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06 dic 2017

 

Cosa c’è da sapere su Gerusalemme

Una serie di articoli e analisi pubblicati in questi anni da Nena News per aiutare a comprendere le ragioni intorno i tentativi di Israele di prendere possesso dell’intera Città Santa e a conoscere le politiche di de-palestinizzazione in corso da decenni

 

 

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06 dic 2017

 

Quale Gerusalemme? I piani sconosciuti di Israele

In giorni di tensione e transformazione intorno allo status della Città Santa, vi riproponiamo l’analisi di Nur Arafeh sui progetti israeliani per Gerusalemme. Già in atto: una meta turistica high-tech a maggioranza ebraica con una presenza minima di palestinesi

 

 

 

Il Manifesto

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07 dic 2017

 

Dalla passeggiata di Ariel Sharon, a quella di Donald Trump

di Michele Giorgio

 

Il presidente Usa ha mantenuto la promessa fatta a Israele. Gli risponde Abu Mazen «Usa non più mediatori, Gerusalemme sarà la capitale eterna della Palestina». Ondata di condanne e proteste da ogni angolo del mondo per un passo che rischia di far sprofondare il Medio Oriente oltre a negare i diritti dei palestinesi

 

Gerusalemme, 7 dicembre 2017, Nena News – 

 

Diciassette anni dopo un’altra “passeggiata”, quella di Donald Trump sul diritto internazionale e sulla risoluzione 181 dell’Onu, ha deciso il destino di Gerusalemme.

 

Il riconoscimento esplicito che Trump ha fatto di Gerusalemme capitale di Israele incide sulla pietra il futuro della città, offerta su di un piatto d’argento a Israele. Per la Casa Bianca la sovranità sulla città delle tre fedi monoteistiche, dalla storia millenaria, che tante suggestioni e passioni genera in milioni di persone in tutto il mondo, appartiene solo a Israele. È in malafede chi descrive il passo di Trump come “simbolico”. Al contrario è sostanziale e inserito nel nuovo scacchiere regionale che l’Amministrazione Usa intende costruire con i suoi principali alleati, Israele e Arabia saudita, e sul quale i palestinesi sono una pedina insignificante.

 

Trump ha provato a spiegare la sua decisione come la constatazione di una realtà consolidata, come un passo che gli Usa avrebbero dovuto muovere da lungo tempo. «Riconosciamo l’ovvio: che Gerusalemme è la capitale di Israele. Non è altro che un riconoscimento della realtà», ha detto aggiungendo che gli Usa restano «impegnati per facilitare un accordo di pace accettabile da entrambe le parti». E si è vagamente espresso a favore di «una soluzione a Due Stati» se, ha subito precisato, «concordata dalle parti». I suoi predecessori, ha aggiunto, hanno ripetutamente congelato il trasferimento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, deciso dal Congresso, con l’idea che ciò avrebbe favorito il processo di pace tra israeliani e palestinesi. Secondo Trump questa politica è stata fallimentare ed è venuto il momento di cambiare approccio.

Ha perciò annunciato l’avvio dei lavori per la costruzione della nuova ambasciata Usa a Gerusalemme, che secondo il presidente sarà «un magnifico tributo alla pace». Ha espresso sostegno al mantenimento dello status quo dei luoghi santi di Gerusalemme, e, infine, dopo aver appiccato il fuoco della rabbia di palestinesi, ha lanciato un appello alla moderazione. «La pace non è mai al di fuori della portata di chi vuole raggiungerla, quindi oggi chiediamo calma, moderazione e tolleranza affinchè ciò prevalga su chi semina odio. Dio benedica gli israeliani, Dio benedica i palestinesi».

 

Recitare il ruolo del moderato e pacifista è stato facile per il primo ministro israeliano Netanyahu sazio di una vittoria decisiva. «È un giorno storico» ha commentato intervenendo in tv subito l’annuncio fatto dal presidente Usa. «La decisione di Trump – ha aggiunto Netanyahu – è un passo importante verso la pace, perché non ci può essere alcuna pace che non includa Gerusalemme come capitale di Israele». E in linea con le parole dell’alleato americano ha assicurato che «non ci sarà alcun cambiamento nello status quo dei luoghi santi. Israele garantirà sempre libertà di culto a ebrei, cristiani e musulmani».

