Al Shabaka

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agosto 2017

 

Ripensare la definizione di apartheid: non solo un regime politico. 

di Haidar Eid e Andy Clarno

 

Vi proponiamo l’analisi del think tank palestinese al Shabaka sugli aspetti economici dell’apartheid in Sudafrica e in Palestina: non solo un sistema di discriminazione razziale legalizzata ma anche un sistema di capitalismo razziale, che oggi si esplica nei limiti del movimento di liberazione sudafricano in termini di diseguaglianze tra minoranza bianca e maggioranza nera, ampio gap tra ricchi e poveri e mancata redistribuzione delle terre

 

Roma, 31 agosto 2017, Nena News –

 

Con Israele impegnato a intensificare il proprio progetto di colonialismo di insediamento, l’apartheid è diventata un elemento sempre più importante per comprendere e sfidare il dominio israeliano sulla Palestina storica. Nadia Hijab e Ingrid Jaradat Gassner introducono il convincente argomento per il quale l’apartheid è oggi il principale quadro strategico di analisi. E nel marzo 2017 la Commissione Economica e Sociale per l’Asia Occidentale dell’Onu (Escwa) ha pubblicato un potente rapporto che documenta le violazioni israeliane del diritto internazionale e che conclude come Israele abbia creato un “regime di apartheid” che opprime e domina il popolo palestinese nel suo insieme.

Secondo il diritto internazionale, l’apartheid è un crimine contro l’umanità e gli Stati possono essere ritenuti responsabili delle loro azioni. Tuttavia il diritto internazionale ha dei limiti. Una specifica preoccupazione riguarda le mancanze nella definizione legale internazionale di apartheid.

Poiché la definizione si concentra unicamente sul regime politico, non fornisce basi forti per la critica degli aspetti economici dell’apartheid. Per affrontare tale limite, proponiamo una definizione alternativa che è cresciuta all’interno della lotta in Sudafrica durante gli anni ’80 e ha ottenuto il sostegno degli attivisti a causa dei limiti della decolonizzazione del paese dopo il 1994 – una definizione che riconosce l’apartheid come strettamente connessa al capitalismo.

Questo articolo elenca cosa il movimento di liberazione della Palestina può imparare dalla condizione sudafricana, ossia il riconoscimento dell’apartheid sia come sistema di discriminazione razziale legalizzata che come sistema di capitalismo razziale. Conclude con raccomandazioni sul modo in cui i palestinesi possono affrontare questo duplice sistema al fine di ottenere una pace giusta e durevole, radicata nell’uguaglianza sociale e economica.

 

Il potere e i limiti del diritto internazionale

La Convenzione Internazionale dell’Onu sulla soppressione e la punizione del crimine di apartheid definisce l’apartheid come un crimine che comporta “atti disumani commessi al fine di stabilire e mantenere il dominio di un gruppo razziale su ogni altro gruppo razziale e la loro sistematica oppressione”.

Lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale definisce l’apartheid un crimine che comporta “un regime istituzionalizzato di oppressione sistematica e di dominio di un gruppo razziale su qualsiasi altro gruppo razziale”.

Basandosi sulla lettura attenta di questi statuti, il rapporto di Escwa analizza la politica israeliana in quattro domini. Documenta la discriminazione legale formale contro i palestinesi cittadini di Israele; il duplice sistema legale nei Territori Palestinesi Occupati; gli inconsistenti diritti di residenza dei palestinesi gerusalemiti; e il rifiuto israeliano a permettere ai rifugiati palestinesi di esercitare il diritto al ritorno. Il rapporto conclude che il regime di apartheid di Israele opera attraverso la frammentazione del popolo palestinese e la sua sottomissione a diverse forme di dominio razziale.

