articolo apparso sul numero 22 di Heliodromos del 21 Aprile 2010

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Lug 28, 2018

 

Senza Solzenicyn

 

A dieci anni dalla scomparsa del grande scrittore russo, vogliamo qui ricordarlo riproponendo questo articolo apparso sul numero 22 di Heliodromos (21 Aprile 2010), dove l’attualità del suo impegno e del suo pensiero appare, se possibile, ancora più vero e reale di allora. Se oggi la Russia di Putin si presenta come una valida alternativa alla dittatura del pensiero unico mondialista e all’imperialismo democratico, lo si deve anche all’impronta lasciata da Aleksandr Solzenicyn.

 

Da oltre un anno, senza Solzenicyn il mondo è più povero. La sera del 3 agosto 2008 Aleksandr Isaevich Solzenicyn, il grande scrittore e pensatore russo che è vissuto fuori dalla menzogna, moriva nella sua casa di Mosca all’età di 89 anni. Con la relativa tempestività che le uscite di questa rivista consentono, dopo quella scomparsa che ha rappresentato una grave perdita per la cultura non solo russa ma anche europea e mondiale, ci sembra giusto dedicargli un doveroso ricordo.

 

Il nostro omaggio comincia, come s’è visto, dalla copertina di questo numero di Heliodromos, in cui compare un Solzenicyn rappresentato in divisa nazista. L’illustrazione è opera del disegnatore Fabio Bonzi, ed è ripresa da un vecchio numero del mensile Linus (“rivista dei fumetti e dell’informazione”, come recitava la testata), del giugno 1974 (1). Solzenicyn veniva assimilato in quel numero di Linus ad altri personaggi politici dell’epoca, anch’essi ritratti in uniforme SS, tutti quanti invisi, chi per un motivo chi per un altro, al Partito Comunista Italiano e quindi a Mosca, che all’epoca dettava ancora le direttive e la linea da seguire ai partiti satelliti dei paesi occidentali.(2) A commento di un articolo della giornalista Lietta Tornabuoni sul “Nazismo nel cinema”, la galleria di “mostri sanguinari” comprendeva, oltre allo scrittore insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1970 e appena espulso dalla Russia, Augusto Pinochet, Richard Nixon, Francisco Franco e altri …nemici del progresso.

 

A distanza di tempo, si può affermare che quell’ostracismo e quel giudizio totalmente negativo su uno dei più grandi scrittori del secolo appena trascorso, è rimasto immutato ed è stato addirittura incrementato dell’accusa di antisemitismo che, nel curriculum di Solzenicyn, si è andata ad aggiungere a quelle precedenti, tipicamente comuniste, di controrivoluzionario e di agente della reazione. Come hanno ampiamente dimostrato le rievocazioni giornalistiche in occasione della sua scomparsa, che gli hanno voluto addebitare come colpe il richiamo alla Grande Russia Contadina, le critiche alle democrazie occidentali, gli ammonimenti sui rapporti tra russi ed ebrei e l’appoggio a Vladimir Putin.

 

Da Una giornata di Ivan Denisovic ad Arcipelago Gulag, le opere che gli valsero il Nobel, ma gli costarono la perdita della cittadinanza russa; dall’esilio nei boschi di Cavendish nel Vermont, dove lo scrittore ricostruì un angolo di Russia e rifiutò caparbiamente di integrarsi in quella cultura americana che gli appariva quanto di più estraneo potesse esserci alla sua natura, lavorando alla monumentale opera sulla rivoluzione russa, La Ruota Rossa; fino al dissolvimento dell’Urss con la perestrojka e al suo rientro in patria, Solzenicyn rimase sempre fedele a un’idea alta dell’uomo e del popolo russo. E quest’idea che, per la redenzione del grande paese martirizzato dal lunghissimo dominio sovietico, presupponeva il ritorno alla povertà e semplicità contadina ed il richiamo alla spiritualità e alla profonda religiosità russa, risultava altrettanto inaccettabile per il trionfante capitalismo così come lo era stata per il soccombente comunismo.

 

E il fatto che Solzenicyn, dopo il rientro a Mosca, avesse ripreso a criticare il corrotto regime costituitosi all’ombra dell’alcolizzato Eltsin e guidato da oligarchi rapaci e senza scrupoli – così funzionali e in sintonia con l’Occidente – non faceva che accentuare la diffidenza verso questo “guastafeste” che aveva la pretesa di dire cosa fosse bene e cosa fosse male per il suo paese.

