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venerdì 10 febbraio 2017

 

Appunti sulla strategia nonviolenta (Parte 1)

di Prof. Michael Nagler

Traduzione di Eleonora Ceccaldi

 

L’uomo sembra essere l’incarnazione del volere. E’ al desiderio che pensa e il desiderio, in definitiva, è quello che ottiene. Ascolta il tuo vero essere o ci saranno brama, azioni sbagliate, impotenza, tristezza e morte. Anandamayi Ma

 

E’ stato commovente vedere la passione con cui molti Americani hanno detto il loro “No!” alle politiche di odio ed intolleranza promosse da questa amministrazione estremamente infelice. Non siamo e non saremo mai una terra di odio.

 

Allo stesso tempo, la passione deve essere guidata. I sostenitori e gli studiosi della nonviolenza sono ben consapevoli delle limitazioni di quella che è definita “effervescenza della folla”. Come affermano Erica Chenoweth, George Lakey ed altri, per vincere sui continui attacchi alle fondamenta della nostra democrazia – ed alla nostra moralità di nazione – dobbiamo essere attenti nel promuovere la rinascita del movimento, secondo queste linee guida:

Passare a, o almeno aggiungere, una componente proattiva alle nostre azioni. Se la nostra azione si limita alla lettura delle atrocità, che sono così a portata di mano per le amministrazioni, finiremo facilmente per venire logorati dalla resistenza. Non dobbiamo permettergli di “tirare la corda”. Non dobbiamo limitarci a stare sulla difensiva.

Per creare un movimento proattivo e a lungo termine è essenziale creare una strategia. Molti movimenti di successo sono partiti da un improvviso scoppio di “No!”, ma sono poi andati avanti dedicandosi ai “Sì” di risposta. Come affermava Gandhi, un movimento essenzialmente negativo non durerà, sia che fallisca sia che abbia successo; e la lunga durata è la chiave per il nostro successo. Come ha detto King, dobbiamo essere preparati a sfinire l’opposizione, rispondendo alla loro brutalità con la nostra resistenza ed il nostro rifiuto per l’odio. Il Metta si impegna a facilitare il pensiero strategico secondo la via del Roadmap soltanto; abbiamo iniziato a promuovere con più intensità il nostro arco di giustizia ristorativa, dalle scuole alle prigioni alle arene internazionali. E poi, certamente:

In tutto questo dobbiamo mantenere la nostra disciplina nonviolenta. Le manifestazioni delle donne del post-insediamento in tutto il paese sono state esemplari in questo senso, e questo è molto incoraggiante. Il crescente interesse verso l’educazione non violenta è stimolante: consulate il nonviolence training hub per eventuali opportunità.

 

In aggiunta agli aspetti in cui la nonviolenza, oltre che alla dimensione, ha iniziato a crescere – la cooperazione di diverse comunità, l’espansione verso la ricerca e l’educazione, ecc. – abbiamo apprezzato i diversi segni di maggiore sofisticazione qui e là all’interno del movimento. Tra questi, il riconoscimento dei punti sopra descritti, la minore rigidità di certe ideologie, per esempio quella contraria ad ogni tipo di leadership, e sicuramente altri che si manifesteranno nei mesi a venire.

Non ci saremmo mai aspettati che si arrivasse fino a questo punto in questo paese o nel mondo; ma non lasceremo che queste circostanze ci abbattano. Come Valerie Kaur ha affermato in un passaggio estremamente appassionato qualche giorno fa, possa questo non essere “il buio della tomba, ma il buio dell’utero” – l’utero dell’amore e della giustizia.

 

Mi capita sempre più spesso, ascoltando i dibattiti e le discussioni scatenate dalla crisi attuale, di pensare che affinché questa crisi abbia un senso per noi stessi e per gli altri dovremmo partire da lontano, da qualcosa di semplice. Dobbiamo porci, ciascuno di noi, tre domande:

Chi sono come essere umano?

Di cosa ho bisogno per sentirmi realizzato?

Come diventerei, che forma avrebbe la mia realizzazione personale?

Se questo vi sembra fuori luogo – chi può concedersi il lusso di buttarsi nella filosofia quando il mondo sta andando in fiamme? – non siete i soli. Nel mondo in cui viviamo, in questa cultura post-industriale o comunque la si voglia chiamare, la sola idea di porsi domande così profonde è fuori discussione. Non viene mai in mente alla maggior parte di noi. Ma è proprio per questo che penso che dobbiamo farlo. Perchè le nostre risposte non dette a quelle domande ci guidano nell’azione e perchè non ci viene mai in mente di “ascoltare il nostro vero essere”, come ci esorta a fare la grande santa del moderno Bengala, il destino su cui cerca di metterci in guardia sembra proprio essere quello che stiamo vivendo adesso.

 

Detto questo, lasciate che io dia le mie tre risposte:

Siamo corpo, mente e spirito.

Una volta che abbiamo cibo, vestiario e alloggio, abbiamo bisogno di una rete di relazioni – una comunità – e soprattutto uno scopo più importante per cui vivere: abbiamo bisogno di un significato.

Possiamo diventare sempre più consapevoli della nostra natura spirituale e, quindi, dell’essere connessi, nella nostra essenza, con tutti gli essere viventi.

 

Queste risposte non sono una mia speciale scoperta, non c’è bisogno di dirlo: sono il riassunto della conoscenza tradizionale che Huxley chiama la “filosofia perenne”, comune ad ogni cultura (prima che alla nostra) e supportata progressivamente in ogni fase dalla scienza contemporanea. Per esempio, riguardo il secondo punto, una mole impressionante di letteratura scientifica ha stabilito da diverse prospettive l’importanza critica di un senso del significato, e la pervasiva demoralizzazione che stiamo attraversando per il fatto che, come ha recentemente affermato John Schumacher, “le assunzioni che sottostanno alla nostra obbedienza al consumismo sono fondamentalmente deumanizzanti”. Per questa ragione, continua, “la frustrazione, la rabbia e l’amarezza sono una controparte comune (io direi inevitabile)”.

 

Molto della discussione sulla crisi attuale ha portato alla luce, in modo corretto, che questa particolare Presidenza non solo non è venuta dal nulla ma non sarebbe risolta dalla messa in stato di accusa (cosa che, come mostrano i sondaggi, vorrebbe il 40% dei votanti). Ma da nessuna parte ho sentito il fatto, abbastanza ovvio in realtà, che abbiamo costruito questa cultura consumistica che ha ci deumanizzato, banalizzato e privati di potere fino al punto in l’ascesa di un narcisista con aspirazioni da dittatore è diventata inevitabile. Come cita la Chhandogya Upaishad, “colore che lasciano questo mondo senza sapere chi sono e cosa vogliono davvero non hanno libertà, nè in questo mondo nè nel prossimo.” I mass media in generale e la pubblicità in particolare sono gli strumenti culturali che stanno rendendo impossibile sapere chi siamo o cosa vogliamo.

 

Anche porre domande come quelle descritte qui è un atto essenziale, sovversivo; rispondere, in un modo o nell’altro, lungo il cammino è rivendicare una posizione all’estremità della “Grande Svolta” o del cambio di paradigma culturale che devono verificarsi per salvare la nostra democrazia e il nostro futuro.

 

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