Il potere dell’analisi sull’apartheid è stato mostrato dal modo in cui Israele e Stati Uniti hanno reagito al rapporto. L’ambasciatore Usa all’Onu lo ha condannato e ha chiesto al segretario generale di ripudiarlo. Il segretario generale ha fatto pressioni su Rima Khalaf, capo di Escwa, perché ritirasse il rapporto. Rifiutando di farlo, ha presentato le dimissioni.

L’importanza del rapporto Escwa non può essere esagerato. Per la prima volta, un corpo dell’Onu ha formalmente affrontato la questione dell’apartheid in Palestina/Israele. E il rapporto ha affrontato le politiche israeliane verso il popolo palestinese come un unicum invece che focalizzarsi su un frammento della popolazione. Chiedendo agli Stati membri e alle organizzazioni della società civile di fare pressioni su Israele, il rapporto Onu ha anche dimostrato l’utilità del diritto internazionale come strumento per responsabilizzare i regimi come Israele.

Tuttavia, pur riconoscendo l’importanza del diritto internazionale, è necessario notarne i limiti. Primo, le leggi internazionali sono effettive solo quando riconosciute e applicate dagli Stati e la struttura gerarchica del sistema degli Stati fornisce alcuni di loro del potere di vero. La soppressione rapida del rapporto Escwa ha reso questi limiti chiari. Secondo, c’è una più specifica preoccupazione riguardante la definizione internazionale di apartheid, come notato prima. Focalizzandosi solo sul regime politico, la definizione legale non fornisce basi forti per la critica degli aspetti economici dell’apartheid e dunque apre la strada ad un futuro di post-apartheid in cui dilaga la discriminazione economica.

 

Il capitalismo razziale: i limiti della liberazione sudafricana

Durante gli anni ’70 e ’80, i neri sudafricani furono impegnati in urgenti dibattiti su come intendere il regime di apartheid che stavano combattendo. Il blocco più potente all’interno del movimento di liberazione – l’African National Congress (Anc) e i suoi alleati – ritenevano che l’apartheid fosse un sistema di dominio razziale e che la lotta dovesse incentrarsi sull’eliminazione delle politiche razziste e la richiesta di uguaglianza di fronte alla legge.

I neri radicali rigettavano questa analisi. Il dialogo tra il Black Consciousness Movement e i marxisti indipendenti diedero vita ad una definizione alternativa di apartheid, intesa come sistema di “capitalismo razziale”. I radicali insistevano: la lotta avrebbe dovuto confrontare simultaneamente lo Stato e il sistema capitalista razziale. Se razzismo e capitalismo non fossero stati affrontati insieme, dicevano, il Sudafrica del post-apartheid sarebbe rimasto diviso e ineguale.

La transizione degli ultimi 20 anni ha dato sostegno a questa tesi. Nel 1994 l’apartheid legale è stata abolita e i neri sudafricani hanno ottenuto uguaglianza di fronte alle legge– diritto di voto, diritto a vivere ovunque, diritto di movimento senza permessi. La democratizzazione dello Stato è stato un risultato importante. La transizione sudafricana dimostra la possibilità di una coesistenza pacifica sulle basi dell’uguaglianza legale e del riconoscimento reciproco. Questo rende il Sudafrica così interessante per i palestinesi e per i pochi israeliani che cercano una vita alternativa alla frammentazione e al fallimento di Oslo.

Nonostante la democratizzazione dello Stato, la transizione sudafricana non ha affrontato le strutture del capitalismo razziale. Durante i negoziati, l’Anc ha fatto importanti concessioni per ottenere il sostegno dei bianchi sudafricani e l’élite capitalista. E, più importante, l’Anc ha accettato di non nazionalizzare la terra, le banche e le miniere e ha accettato invece la protezione costituzionale dell’esistente distribuzione della proprietà privata – nonostante la storia di espropriazione coloniale.

Inoltre, il governo dell’Anc ha adottato una strategia economica neoliberale promuovendo il libero mercato, l’industria orientata all’export e la privatizzazione del business di Stato e dei servizi comunali. Come risultato, il Sudafrica post-apartheid rimane uno dei paesi più diseguali al mondo.

