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Giovedì 25 gennaio 2018

 

Sangue sull’epifania copta

di Marco Cochi

 

A Woldiya, città della regione Amhara, sabato scorso le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco sui fedeli che scandivano slogan contro il governo che emargina la regione. Sette le vittime. Proteste dell’Onu e delle organizzazione per i diritti umani.

 

Sette persone sono state uccise sabato scorso in Etiopia, nella città di Woldiya, regione settentrionale dell’Amhara, dove si stava celebrando il Timkat, la solennità religiosa più importante dell’Etiopia, che secondo la Chiesa ortodossa copta corrisponde all’Epifania. La festa dura due giorni nei quali si commemora il battesimo di Gesù nel fiume Giordano e vengono portate in processione in tutto il paese riproduzioni delle tavole con i dieci comandamenti (chiamate tabot), coperte da drappi colorati e accompagnate da incessanti danze e cori dei fedeli.

Questi cori si sono trasformati in slogan antigovernativi, come spesso accade durante gli eventi sociali e religiosi, che vengono sfruttati dagli etiopi per esprimere il loro risentimento verso l’esecutivo che proibisce di tenere dimostrazioni pacifiche.

In varie occasioni, le forze di sicurezza hanno reagito in maniera molto violenta. È accaduto anche sabato scorso, quando secondo quanto reso noto da fonti locali, la polizia ha aperto il fuoco con una mitragliatrice mentre la folla stava scandendo slogan. Sempre lo stesso giorno, sono stati segnalati violenti scontri tra le forze di sicurezza governative e gli abitanti di Bahir Dar, dove il 21 gennaio si è tenuto il concerto del cantante etiope Teddy Afro, diventato una bandiera delle proteste anti-governative.

L’uso spropositato della forza da parte della polizia etiope a Woldiya è reso ancora più deplorevole dal fatto che arriva solo due settimane dopo l’annuncio della coalizione di governo, guidata dal Fronte democratico rivoluzionario popolare etiopico, di intraprendere riforme per rispondere alle richieste popolari. Senza contare, che all’inizio di questo mese, il primo ministro Hailemariam Desalegn ha annunciato che l’Etiopia avrebbe rilasciato alcuni prigionieri politici e chiuso la famigerata prigione di Maekelawi, che negli anni ha funzionato come centro di tortura dove interrogare brutalmente gli oppositori del regime.

Instabilità

Le manifestazioni contro il governo sono iniziate nel 2015, quando il più grande gruppo etnico dell’Etiopia, gli oromo, hanno protestato contro il progetto di integrare Addis Abeba in una macroregione urbana. La decisione avrebbe causato alla comunità oromo una grave perdita di autonomia e l’avrebbe relegata nelle zone periferiche della capitale etiope.

Agli oromo si sono presto uniti gli amhara, il secondo gruppo etnico più numeroso, che da tempo lamentava di essere emarginato dal potere centrale, oltre a puntare il dito contro la corruzione dei politici locali, la mancanza di democrazia e l’eccessivo potere dei tigrini che rappresentano solo il 6% della popolazione.

Nell’ottobre 2016, nel tentativo di fermare i disordini, il governo ha imposto per dieci mesi lo stato di emergenza. Subito dopo sono riprese le proteste. Ravina Shamdasani, portavoce dell’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, ha espresso la propria preoccupazione per la morte dei fedeli copti a Woldiya e ha aggiunto che nel tentativo di silenziare le voci del dissenso, le forze di sicurezze etiopi fanno sistematicamente ricorso a un uso eccessivo della forza.

Inoltre, le principali organizzazioni impegnate nella salvaguardia dei diritti umani hanno più volte denunciato la durissima repressione nei confronti degli oromo e degli amhara. E in numerose occasioni hanno biasimato il silenzio dei partner stranieri di Addis Abeba, a cominciare dall’Unione europea, che non è mai andata oltre le semplici dichiarazioni ufficiali.

 

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