http://www.lantidiplomatico.it/

08/03/2017

 

Ambasciatrice Palestina in Italia: "La povertà del nostro popolo è in buona parte causa dell'occupazione di Israele"

Mostafa El Ayoubi intervista a Mai Alkaila, Ambasciatrice dell'autorità palestinese in Italia

 

"Auspichiamo che l’Italia, a coronamento del suo inveterato impegno per la realizzazione dei diritti del popolo palestinese all’autodeterminazione, segua l’esempio dello Stato Vaticano e riconosca lo Stato di Palestina come indipendente e sovrano."

 

Le guerre e i conflitti che stanno disgregando il mondo arabo hanno offuscato in gran parte la questione palestinese. Lei come descriverebbe oggi la situazione sociale dei suoi concittadini?

 

Le condizioni di vita dei cittadini palestinesi sono fortemente compromesse dall’occupazione israeliana del loro Paese, delle loro città e delle loro terre. L’economia è povera per almeno quattro fattori, tutti legati all’occupazione israeliana: 1) il divieto d’ingresso ed esportazione a una serie di beni e materiali; 2) il trattenimento da parte di Israele del gettito delle imposte palestinesi; 3) la riduzione dei flussi di manodopera in Israele; e 4) la dipendenza del commercio palestinese dall’economia israeliana. Secondo la linea di povertà di 637 dollari al mese, fissata dall’Ufficio centrale delle statistiche palestinese (Pcbs) e ricavata dalle spese per cibo, vestiti, alloggio, manutenzione della casa, oggetti personali, cure mediche, istruzione e trasporto, il 25,8% della popolazione vive in povertà. Per molti palestinesi, quindi, l’occupazione significa l’impossibilità di accedere ai più elementari servizi di cui dovrebbero godere gli abitanti del pianeta.

Questa “situazione sociale” di per sé gravissima è resa ancor più intollerabile dalla “situazione umanitaria” di un popolo che vede calpestato il proprio diritto di esistere e a cui la vita viene resa impossibile con il preciso scopo di farlo desistere. I cittadini palestinesi sono infatti sottoposti a continue vessazioni perpetrate dalle forze di occupazione e dai coloni che vivono negli insediamenti abusivi. Violenze di ordine fisico e psicologico, che comprendono: ostacoli insormontabili (tra cui centinaia di posti di blocco e il Muro dell’Apartheid) al raggiungimento dei luoghi di lavoro, istruzione e cura; demolizioni di case come “punizione collettiva” e per contribuire, insieme alla confisca di terre, a fare spazio agli insediamenti israeliani; arresti indiscriminati sotto forma di detenzione amministrativa senza che ne sia fornita la ragione; e uccisioni a sangue freddo anche se la vittima palestinese non costituiva alcun pericolo. Per questo noi diciamo che per il popolo palestinese «esistere è resistere».

 

Quanto ha influito la guerra in Siria sulla già complessa e cronica situazione dei palestinesi?

 

La guerra sta avendo un effetto devastante sulla condizione dei rifugiati palestinesi in Siria, che si trovano in condizioni di partenza già molto difficili e con la sensazione di non essere più sicuri nel Paese dove hanno trovato rifugio. Prima della guerra civile, vivevano in Siria circa 560mila rifugiati palestinesi, scacciati dalla Nakba (catastrofe, ndr) del 1948 e dalla successiva occupazione israeliana. Con l’inizio di queste ostilità, sono stati posti di fronte a una sola alternativa: restare sotto le bombe o rimettersi in viaggio, rifugiati per la seconda o terza volta, questa volta possibilmente in Europa, se non fosse che per i palestinesi nati in Siria ma senza passaporto siriano la via dell’asilo non è così semplice. In molti se ne sono comunque andati. Secondo il Portavoce dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso ai rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (Unrwa), Christopher Gunness, sono almeno 110mila i palestinesi che hanno lasciato la Siria in seguito al conflitto ancora in corso: «Si tratta dei più vulnerabili tra i vulnerabili».

 

Come valuta la recente mediazione russa tra i vostri partiti politici? È praticabile l’idea di un governo di unità palestinese?

 

Accogliamo qualsiasi tentativo di qualsiasi Stato che voglia contribuire al raggiungimento della pace. L’idea di un governo di unità palestinese è praticabile nella misura in cui le forze politiche che non fanno parte dell’Olp vorranno adottare il programma dell’Organizzazione che rappresenta tutto il popolo palestinese.

 

Sono sempre in aumento gli insediamenti israeliani nei Territori occupati. Tale situazione sta rendendo sempre più improbabile la soluzione dei due Stati. Lei che ne pensa?

 

Il furto della nostra terra è stato e continua ad essere portato avanti da Israele, sia con le sue forze di occupazione e gli insediamenti dei coloni sia attraverso il Muro dell’Apartheid.

