New York Times

La Repubblica

22 2 2017

 

L'Intifada combattuta a colpi di non violenza

di Michael Chabon e Ayelet Waldman  

traduzione di Anna Bissanti

 

Da mesi Issa Amro, nato nella città di Hebron e illustre sostenitore palestinese della resistenza non violenta, aspetta di sapere quando sarà processato e giudicato da un tribunale militare israeliano. È stato accusato di una serie di reati che vanno dalla partecipazione a manifestazioni non organizzate all’“offesa a un soldato”. Le due accuse più gravi a suo carico parlano di aggressione a una coppia di militari e al coordinatore per la sicurezza di un insediamento. In entrambi i casi, risalenti il primo al 2010 e il secondo al 2013, l’esercito afferma che Amro ha preso a spintoni i suoi antagonisti. Amro respinge le accuse e fa notare che in entrambi i casi è stato lui a subire conseguenze fisiche. Le forme di crudeltà insensata sono del tutto comuni nella vita nei territori occupati, ma da nessuna parte sono più frequenti che a Hebron.

 

Nel centro di questa città di circa 200mi    la abitanti palestinesi, un gruppo di ottoceento coloni israeliani occupa posizioni molto fortificate e sorvegliate in permanenza da 650 soldati israeliani. Per gestire questa situazione, per sua stessa natura potenzialmente incendiaria, l’esercito israeliano ha trasformato alcune aree del centro in “zone asettiche”, che i palestinesi non sono pi autorizzati ad attraversare in auto.

 

Amro ha 36 anni e per tredici si è impegnato in una campagna creativa non violenta contro l’occupazione israeliana. Tramite l’organizzazione che ha fondato, “Giovani Contro gli Insediamenti”, offre alla comunità un centro nel quale i ragazzi possono esprimere la loro resistenza all’occupazione in modi non violenti.

Ogni settimana si radunano nel centro un centinaio di ragazzini: Amro proietta film, in grado in gradi di ispirarli e li educa ai principi della non violenza politica. Li coinvolge in progetti di manutenzione delle strade pubbliche, riparazione delle righiere, delle scalinate e delle tubature dell’acqua. Gestisce con altre persone un campo estivo e ha costruito e dirige un giardino d’infanzia. Nel 2010 le Nazioni Unite lo hanno insignito del premio “Difensore dell’anno dei Diritti Umani in Palestina” per il suo lavoro.

 

A partire dallo scoppio di quella che è diventata nota come “l’intifada dei coltelli”, nell’ottobre 2015, il lavoro di Amro si è fatto molto più difficile. Nell’ottobre scorso, mentre si trovava nel giardino del suo centro, ha ricevuto una telefonata da un vicino di casa che lo avvisava che, accucciata nel vano di un portone nei pressi del check point di Beit Hadassah, a poco meno di 200 metri da lui, c’era una ragazza aramata di coltello. Il vicino di casa ha intuito subito che la ragazza aveva in mente di pugnalare un soldato israeliano e, sapendo che di conseguenza quasi sicuramente sarebbe stata uccisa. Ha pensato di evitarle la morte e che la persona giusta da chiamare fosse Issa Amro. Amro si è diretto di corsa al checkpoint e ha trovato la ragazza rannicchiata e tremante. Si è inginocchiato accanto a lei e le ha parlato, dicendole che se avesse cercato di pugnalare un soldato sarebbe morta di sicuro. Lei ha risposto «non mi interessa, tanto per me non c’è speranza ». Amro le ha allora fatto presente che la sua morte non avrebbe aiutato la Palestina e che la sua comunità aveva bisogno di lei. Le ha parlato dei molti modi con i quali ci si può opporre a un’occupazione senza far ricorso alla violenza. «Non mi ha creduto » ricorda Amro, «ma ho iniziato a farle un esempio dietro l’altro ». Alla fine lei gli ha consegnato il coltello e lui l’ha affidata alla polizia palestinese. Da allora Amro ha ricevuto altre chiamate di aiuto per sventare atti violenti. Tra gli altri casi, c’è stato anche quello di una giovane donna che gli ha scritto su Facebook dicendo di volersi armare di coltello e andare incontro al martirio per il bene della causa palestinese. Anche in questo caso, Amro è riuscito a farle cambiare idea perorando la causa della non violenza: ha subito contattato gli amici della giovane, che sono riusciti a fermarla.

 

Questo dunque è l’uomo che ora rischia di scontare una lunga condanna in un carcere militare israeliano per reati che comprendono un battibecco da scuola infantile con parole che non ha mai pronunciato e un’aggressione della quale dice che non avrebbe potuto macchiarsi. L’accusa deve ancora rispondere alla mozione presentata dal suo avvocato di far cadere quattordici delle diciotto imputazioni a suo carico, sulla base di un “abuso di giustizia” e del fatto che esse sono state criticate da più parti.

Agli occhi del mondo l’impegno di Amro per la non violenza lo ha reso un portavoce di particolare rilievo e visibilità per il suo popolo. L’anno scorso ha ricevuto le visite di alcuni membri del Congresso americano e, pur essendo imminente la data originaria fissata per il suo processo, è andato in Belgio dove ha conosciuto il presidente del Parlamento europeo e ha preso la parola davanti all’assemblea dei parlamentari.

 

Esistono palestinesi che uccidono, che indossano giubbotti imbottiti di esplosivo per farsi saltare in aria, usano autobombe, aggrediscono a coltellate soldati e civili israeliani. Issa Amro non appartiene a questa categoria: al contrario, il suo impegno nei confronti del movimento che considera la resistenza non violenta l’unica strada percorribile per indurre un cambiamento duraturo, è la migliore speranza di pace per palestinesi e israeliani.

Se Israele perseguita e persegue penalmente organizzatori comunitari come Amro, alla gioventù palestinese non resterà nessun modello al quale fare riferimento per capire come dissipare frustrazione e disperazione. Gli unici rimasti saranno come Mohammad Tarayreh, che il 30 giugno 2016 si è intrufolato nell’insediamento di Kiryat Arba alla periferia di Hebron, ha fatto irruzione nella camera da letto di Hallel Yaffa Ariel, una tredicenne israeliana, e l’ha pugnalata a morte. A furia di incatenare il pugno alzato della resistenza, lasceranno libera soltanto la mano che impugna il coltello.

© 2017, The New York Times Traduzione di Anna Bissanti

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