, per cosa dobbiamo davvero angustiarci?

Ci vuole poco, credimi.

Cinque minuti, sei al massimo.

Questo è il tempo che ho impiegato per scriverla.

Nulla, no?

E quando il tempo è niente, qual è il problema?

Già, sul serio, qual è?

Che poi, a leggerla ce ne vuole anche meno.

Due minuti, un minuto e mezzo a esser svelti.

Uno solo per chi è dotato di occhio rapido e cervice agevole.

Il che potrebbe anche voler dire leggera, ma senza offesa, credimi.

Niente di personale.

E per quale motivo scaldarci, poi?

Ne abbiamo veramente?

Trattasi perciò di racconto breve, per definizione, vantaggio di attimi esili, con i quali è composta gran parte della recente, comune sceneggiatura, non è così?

Il tempo di accendere il pc.

Ovvero, il portatile o il cellulare.

L’attesa del consueto apparecchiamento dello schermo.

Quindi i prevedibili, fastidiosi aggiornamenti.

Che rottura, ma roba trascurabile, giusto?

Perché lo è, concordi?

E poi il tempo dei messaggi e dei contro messaggi, che non sono le risposte, che darebbero un senso compiuto alla narrazione sociale, bensì una perenne, delirante alternanza di monologhi in miniatura tra solitudini travestite da amici.

Nondimeno, manciate di secondi, vero?

Nulla di insopportabile.

Perché di scarso peso, okay?

Quindi, ora, che fare?

Già, cosa fare del tempo che resta?

Ah, si mipiacizza a random e si faccina tutto il faccinabile, a seconda del mood.

Ma, soprattutto, si condivide a manetta tutto quel che al meglio ci renda tutti più vicini.

Al peggio, esattamente l’opposto.

E chi ne ha viste di più sa perfettamente che a esso non v’è mai fine.

Già, a proposito, vanno rispettati i patti.

Il sipario attende il favore promesso.

Perché nessuno ci guadagna davvero nel nascondere l’orrore nella pancia, neppure gli eleganti drappi che oscurano puntualmente il palcoscenico.

C’era una volta e mai più, perciò, questo tempo.

Cinque minuti, al massimo sei per riempire il foglio, minimo un paio per leggere il tutto.

Ovvero, contemporaneamente, da tre sino ad altri dieci bambini aggrediti dal suddetto male.

Per buona sorte, questa storia è finita.

Perché sono solo parole dietro un vetro, non fanno poi così male.

Non c’è d’aver paura.

E cosa c’è da temere, in fondo?

Tanto, da adesso in poi, abbiamo tutto il tempo per fare altro.

E dimenticare.

 

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