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13 giu 2017

 

Sale a 62 il numero dei siti d’informazione bloccati dal governo egiziano

di Roberto Prinzi

 

A rivelarlo è stata ieri la ong Afte. Le prime chiusure erano iniziate lo scorso 24 maggio. Tiene banco, intanto, la cessione ai sauditi delle isole di Sanafir e Tiran: gruppi d’opposizione e alcuni partiti politici boicottano il dibattito parlamentare. 550 giornalisti annunciano un sit-in di protesta

 

Roma, 13 giugno 2017, Nena News –

 

Sale a 62 il numero dei siti d’informazione vietati in Egitto. A riferirlo è stata ieri la ong egiziana per la Libertà di pensiero ed espressione (Afte), in prima fila nel monitoraggio della rete da quando, lo scorso 24 maggio, il regime di al-Sisi ha imposto un duro giro di vite contro i media online.

Secondo l’organizzazione non governativa, la chiusura dei siti decisa dal governo è “un chiaro attacco all’informazione e viola la costituzione egiziana” e ha luogo senza che il Cairo abbia rivelato la decisione amministrativa e giudiziaria che motiva il divieto. Tra gli ultimi iscritti nella lista di proscrizione, scrive Afte, vi sono alcuni siti turchi e gli egiziani al-Badil e al-Bedaya che spesso pubblicano articoli critici contro le politiche del governo.

Per comprendere quanto sta accadendo bisogna tornare indietro allo scorso 24 maggio quando il governo ha deciso di bloccare 21 siti di informazione. Tra questi, al-Jazeera, l’Huffington Post in arabo e l’egiziano e indipendente Mada Masr. Le autorità egiziane motivarono allora le chiusure con il fatto che le pagine dei media in questione contenevano “materiale in sostegno al terrorismo e all’estremismo” e perché pubblicavano “bugie”. 

Intervistata dalla Reuters, la direttrice di Mada Masr, Lina Atallah, ha spiegato perché il Cairo si sta muovendo in questo modo: “Se [le autorità] decidessero di fare qualcosa più grave, tipo arrestarmi o fermare i membri della nostra redazione farebbero molto più rumore. Invece, bloccare il sito è il modo migliore per paralizzarci senza dover poi pagare un caro prezzo”. In pratica, l’obiettivo è silenziare il dissenso mantenendo un basso profilo in modo da non destare troppo scalpore sia localmente che, soprattutto, tra gli alleati del “Je suis Charlie” in Occidente.

A condannare il duro giro di vite imposto dal governo e a ribadire l’importanza di una stampa libera è anche l’Indice di Censura, una pubblicazione che difende la libertà d’espressione. “I media indipendenti – si leggeva in un comunicato datato 31 maggio – non devono pagare il prezzo dell’attuale disputa politica tra i Paesi della regione”. Il bando ai vari siti web si inserisce in un contesto repressivo ben più ampio a livello nazionale: dallo scorso aprile, in seguito al duplice attacco contro due chiese copte, è in vigore lo stato d’emergenza.

Questi provvedimenti straordinari dettati ufficialmente dal bisogno di “sicurezza e protezione” garantiscono al presidente al-Sisi poteri speciali che includono tra le varie cose: la censura e la confisca di pubblicazioni; il monitoraggio e il blocco di tutte le forme di comunicazione; restrizioni sulla libertà di movimento di qualunque cittadino. Senza dimenticare poi che una legge “anti-terrorismo” adottata nell’agosto del 2015 stabilisce dure pene per chi pubblica “false informazioni” su eventuali attacchi contro l’Egitto. Dove per “false informazioni” si intendono le notizie che contraddicono la versione ufficiale del ministero della Difesa. Considerati questi elementi, non sorprende che un rapporto di Reporter senza Frontiere colloca l’Egitto 161esimo (su 180 Paesi) in quanto a libertà di stampa.

La battaglia per la riapertura dei media online sembra essere destinata a durare. Il segretario generale del sindacato dei giornalisti, Hatem Zakaria, ha detto all’Afp che la sua e un’altra organizzazione stanno pensando di inoltrare alle autorità una richiesta formale per ricevere spiegazioni su quanto sta accadendo.

Sempre all’Afp, il direttore del sito d’opposizione al-Bedaya, Khaled el-Bashy, ha detto di aver inviato un reclamo al sindacato dei giornalisti per sapere perché il suo sito è al momento fuori uso e quale autorità statale ha preso questa decisione. El-Bashy ha poi osservato come le nuove misure restrittive imposte dal Cairo coincidano con il dibattito in corso in parlamento riguardo alla consegna all’Arabia Saudita delle due isole di Tiran e Sanafir. 

A tal riguardo, un gruppo di 550 giornalisti locali ha annunciato domenica un sit-in di protesta contro la loro cessione. In un comunicato riportato dal sito Arabi21, gli operatori dell’informazione hanno invitato i parlamentari a “proteggere la nazione non rinunciando ai territori egiziani”. La nota giungeva nelle stesse ore in cui il governo provava a stemperare gli animi affermando che manterrà il controllo amministrativo delle due isole nonostante la cessione ai sauditi. In un rapporto, infatti, le autorità fanno sapere che “l’accordo [con i sauditi] pone soltanto fine alla sovranità egiziana, ma non mette fine alla necessità egiziana di proteggere quest’area per ragioni della sicurezza nazionale nostra e dei sauditi”.

Non tutti però credono alle rassicurazioni del Cairo: domenica diversi gruppi politici e partiti d’opposizione hanno detto no al dibattito parlamentare sulla questione Tiran-Sanafir. Il loro rifiuto, affermano, nasce dal fatto che dopo 9 mesi di proteste la Corte suprema amministrativa ha emesso una sentenza a gennaio che ribadisce la sovranità egiziana delle due isole. Ma il regime tira dritto e, dopo aver presentato il piano in parlamento, è pronto a votarlo. Secondo quanto riferisce Arabi21, anche approfittando dell’assenza di un gruppo di deputati ostili all’accordo con i sauditi che saranno impegnati in una visita negli Stati Uniti proprio nei giorni in cui è atteso il voto.

La proprietà di Tiran e Sanafir, per più di 3 decenni sotto il controllo egiziano, è stata a lungo dibattuta nel corso degli anni dal Cairo e Riyadh che ne hanno rivendicato rispettivamente l’appartenenza. Alla base dell’accesa disputa diplomatica vi è l’importanza strategica che le due isole hanno poiché si trovano tra la città giordana Aqaba e quella israeliana di Eilat. Una rilevanza geopolitica, del resto, che non è sfuggita alla stessa Tel Aviv che le aveva occupate nel 1967 durante la Guerra dei Sei Giorni salvo poi restituirle nel 1982 agli egiziani in seguito agli accordi di pace di Camp David.

La loro recente cessione ai “fratelli” sauditi stabilita l’anno scorso aveva generato accese proteste da parte di numerosi egiziani che avevano accusato il governo di averle “vendute” in cambio di aiuti economici. Un sostegno finanziario di cui il governo egiziano ha sempre più bisogno per sopravvivere vista la situazione economica in cui versa, ma che ha un prezzo esoso: Riyadh ha comprato la fedeltà egiziana in politica interna (nella repressione dei Fratelli Musulmani) e in quella estera con prestiti, finanziamenti, donazioni e accordi sull’export di greggio. Nena News

 

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