La ristrutturazione neoliberale ha condotto all’emersione di una piccola élite nera e una crescente classe media nera in alcune parti del paese. La vecchia élite bianca controlla ancora la stragrande maggioranza della terra e della ricchezza in Sudafrica. La deindustrializzazione e la crescente porzione di popolazione costretta a lavori casuali hanno indebolito il movimento dei lavoratori, intensificato lo sfruttamento della classe operaia nera e prodotto un crescente surplus razziale di popolazione che vive in una disoccupazione permanente e strutturale.

Il tasso di disoccupazione raggiunge il 35%, includendo chi si è arreso e non cerca più lavoro. In alcune aree, il tasso supera il 60% e i posti di lavoro rimasti disponibili sono precari, a termine e con salari bassi.

I poveri neri si trovano di fronte anche alla mancanza seria di terra e di case. Invece di redistribuire la terra, il governo dell’Anc ha adottato un programma basato sul mercato, attraverso cui lo Stato aiuta i clienti neri ad acquistare terra di proprietà dei bianchi. Questo ha portato alla crescita di una piccola classe di proprietari neri ricchi, ma solo il 7,5% delle terre sudafricane è stato redistribuito.

Di conseguenza, la maggior parte dei sudafricani neri rimane senza terre e le élite bianche mantengono la proprietà di buona parte della terra. Allo stesso modo, il costo crescente delle case ha moltiplicato il numero di persone che vive in baracche, edifici occupati e insediamenti informali, nonostante i sussidi statali e le garanzie costituzionali ad un’abitazione dignitosa.

La razza continua a definire l’accesso diseguale a casa, educazione e lavoro nel Sudafrica post-apartheid. Dà anche forma alla rapida crescita di sicurezza privata.Approfittando dalle paure razziali sul crimine, la sicurezza privata è stata l’industria con lo sviluppo più veloce in Sudafrica dopo gli anni ’90. Le compagnie di sicurezza privata e le associazione dei residenti benestanti hanno trasformato i sobborghi storicamente bianchi in comunità fortificate, segnate da muri lungo le proprietà private, cancelli intorno ai quartieri, sistemi di allarmi, pulsanti anti-panico, guardie, ronde di quartiere, video sorveglianza e team armati per la risposta rapida. Questi regimi privatizzati della sicurezza residenziale si fondano sulla violenza e tracciano un profilo razziale per prendere di mira neri e poveri.

Secondo il diritto internazionale, l’apartheid termina con la trasformazione dello Stato razziale e l’eliminazione della discriminazione razziale legalizzata. Eppure anche un esame superficiale del Sudafrica dopo il 1994 rivela le insidie di tale approccio e sottolinea l’importanza di un ripensamento della nostra definizione di apartheid. L’uguaglianza legale formale non ha prodotto una reale trasformazione sociale e economica. Al contrario, la neoliberalizzazione del capitalismo razziale ha consolidato la diseguaglianza creata da secoli di colonizzazione e apartheid.

La razza rimane una forza che guida sia lo sfruttamento che l’abbandono nonostante la patina liberale dell’uguaglianza legale. Le celebrazioni del governo Anc tendono a oscurare gli impatti del capitalismo neoliberista razziale in Sudafrica dopo il 1994.

Le critiche all’apartheid israeliana hanno ampiamente ignorato i limiti delle trasformazioni in Sudafrica. Invece di trattare l’apartheid come sistema di capitalismo razziale, la maggior parte dei critici dell’apartheid israeliana fanno riferimento alla definizione internazionale di apartheid come sistema di dominio razziale. Per esserne sicuri, questi critici sono stati molto produttivi. Hanno perfezionato l’analisi del dominio israeliano, contribuito all’espansione delle campagne del Bds (Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni) e fornito le basi legali degli sforzi per rendere Israele perseguibile. L’importanza del diritto internazionale come risorsa per le comunità in lotta non dovrebbe essere svenduto.