 

All’Occidente democratico egli aveva riservato lucide frecciate già nel discorso tenuto all’Università di Harvard l’8 giugno del 1978, dove, descrivendo “un mondo in frantumi”, considerava non degna dell’uomo una società basata esclusivamente sulla bilancia giuridica: «Quando tutta la vita è compenetrata dai rapporti giuridici, si determina un’atmosfera di mediocrità spirituale che soffoca i migliori slanci dell’uomo». Una società che si preoccupa solo ed esclusivamente dei diritti dei suoi cittadini, senza porre loro il problema dei doveri, non è in grado di affrontare le prove che i tempi impongono. L’autorità si vede tramutata in rincorsa del consenso. «Ed è così che col pretesto del controllo democratico si assicura il trionfo della mediocrità».

 

L’unica libertà che conta dovrebbe essere la libertà di fare il bene, ma «la società si è rivelata scarsamente difesa contro gli abissi del decadimento umano, per esempio contro l’utilizzazione delle libertà per esercitare una violenza morale sulla gioventù: si pretende che il fatto di poter proporre film pieni di pornografia, di crimini o di satanismo costituisca anch’esso una libertà». «E che dire degli oscuri spazi in cui si muove la criminalità vera e propria?» Ovviamente Solzenicyn non poteva trascurare il ruolo della stampa, sotto il cui termine egli comprende i mass media in generale, che concorre in modo determinante alla diffusione della superficialità delle coscienze ed all’inconsistenza morale delle società democratiche: «La stampa ha il potere di contraffare l’opinione pubblica e anche quello di pervertirla (…) “Tutti hanno il diritto di sapere tutto” (slogan menzognero per un secolo di menzogna, perché assai al di sopra di questo diritto ce n’è un altro, perduto oggigiorno: il diritto per l’uomo di non sapere, di non ingombrare la sua anima divina di pettegolezzi, chiacchiere, oziose futilità. Chi lavora veramente, chi ha la vita colma, non ha affatto bisogno di questo fiume pletorico di informazioni abbrutenti)».

 

Al crollo dell’Urss nel 1989, sotto il peso di una menzogna diventata oramai insopportabile, Solzenicyn, che era stato attento studioso e implacabile inquisitore del cancro che per 70 anni aveva corroso la sua patria, sentì il bisogno di dare un suo contributo costruttivo che potesse fornire un orientamento nel clima di bufera che avvolgeva la non più Unione Sovietica, ma non ancora Rus’, pubblicando nel suo esilio americano un prezioso pamphlet, dov’è sintetizzato in pagine lucidissime il suo pensiero politico.(3)

 

Scriveva il Nobel russo: «È giunta l’ora di una scelta recisa: tra un impero che distrugge prima di tutto noi stessi, e la salvezza spirituale e fisica del nostro popolo. (…) Mantenere un grande impero significa soffocare il nostro stesso popolo. A che questo guazzabuglio multicolore? Perché i russi smarriscano il loro irripetibile profilo? Non è alla dimensione dello stato che dobbiamo mirare, ma alla purezza dello spirito, per quel che ce ne resta». Anteponendo alle secolari pulsioni geopolitiche dell’immenso paese degli Zar, la necessità per il popolo russo di concentrarsi in se stesso, onde riemergere dagli abissi politici e morali in cui l’aveva scaraventato la menzogna comunista, Solzenicyn mostrava un realismo che, di lì a poco, gli assestamenti seguiti al crollo sovietico avrebbero effettivamente confermato.

 

 

In tanti danzarono scompostamente sotto le macerie del “Muro di Berlino”, plaudendo ad una nuova era di pace e democrazia. Ma il guastafeste Solzenicyn mise subito in discussione proprio questo futuro democratico, da lui abbondantemente toccato con mano durante l’esilio statunitense, riportando un giudizio di Dostoevskij sul voto universale e paritario: «la più ridicola invenzione del secolo XIX». Egli vedeva giustamente nell’imposizione del sistema democratico, in accordo con l’altro grande scrittore russo a cui è stato non impropriamente accomunato, «il trionfo di una quantità priva di contenuto su una qualità ricca di contenuto.

 

E poi, elezioni simili (di “tutti i cittadini”) presuppongono una destrutturazione della nazione: questa non è più un organismo vivo, ma una meccanica somma di unità disperse». La selezione che viene determinata dal voto libero e segreto è la negazione più completa della qualità, perché «di norma ottengono più voti quelli dalla parola più facile o quelli che godono di appoggi mascherati». Facile profeta, Solzenicyn constatava che «le campagne elettorali con un gran numero di votanti, svolte spesso presso un elettorato sconosciuto sono vacue, chiassose, con gran coinvolgimento di mass media, e tutto questo disgusta buona parte della popolazione. La televisione rivela l’aspetto, i comportamenti esteriori del candidato, non le sue capacità di statista. (…) Di per sé questo sistema non induce gli uomini politici a comportamenti che travalicano i loro interessi politici, anzi il contrario: chi parte da principi morali può venir facilmente emarginato». E per suggellare definitivamente il suo giudizio, faceva sua la conclusione di Tocqueville: «la democrazia è il regno della mediocrità».