 

Frasi con ogni probabilità non indirizzate ai palestinesi ma ai nuovi alleati arabi, alle monarchie sunnite. Gerusalemme ormai è nostra, ha fatto capire Netanyahu, accettatelo e noi non vi imbarazzeremo davanti alle vostre popolazioni. Anzi collaboreremo ancora più convinti contro il nemico comune, l’Iran. Poi è stata solo festa, simboleggiata dalle bandiere di Israele e Stati Uniti proiettate sulle mura antiche della città vecchia di Gerusalemme, occupata da Israele nel 1967. In quello stesso momento migliaia di palestinesi, soprattutto a Gaza, manifestavano contro gli Stati uniti e Israele.

 

Oggi è prevista un’altra giornata “della rabbia” e di scioperi di protesta ma le ore più calde delle proteste si vivranno con ogni probabilità domani, dopo le preghiere islamiche del venerdì.

 

In tarda serata è intervenuto il presidente palestinese Abu Mazen, apparso esausto davanti alle telecamere. «La decisione di Trump in contrasto con le risoluzioni internazionali equivale a una rinuncia da parte degli Stati uniti del ruolo di mediatori di pace» ha affermato accusando la Casa Bianca di aver fatto un «regalo» a Israele che ora, ha previsto, si sentirà incoraggiato a proseguire l’espansione delle colonie ebraiche nei Territori palestinesi occupati.Poi ha proclamato perentorio che «Gerusalemme rimarrà la capitale eterna dello Stato di Palestina».

 

Simili le dichiarazioni dei maggiori esponenti dell’Olp. Non sono molte le carte a disposizione di Abu Mazen. Sente però di dover insistere sull’unità dei palestinesi. «L’unità – ha detto prima del discorso di Trump – è la vera risposta a tutti i tentativi volti a violare i nostri diritti». Ma il suo tempo forse è scaduto. Nello stesso Fatah, il suo partito, cresce il dissenso verso la linea della moderazione. I prossimi mesi saranno decisivi.

Dichiarazioni di condanna o di critica dell’annuncio di Trump su Gerusalemme sono giunte da ogni parte del mondo, dall’Unione europea alla Russia, dalla Giordania alla Turchia, fino al Vaticano. «Tutte queste proteste sono come gli avvertimenti per la salute dei fumatori sui pacchetti di sigarette che intanto si continuano a fabbricare», ha commentato con amarezza il poeta palestinese Ibrahim Nasrallah. 

Fonti: MEMO, PIC, Quds Press, Ma’an, agenzie

Infopal - 7/12/2017 –

 

Uno studio statistico pubblicato dal movimento Hamas mette in evidenza che, a novembre, le forze di occupazione israeliane hanno commesso 2.321 aggressioni in Cisgiordania e a Gerusalemme. Tra le violazioni commesse dagli Israeliani figura l’assassinio di un Palestinese da parte di coloni, 28 feriti e 475 arrestati, di cui 114 nella Gerusalemme occupata. Gerusalemme, Betlemme e Hebron sono le città più esposte agli attacchi israeliani. Sono state testimoni rispettivamente di 372, 335 e 291 violazioni israeliane. Gli attacchi comprendono anche 830 incursioni, 188 divieti di viaggio, 24 confische di beni, la demolizione di 18 case, di cui soltanto la metà a Gerusalemme. Questo numero comprende pure 22 assalti nella moschea al-Aqsa da parte di 1.982 coloni, e due abitanti di Gerusalemme banditi dal luogo sacro.

 

Giovedì 7 dicembre è contrassegnato da manifestazioni in tutta la Palestina e in altre aree del Medio Oriente contro la decisione del presidente USA Donald Trump di dichiarare Gerusalemme capitale di Israele.

 

I Marine USA hanno rinforzato la loro presenza alle ambasciate statunitensi in Medio Oriente, dove sono stati dislocati come misura di “precauzione” in caso di violenze contro la dichiarazione di Trump su Gerusalemme.

 

Ramallah

Scontri in corso al check-point di Ramallah tra giovani palestinesi e forze di occupazione israeliane. I manifestanti lanciano pietre in risposta ai lacrimogeni dei soldati di occupazione.

Tulkarem

14 asfissiati da lacrimogeni a Tulkarem, durante proteste, secondo quanto ha riferito la Mezzaluna Rossa palestinese.

Centinaia di manifestanti hanno riempito le strade intonando slogan anti-USA.

Hebron

Proteste sono in corso a Hebron, dove foto di Trump vengono bruciate o imbrattate.

Betlemme

Proteste a Betlemme. Le forze israeliane lanciano lacrimogeni.

Nablus

Manifestanti si sono radunati a Nablus  e hanno bruciato bandiere USA e ritratti del presidente  Trump.

Giordania

Folle massicce continuano a protestare fuori dall’ambasciata USA a Amman, in Giordania.

 

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