Ma l’analisi e l’organizzazione può essere spinta oltre intendendo l’apartheid come sistema di capitalismo razziale, invece che basarsi così pesantemente sulle definizioni legali internazionali. Attraverso la valorizzazione diversa delle vite e il lavoro della gente, i regimi di capitalismo razziale intensificano lo sfruttamento e espongono i gruppi marginalizzati a morte prematura, abbandono o eliminazione.

Il concetto di capitalismo razziale, inoltre, sottolinea la reciproca costituzione di accumulazione capitalista e formazione razziale e prevede che non si possa eliminare né il dominio razziale né la diseguaglianza di classe senza attaccare il sistema nel suo insieme.

Intendere l’apartheid come un sistema di capitalismo razziale ci permette di comprendere seriamente i limiti della liberazione del Sudafrica. Studiare il successo della lotta sudafricana è stato altamente produttivo per il movimento di liberazione palestinese; comprenderne i limiti può essere altrettanto produttivo. Sebbene i sudafricani neri hanno ottenuto uguaglianza legale formale, il fallimento nell’affrontare l’economia dell’apartheid pone limiti seri alla decolonizzazione.

In una parola, l’apartheid non è finita, è stata ristrutturata. Fare riferimento esclusivamente alla definizione legale internazionale di apartheid potrebbe condurre a problemi simili in Palestina. Solleviamo la questione come nota di prudenza, con la speranza che possa contribuire allo sviluppo di strategie per affrontare il razzismo israeliano e il capitalismo neoliberista insieme.

 

Capitalismo razziale in Palestina/Israele

Guardare all’apartheid attraverso queste lenti permette di capire che il colonialismo di insediamento israeliano opera oggi tramite il capitalismo razziale neoliberista. Negli ultimi 25 anni Israele ha intensificato il suo progetto coloniale di insediamento sotto le spoglie della pace. Tutta la Palestina storica resta soggetta al dominio di Israele che opera frammentando il popolo palestinese.

Oslo ha reso Israele in grado di frammentare ulteriormente i Territori Occupati e di integrare il dominio militare diretto con aspetti di dominio indiretto. La Striscia di Gaza è stata trasformata in un “campo di concentramento” e in un modello di “riserva per nativi” attraverso un assedio mortale e medievale descritto da Richard Falk come “preludio al genocidio” e da Ilan Pappe come un “genocidio incrementale”.

In Cisgiordania la strategia neocoloniale israeliane prevede la concentrazione della popolazione palestinese nelle aree A e B e la colonizzazione dell’Area C. Invece di garantire ai palestinesi libertà e uguaglianza, Oslo ha ristrutturato le relazioni di dominio. In breve, Oslo ha intensificato, invece che rovesciare, il progetto di colonialismo di insediamento di Israele.

La riorganizzazione del dominio israeliano si è realizzata accanto alla ristrutturazione neoliberista dell’economia. Fin dagli anni ’80, Israele ha attraversato una trasformazione fondamentale da un’economia guidata dallo Stato e focalizzata sul consumo interno ad un’economia guidata dalle corporazioni e integrata nei circuiti del capitale globale. La ristrutturazione neoliberista ha generato immensi profitti privati mentre si smantellava il welfare, si indeboliva il movimento dei lavoratori e si aumentavano le diseguaglianze.

I negoziati di Oslo sono stati centrali rispetto a tale progetto. Shimon Peres e l’élite affaristica israeliana affermavano che il “processo di pace” avrebbe aperto i mercati del mondo arabo agli Stati Uniti e al capitale israeliano e facilitato l’integrazione di Israele nell’economia globale. Dopo Oslo, Israele ha subito firmati accordi di libero scambio con Egitto e Giordania.