Di fatto, la Palestina non ha mai smesso di “restringersi” a partire dalla creazione dello Stato di Israele nel 1948. Dal 1967, Israele ha cominciato a colonizzare i Territori palestinesi trasferendo sistematicamente parte della propria popolazione civile di religione ebraica in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, in aperta violazione del diritto internazionale. Oggi, più di mezzo milione di coloni israeliani vive in insediamenti costruiti su terra espropriata illegalmente in Cisgiordania, che variano da “avamposti” di poche case a intere città abitate da decine di migliaia di coloni.

 

Siamo stati da poco testimoni da un lato dell’approvazione da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite della Risoluzione 2334 che condanna tutti gli insediamenti israeliani (23 dicembre 2016); e dall’altro dell’approvazione il 6 febbraio da parte della Knesset (il Parlamento israeliano, ndr) della “Legge di Regolarizzazione” che legalizza circa 6.000 abitazioni costruite su terreni privati di cittadini palestinesi. Obiettivo ed effetto dell’impresa degli insediamenti, che includono infrastrutture gigantesche, è quello di alterare lo status dei Territori palestinesi da un punto di vista sia fisico che demografico. Di conseguenza, i palestinesi al momento vivono sul 50% di un territorio che già rappresentava il 22% della Palestina storica, cioè sull’11% della nostra terra. Limitando la nostra porzione di terra, la continuità territoriale e l’agibilità delle attività economiche nei Territori palestinesi, gli insediamenti rappresentano indubbiamente la minaccia più grave alla costruzione di uno Stato palestinese indipendente e, quindi, al raggiungimento di una pace giusta e duratura tra israeliani e palestinesi. 

 

Quali potrebbero essere le conseguenze dell’eventuale riconoscimento, da parte del nuovo governo statunitense, di Gerusalemme come capitale dello Stato d’Israele?

 

La questione di Gerusalemme, occupata ad est da Israele dal 1967, e così importante per le tre religioni monoteistiche, rappresenta una delle questioni relative allo status finale, per il quale i palestinesi chiedono Gerusalemme Est come capitale del loro Stato. Nessuno dovrebbe prendere una decisione tale da pregiudicare i negoziati, perché questo significherebbe la distruzione dell’intero processo di pace. In questo senso, sono d’accordo con l’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, quando dice che è difficile prevedere quali reazioni potrebbero esserci ad una decisione che non è stata ancora presa, ma sono come lei preoccupata per l’eventualità di una mossa contraria alle risoluzioni Onu e che rappresenterebbe un vero e proprio schiaffo alla legalità e ai diritti del popolo palestinese.

 

Che cosa potrebbe fare l’Italia per evitare che il conflitto israelo-palestinese rimanga fuori dai riflettori e si trasformi in un normale fatto di cronaca?

 

La “Legge di Regolarizzazione” ha destato particolare clamore e ha richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale su una questione come quella degli insediamenti che in realtà affligge la Palestina da 50 anni. Il rischio di assuefazione di fronte a un conflitto che va avanti da ancora prima c’è, come c’è molta disinformazione rispetto a ciò che avviene regolarmente a Gaza e in Cisgiordania.

Noi riteniamo che, prestando la dovuta attenzione a una questione irrisolta come quella palestinese, la comunità internazionale possa non solo aiutare a chiudere un periodo buio, spalancando le porte della pace tra noi e gli israeliani; ma contribuire in questo modo al recupero della stabilità nell’intera regione mediorientale. L’Italia, in particolare, ha una lunga storia di amicizia con la Palestina, e il popolo italiano è un popolo amico. Auspichiamo che l’Italia, a coronamento del suo inveterato impegno per la realizzazione dei diritti del popolo palestinese all’autodeterminazione, segua l’esempio dello Stato Vaticano e riconosca lo Stato di Palestina come indipendente e sovrano.


https://disqus.com/by/RobyGi/

commento

9 marzo 8:41

 

Purtoppo l'auspicio dell'ambasciatrice Mai Alkaila è destinato per il momento a rimanere una pia illusione, dato che l'attuale dirigenza politica italiana nonchè i media sono servi assoluti degli interessi di Usa e Israele. Si tace costantemente sia sulle morti che sulle vessazioni che quotidianamente deve subire il popolo palestinese e solo quando interviene qualche vittima israeliana la questione conquista le prime pagine dei giornali. Durante la prima repubblica avevamo invece una certa autonomia in merito a visioni di politica estera ed il nostro governo era decisamente orientato in favore della Palestina ed anche per questo quella classe politica venne azzerata attraverso la sedicente operazione "mani pulite".

 

Qui il celebre discorso tenuto da Craxi alla camera nel novembre dell'85 sulla resistenza armata dei palestinesi. Ed è interessante notare da dove gli giungono gli attacchi più violenti: https://youtu.be/8as9n_J-Pvo

top