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15 gennaio 2017

 

La conferenza di Parigi invita alla pace. Ma Netanyahu, assente, aspetta Trump

di Enrico Oliari

 

Non si sa dove possa portare la Conferenza di pace per la questione palestinese tenutasi a Parigi e voluta dal presidente francese Francois Hollande: le assenze erano assai più significative delle presenze, con palestinesi e Israele che hanno dato forfait, seppure per diversi motivi.

E’ stato il premier israeliano Benjamin Netanyahu a non voler mandare una rappresentanza del proprio paese, ancora furioso per la risoluzione del Consiglio delle Nazioni Unite di Natale che ha condannato la costruzione di colonie ed edifici ad opera di Israele nei territori palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme est.

Per Netanyahu quella di Parigi è stata una “conferenza inutile, perché allontana la pace perché irrigidisce le posizioni dei palestinesi e li allontana da negoziati diretti senza precondizioni”. “Essa – ha insistito – riflette gli ultimi battiti del mondo di ieri. Il domani avrà un altro aspetto, e il domani è molto vicino”, con evidente allusione all’ormai prossima salita alla Casa Bianca di Donald Trump, che negli Usa ha vinto anche grazie alle lobby ebraiche.

I palestinesi non erano presenti ma per motivi di strategia diplomatica, ovvero per lasciare mani libere ai negoziatori francesi, ma hanno espresso soddisfazione per il risultato dell’incontro, certamente a loro favore.

Le oltre 70 rappresentanze presenti, comprese quelle del Consiglio di sicurezza dell’Onu (per gli Usa John Kerry) e della Lega Araba, hanno sottoscritto un appello rivolto ad entrambe le parti perché ricostruiscano il comune impegno volto a raggiungere un accordo di pace, evitando per azioni unilaterali.

Da parte dei palestinesi non c’è da tempo la disponibilità a trattare in via diretta con Tel Aviv, poiché, come ha fatto notare ieri il consigliere diplomatico di Abu Mazen, Majdi Khaldi, “Il canale bilaterale è fallito, ci hanno provato gli Usa, ma c’è un occupante che non vuole parlare e vuole solo dettare le sue condizioni, bisogna coinvolgere più Paesi”.

Non si è entrati tuttavia troppo nei dettagli, anche se è chiaro che per “azioni unilaterali” si sia intesa la continua costruzione di unità abitative da parte di Israele nei territori dei palestinesi.

L’assemblea ha quindi espresso la speranza, rivolta subliminalmente a Trump e a Israele, che si continui a lavorare per la soluzione dei Due popoli, due Stati.

Dopo la scelta di Trump di nominare come ambasciatore in Israele il falco David Friedman, continuano a circolare voci sul fatto che la rappresentanza diplomatica Usa possa essere trasferita da Tel Aviv a Gerusalemme, de facto riconoscendo la città come capitale, per quanto in dicembre Walid Phares, consigliere per il Medio Oriente del nuovo presidente, abbia spiegato sui media israeliani che “si tratta di un tema assai complesso, che richiede un lungo processo”.

Il ministro degli Esteri francese Jean-Marc Ayrault ha tuttavia voluto mettere, in occasione della conferenza di Parigi, le mani avanti, affermando che l’iniziativa comporterebbe “conseguenze estremamente gravi”, e che presto Trump si renderà conto dell’”impossibilità” della cosa.

Il presidente palestinese Abu Mazen è invece riuscito ieri ad incassare un buon risultato in Vaticano, dove ha incontrato papa Francesco: a Borgo Pio ha infatti inaugurato la nuova ambasciata palestinese, un’ambasciata vera e propria e non più una delegazione presso la Santa Sede, cosa che indica il pieno riconoscimento diplomatico allo Stato palestinese.

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