La ristrutturazione neoliberista ha permesso a Israele di portare avanti la propria strategia coloniale riducendo significativamente la necessità di forza lavoro palestinese.La transizione di Israele verso un’economia high-tech ha diminuito la richiesta di lavoratori per l’industria e l’agricoltura. Gli accordi di libero scambio hanno garantito alle imprese di manifattura israeliane di spostare la produzione dai subappaltatori palestinesi a zone di produzione di export nei paesi vicini.

Il collasso dell’Unione Sovietica seguito alla dottrina neoliberista ha spinto oltre un milione di russi ebrei a cercare occasioni in Israele. E la ristrutturazione neoliberista su scala globale ha fatto arrivare 300mila lavoratori migranti da Asia e Europa dell’Est. Questi gruppi competono oggi con i palestinesi per quel che resta di posti di lavoro a basso reddito. Lo Stato coloniale di insediamento ha dunque usato il neoliberismo per rendere i palestinesi lavoratori usa e getta.

La vita della classe operaia palestinese è diventata via via più precaria. Con accesso limitato al mercato del lavoro in Israele, la povertà e la disoccupazione sono moltiplicate all’interno delle enclavi palestinesi. Sebbene l’Autorità Palestinese (Anp) abbia sempre sostenuto una visione neoliberista dell’economia guidata dal settore privato, rivolta all’export e al libero mercato, ha inizialmente risposto alla crisi di occupazione creando migliaia di posti di lavoro pubblici.

Dal 2007, tuttavia, l’Anp ha seguito un duro programma economico neoliberista che punta al taglio dei posti di lavoro nel pubblico e all’espansione del settore di investimento privato. Nonostante questi piani, il settore privato è rimasto debole e frammentato. I piani per zone industriali lungo il muro illegale di Israele, che penetra dentro i Territori Occupati, è ampiamente fallito a causa delle restrizioni israeliane all’import e l’export e ai costi relativamente alti del costo del lavoro palestinese se comparato all’Egitto e alla Giordania.

Se queste politiche neoliberiste hanno ulteriormente peggiorato le condizioni di vita della classe bassa palestinese, hanno contribuito alla crescita di una piccola élite nei Territori Occupati composta dalla leadership dell’Anp, da capitalisti palestinesi e da funzionari delle ong. Chi visita Ramallah è spesso sorpreso dal vedere ville, palazzi, ristoranti di lusso, hotel cinque stelle e veicoli di lusso. Non sono i segni di un’economia prospera ma della crescente divisione di classe.

Allo stesso modo una nuova borghesia affiliata a Hamas è emersa a Gaza dal 2006. Il suo benessere dipende dalla calante “industria dei tunnel”, il monopolio dei materiali di costruzione contrabbandati dall’Egitto e dei pochi beni importati da Israele. Sia l’élite di Hamas che quella di Fatah accumulano la loro ricchezza da attività non produttive e sono entrambe caratterizzate dall’assenza di una visione politica. Haidar Eid si riferisce a questo fenomeno come “osloizzazione” della Cisgiordania e islamizzazione di Gaza.

Inoltre, unirsi alle forze di oppressione è divenuto una delle principali opportunità di lavoro a disposizione della maggioranza dei palestinesi, specialmente i più giovani. Sebbene alcuni lavori nell’Anp siano nel sistema educativo e in quello sanitario, la maggior parte si trovano nelle forze di sicurezza dell’Anp. Come dimostrato da Alaa Tartir, queste forze sono designate alla protezione della sicurezza di Israele. Dal 2007 sono state riorganizzate sotto la supervisione degli Stati Uniti. Con oltre 80mila uomini, le nuove forze di sicurezza dell’Anp sono addestrate dagli Stati Uniti in Giordania e dispiegate nelle enclavi in Cisgiordania in stretta collaborazione con l’esercito israeliano. Israele e l’Anp condividono l’intelligence, coordinano gli arresti e cooperano per la confisca di armi.