 

Il fatto che le decisioni importanti vengano prese in sedi anonime ed incontrollate, dietro le quinte, sotto le pressioni di “gruppi di potere” e di “lobbisti”, costituisce il segno più evidente della funzione di foglia di fico attribuita dal potere alla cosiddetta democrazia. Tutte le aristocrazie, e quindi le élite, sono destinate a scomparire e dissolversi, determinando un inevitabile impoverimento di competenze, capacità e conoscenze; rimanendo a primeggiare la sola aristocrazia possibile nel sistema democratico: l’aristocrazia del denaro. «Disgusta poi che la pseudo élite intellettuale, generata dall’attuale competitività pubblicitaria, derida l’assolutezza dei concetti di Bene e Male, mascherando la propria indifferenza dietro il “pluralismo delle idee” e dei comportamenti. (…) L’indipendenza spirituale è stata messa in un angolo, schiacciata dalla dittatura della volgarità, delle mode e degli interessi settoriali».

 

Il Nobel russo, sempre in questo suo breve ma intenso progetto di ricostruzione nazionale, paventando una Russia che dopo essere stata vittima del partito unico bolscevico, diventasse vittima ora di più partiti, faceva sue le parole di Tito Livio: «La lotta tra i partiti è, e sempre sarà, per il popolo sciagura di gran lunga più grave della guerra, della fame, delle pestilenze e d’ogni altro castigo di Dio». Partito significa di parte, per questo «bisogna impedire che i “politici di professione” surroghino la voce del paese»; mentre «le società segrete, al contrario, vanno perseguite penalmente in quanto congiure contro la società».

 

L’alternativa che Solzenicyn proponeva era quella delle piccole entità locali, legate al territorio, dove ci si conosce tutti ed opera un effettivo senso comunitario: «Senza un’amministrazione locale correttamente impostata, non vi può essere sicurezza di vita, e perde ogni significato il concetto stesso di “libertà civile”». E per dare concretezza alla sua proposta, egli riportava un’esperienza fatta in Svizzera, nei primi anni del suo esilio: «Nella piazza cittadina, serrati l’uno accanto all’altro, si riunirono tutti gli uomini aventi diritto di voto (“gli uomini in grado di portare armi”, come propose Aristotele).

 

La votazione era pubblica, per alzata di mano. Il capo del governo cantonale, il landmano, fu rieletto con entusiasmo e visibile simpatia, ma delle sue proposte legislative ne bocciarono tre: in te abbiamo fiducia, ma queste proposte non ci aggradano!». Solzenicyn richiamava alla memoria, per analogia, forme di rappresentanza locali proprie dello stato russo prerivoluzionario, (tributando, fra l’altro, un esplicito riconoscimento all’operato del ministro dello zar Stolypin!) dove questo stretto contatto fra rappresentanti e rappresentati esistette già, aggiungendo che «è ovvio che quell’esperienza non possa essere meccanicisticamente trasferita al nostro dilaniato paese di oggi, dove sono state scardinate le basi stesse della vita, ma senza di essa ben difficilmente potremmo imboccare la giusta strada».

 

Non ci si deve quindi sorprendere più di tanto se negli anni che gli restarono da vivere dopo il suo rientro in Russia lo scrittore condivise ed approvò l’operato del presidente Putin. L’incontro fra l’ex deportato e l’ex ufficiale del Kgb costituì il segno tangibile dell’avvenuta chiusura, non solo col passato sovietico, ma anche con la Russia di Eltsin, ostaggio degli avvoltoi dell’alta finanza interna (gli oligarchi indebitamente arricchitisi grazie alle privatizzazioni selvagge, che avevano messo sul mercato a prezzi stracciati le enormi risorse irrigate con le lacrime e il sangue del popolo russo) ed internazionale. Il fatto che gli odierni detrattori di Putin, strenui difensori della democrazia e della libertà (libertà di demolire il tessuto sociale e di degradare il livello morale dei popoli, nonché libertà di rubare e saccheggiare le risorse nazionali) (4), coincidano perfettamente con gli avversari di ieri e di oggi dello stesso Solzenicyn, è un elemento che già da solo ci può fornire elementi utili a valutare con indipendenza e senza pregiudizi la figura del presidente della Federazione russa. Gazprom e kalašnikov, alla lunga, potranno rivelarsi molto più efficaci e decisivi nella difesa dei diritti umani e delle libertà fondamentali dei popoli, nonché nell’indipendenza alimentare di una buona fetta dell’umanità, delle chiacchiere inconcludenti dell’impotente Unione Europea e della esibizione degli oramai flaccidi muscoli dell’ex superpotenza statunitense.