Insieme, prendono di mira non solo islamisti e gruppi di sinistra ma anche i palestinesi critici di Oslo. Recentemente, il coordinamento alla sicurezza tra Israele e l’Anp ha preceduto l’assassinio dell’attivista Basil al-Araj.

L’unico settore dell’economia israeliana che ha relativamente mantenuto una domanda fissa di lavoratori palestinesi è quello delle costruzioni, a causa per lo più dell’espansione delle colonie israeliane e del muro in Cisgiordania. Secondo un sondaggio del 2011 di Democracy and Workers’ Rights, l’82% dei palestinesi impiegati nelle colonie avrebbe lasciato il proprio lavoro se avesse trovato un’alternativa sostenibile.

Ciò significa che due dei soli lavori disponibili per i palestinesi della Cisgiordania oggi sono la costruzione di colonie su terre palestinesi confiscate o l’impiego nelle forze di sicurezza dell’Anp che aiutano Israele a reprimere la resistenza palestinese all’apartheid.

I palestinesi di Gaza non hanno neppure queste “opportunità”. Infatti Gaza è una delle più estreme versioni di lavoro usa e getta strutturale. Lo sfollamento del colonialismo d’insediamento ha trasformato Gaza in un campo profughi dal 1948, quando le milizie sioniste prima e l’esercito israeliano dopo hanno espulso oltre 750mila palestinesi dalle loro città e dai loro villaggi. Il 70% dei due milioni di residenti di Gaza sono rifugiati, un promemoria vivente della Nakba e del diritto al ritorno.

La ristrutturazione politica e economica di Oslo ha permesso a Israele di trasformare Gaza in una prigione dove concentrare e contenere il surplus di popolazione non voluta. E l’assedio israeliano, che si intensifica, dimostra la completa disumanizzazione dei gazawi. Per il progetto coloniale israeliano, le vite palestinesi non hanno valore e la loro morte non è di interesse.

Inoltre e soprattutto, il neoliberismo insieme al progetto di colonialismo di insediamento ha tramutato i palestinesi in popolazione usa e getta. Ciò ha reso possibile a Israele di portare avanti il progetto di concentrazione e colonizzazione. La comprensione delle dinamiche neoliberiste del regime coloniale israeliano può contribuire allo sviluppo di strategie per sfidare l’apartheid non solo come sistema di dominio razziale ma come regime di capitalismo razziale.

 

Affrontare l’economia dell’apartheid israeliana

Una questione importante per il movimento di liberazione palestinese è come evitare le insidie del post-apartheid sudafricano nello sviluppo di una visione di post-apartheid in Palestina/Israele. Come predetto dai neri radicali, un focus esclusivo sullo Stato razziale ha condotto a seri problemi socio-economici in Sudafrica dopo il 1994. La liberazione palestinese non deve terminare con la stessa “soluzione” offerta dallAnc.

Ciò richiede attenzione non solo ai diritti politici ma anche alla questione difficile della redistribuzione della terra e delle strutture economiche per assicurare un risultato più egualitario. Un modo cruciale da cui iniziare è continuare il dibattito sulle dinamiche pratiche del ritorno palestinese.

È inoltre importante riconoscere che l’attuale situazione in Palestina è strettamente connessa ai processi di riformulazione delle relazioni sociali in tutto il mondo. Sudafrica e Palestina, ad esempio, vivono cambiamenti sociali e economici simili nonostante le traiettorie politiche radicalmente differenti. In entrambi i contesti, il capitalismo razziale neoliberista ha prodotto diseguaglianza estrema, marginalizzazione razziale e strategie avanzate di protezione dei potenti e sorveglianza dei poveri. Andy Clarno si riferisce a tale combinazione come apartheid neoliberista.

Nel mondo, benessere e entrate economiche sono sempre di più controllate da una manciata di capitalisti miliardari. Mentre la terra collassa sotto i piedi delle classi medie, il gap tra ricchi e poveri si allarga e le vite dei più poveri diventano ogni giorno più precarie. La ristrutturazione neoliberista ha permesso ad alcuni membri delle popolazioni storicamente oppresse di entrare a far parte dell’élite. Questo spiega l’emergere di un’élite palestinese nei Territori Occupati e di un’élite nera in Sudafrica.

Allo stesso tempo la ristrutturazione neoliberista ha radicato la marginalizzazione dei poveri intensificando sfruttamento e abbandono. I lavori diventano sempre più precari e intere regioni vivono un declino nella domanda di lavoro. Mentre alcune popolazione soffrono per un super sfruttamento nelle fabbriche o nelle industrie dei servizi, altre – come quella palestinese – è abbandonata ad una vita di disoccupazione e informalità.

I regimi di apartheid neoliberista come Israele dipendono da strategie avanzate di securizzazione per mantenere il potere. Israele esercita sovranità sui Territori Occupati attraverso il dispiegamento militare, la sorveglianza elettronica, l’imprigionamento, gli interrogatori e le torture. Lo Stato ha anche prodotto una geografia frammentata di enclavi palestinesi isolate circondate da muri e checkpoint e gestita attraverso chiusure e permessi.

E le compagnie israeliane hanno preso le redini del mercato globale di equipaggiamento avanzato per la sicurezza, sviluppando e testando attrezzature high-tech sui Territori Occupati. La più importante aggiunta al regime israeliana, tuttavia, è la rete di forze di sicurezza agevolata da Stati Uniti e Unione Europea, sostenuta da Giordania e Egitto e operativa attraverso lo sviluppo coordinato di esercito israeliano e forze dell’Anp.

Come Israele, altri regimi di apartheid neoliberista fanno affidamento su enclavi chiuse, forze di sicurezza pubbliche e private e strategie di sorveglianza razziale. In Sudafrica la securizzazione ha portato alla fortificazione dei quartieri benestanti, la rapida espansione dell’industria privata della sicurezza e l’intensa repressione di Stato dei sindacati indipendenti e dei movimenti sociali.

Negli Stati Uniti gli sforzi di produrre sicurezza per i potenti include comunità chiuse, muri di confine, incarcerazioni di massa, deportazioni di massa, sorveglianza elettronica, guerra dei droni e la rapida crescita delle forze di polizia, esercito, intelligence e di confine.

A differenza del Sudafrica, Israele resta un aggressivo Stato di colonialismo d’insediamento. In tale contesto, il neoliberismo è parte della strategia di eliminazione della popolazione palestinese. Ma la combinazione di dominio razziale e capitalismo neoliberista ha prodotto crescente diseguaglianza, marginalizzazione razziale e securizzazione avanzata in molte parti del mondo.

Mentre movimenti e attivisti costruiscono connessioni tra le lotte contro la povertà razziale e la sorveglianza in Palestina, Sudafrica, Stati Uniti e oltre, intendere l’apartheid israeliana come forma di capitalismo razziale può contribuire all’espansione dei movimenti contro l’apartheid neoliberista globale.

Può anche aiutare a spostare il discorso politico in Palestina dall’indipendenza alla decolonizzazione. Nel suo lavoro “I dannati della terra”, Frantz Fanon afferma che una delle insidie della coscienza nazionale è un movimento di liberazione che termina con uno Stato indipendente governato da un’élite nazionale che imita il potere coloniale.

Per evitarlo, Fanon incoraggia a spostarsi da una coscienza nazionale a una politica e sociale. Spostarsi dall’indipendenza politica alla trasformazione sociale e la decolonizzazione è la sfida che oggi affronta il Sudafrica del post-apartheid. Evitare questa trappola è la sfida di fronte alle forze politiche palestinese nella lotta di liberazione oggi.

 

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