Enzo Iurato

 

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(1) È probabile che ai giovani di oggi quel nome faccia pensare solo ed esclusivamente ad un software per computer, ma la rivista diretta da Oreste Del Buono, che pubblicava in Italia i Peanuts di Charles Schulz, rappresentò in quegli anni un importante punto di riferimento per l’immaginario collettivo di tanti giovani, non solo di sinistra (per la sua totale organicità alla cultura comunista), ma anche per gli altri che non riuscivano ad accontentarsi delle scarse vignette del Borghese e di Candido. Il fatto che poi sulle sue pagine si potessero leggere le avventure di Corto Maltese o le storie surreali disegnate da Benito Jacovitti, sicuramente non riconducibili ad una sensibilità di tipo comunista, permetteva di passare sopra tante insopportabili manifestazioni del conformismo progressista presenti sul mensile milanese.

 

(2) Il servilismo acritico, accettato con entusiasmo e mostrato con l’orgoglio con cui si esibisce una decorazione, è una malattia congenita dell’intellettuale (che nulla ha da spartire con l’uomo di cultura ed il saggio, alla cui nobile razza Solzenicyn apparteneva di diritto!); il quale intellettuale, dovendo per sua necessità vitale essere al passo coi tempi, lega di volta in volta il suo cavallo al carro del vincitore del momento. E così in quegli anni Settanta si assistette in Italia alle penose performance delle mosche cocchiere, organiche al pensiero marxista ed al comunismo internazionale, tristi epigoni di quelle marionette staliniane manovrate nella Parigi fra le due guerre mondiali dal “puparo” Ilia Erenburg. Ovviamente, molti di quelli (per lo meno fra i sopravvissuti!) li ritroviamo oggi riciclati interpreti e zelanti difensori del pensiero unico liberal-capitalistico; e dunque tutt’ora coerenti nel loro trasformismo, sempre nemici e censori di Solzenicyn.

 

(3) A. Solzenicyn, Come ricostruire la nostra Russia? Considerazioni possibili, Rizzoli, Milano 1990.

 

(4) In un discorso pronunciato il 1° giugno 1976 presso la Hoover Institution in occasione del conferimento dell’American Friendship Award, Solzenicyn aveva ulteriormente ribadito la sua idea in proposito: «Libertà, dunque, è la “libertà” di sporcare con rifiuti commerciali le cassette della posta, gli occhi, le orecchie, i cervelli degli uomini e le trasmissioni televisive, al punto che è impossibile vederne una dall’inizio alla fine senza interruzioni. “Libertà” di sputare pubblicità e propaganda sugli occhi e sulle orecchie dei pedoni e degli automobilisti. “Libertà” degli editori di riviste e dei produttori di cinema di portare sulla strada sbagliata le nuove generazioni con immagini provocanti ed equivoche. “Libertà” dei giovani fra i quattordici ed i diciotto anni, che stanno crescendo, di abbandonarsi all’ozio e ai piaceri fatui, invece di imboccare la via del vero impegno e della crescita morale. “Libertà” delle persone giovani e sane di dedicarsi a nessun lavoro e di vivere alle spalle della società. “Libertà” degli scioperanti di usurpare diritti e di privare il resto dei cittadini di una vita normale, del lavoro, dei mezzi di trasporto e persino dell’acqua e degli alimenti. “Libertà” di presentare in tribunale testimoni di comodo anche quando l’avvocato sa che il proprio assistito è colpevole. “Libertà” di interpretare in modo così estremistico le regole assicurative da trasformare in usura persino l’azione di un samaritano. “Libertà” di volgari scrittorelli d’occasione, irresponsabilmente portati a trattare in modo superficiale i problemi, formando così l’opinione pubblica in modo frettoloso. “Libertà” del fabbricante di pettegolezzi, che riesce ad impedire al giornalista, per calcolo egoistico, di avere pietà del suo prossimo e della sua patria. “Libertà” di divulgare i segreti militari e di sicurezza del proprio paese al fine di perseguire fini politici personali. “Libertà” dell’uomo d’affari nelle transazioni commerciali, insensibile al numero di esseri umani che potrebbero essere pregiudicati dalle stesse e al danno che potrebbe arrecare alla patria. “Libertà” del politico di parlare irriflessivamente di ciò che piace ai lettori di oggi, senza curarsi della loro sicurezza e del loro benessere futuri. “Libertà” dei terroristi che sfuggono alla pena, il che significa che la pietà nei loro confronti si trasforma in una sentenza di morte nei riguardi della società. “Libertà” di restare indifferenti dinnanzi ad una libertà lontana, straniera, che sia stata calpestata. “Libertà” di non difendere neppure la propria libertà: “che siano gli altri a rischiare la pelle”